“Lo vedo tornare indietro, il costume
nero, i capelli ancor più attaccati al cranio, la pelle abbronzata, il suo
Rolex d’oro a luccicare nel sole del pomeriggio, il suo solito sorriso
dolcemente enigmatico; per me è un dio, è un idolo, è Nettuno. Junghianamente,
il padre è l’idolo invincibile, e quando muore, così è per tutti, se ne va un
grosso pezzo di mondo, il pezzo corazzato a qualsiasi urto del destino.
Quell’uomo affascinante che veniva fuori dalle onde della magnifica Tonnara col
suo passo muscoloso era il mio dio, e io non potevo che credere in lui: nella
sua possanza, nella ragione delle sue parole, nella sua saggezza che esprimeva
anche nei gesti. Il figlio accetta di non discutere il padre non per
imposizione, ma per imposizione dell’idolo che è in lui. E ucciderlo davvero,
quest’idolo, è affare che può durare una vita. Ma va fatto; io credo che
l’idolo vada finalmente abbattuto per centrare meglio se stessi, e superare
quell’inevitabile complesso d’inferiorità che ci sommerge a volte come una
maledizione.”
Confrontarsi con il proprio padre significa scoprirsi, ed è una scoperta vertiginosa
e sconvolgente, non i protagonisti della
propria vita, ma semplicemente i deuterantagonisti, dei comprimari del
protagonista, della figura paterna che
ha determinato quello che siamo e dalla quale dipendiamo per essere quel
che saremo da adulti (perché sentirsi adulti è un lavoro mai compiuto, come
sentirsi uomini). Se la voce del padre ha risposto alla domanda: "Papà, che macchina è?", se i suoi occhi ci hanno guardato, se il suo sguardo
severo o bonario si è posato su di noi, allora noi, quei bambini che siamo
stati, potremo diventare a nostra volta qualcosa, qualcuno, a prezzo però di
dover combattere nel e contro l’esempio paterno che agisce dentro di noi; viceversa,
se quello sguardo non si è mai posato, non saremo niente e dovremo rinascere a
noi stessi per continuare a vivere. Nell’uno e nell’altro caso esistere
significa ingaggiare un corpo a corpo amoroso e mortale con l’ombra che
accompagna il nostro cammino, con chi ci ha indicato la strada, anche quando
non lo ha fatto e forse ancor di più, senza che noi avessimo potuto
chiederglielo. Il padre è ciò da cui proveniamo, è il peso più grande, ed è ciò
a cui torniamo, il più delle volte senza saperlo e senza volerlo consciamente, perché le maledizioni e le colpe dei padri, come gli esempi, ricadono
sui figli e questa è una verità difficilmente smentibile.
Il romanzo Era mio padre di Franz
Krauspenhaar, Fazi 2008, si
confronta, in un’anamnesi personale e familiare, in cui l’autore si pone a
cuore aperto verso il lettore sfidandolo a seguirlo fino al termine del suo
viaggio, con il groviglio irrisolto che ogni padre è nella vita del figlio. E
questo groviglio è reso con una scrittura densa con passaggi di una chiarezza
cristallina, anche se il più delle volte la scrittura sembra sull’orlo di
collassare in un’imprecazione, in un’invettiva, in un urlo e sicuramente in
questo bilico del dire la scrittura di Krauspenhaar offre la sua cifra più
peculiare e affascinante: al tempo stesso potente e precisa.
Il libro è un continuo tornare alla memoria paterna (il passato è passato, si dice. Come si può credere a una idiozia del
genere? Il passato è qui, ora, perché noi siamo passato, noi siamo il passato,
il passato passa all’esterno ma rimane nel nostro interno notte – e notte –
giorno e notte; il passato ci sveglia nei sogni.), a questo padre finito troppo presto, ma in
maniera né memorialistica né elegiaca, ma spietata,di un amore spietato, che si
riconosce tale nel porre la verità davanti a tutto, nel sottrarre i ricordi al
fumo dolce ma stordente dell’oblio. Ma è soprattutto un ritrovare se stesso da
parte dell’autore attraverso il confronto serrato con ciò che il padre è stato
e ha rappresentato nella vita, quasi che, risalendo la corrente del tempo e del
divenire, attraverso la figura paterna, gli eventi che essa ha attraversato -
in particolare la seconda guerra mondiale, in cui l’autore quasi si identifica
con il padre combattente, pur cogliendone la distanza e in parte sentendosi
inadeguato al confronto, e l’immediato dopoguerra di fame e di speranza, e
oltre ancora, nella figura del nonno tedesco dei Sudeti, mai conosciuto, fino ad
arrivare all’etimologia del cognome e delle sue origini - si potesse trovare un
filo, una ragion d’essere, una radice che possa giustificare quell’irripetibile
casualità che lo scrittore sente di essere (A
volte penso che quel pomeriggio tu e la mamma avreste potuto fare
qualcos’altro, rimandare. Potevi farti una sega , Karlo, ma a pensarci bene:
perché darsi all’autoerotismo quando si ha a disposizione una donna che ti ama?) . Attraverso l’inseguirsi reciproco del
tempo della memoria, del tempo della vita e del tempo della scrittura, quasi in
una spirale ctonia, il protagonista autore narratore ingaggia un corpo a corpo
con la sua esistenza presente (In questo
alveo svuotato che è il mio adesso), il senso del suo stare al mondo, il
senso stesso della scrittura e della sua vocazione di scrittore, la memoria
personale e paterna. È come se padre e
figlio si rubassero la scena, in un dramma a due in cui comprimari sono le
altre figure familiari che fungono quasi da coro rispetto al dramma o, come nel
caso del fratello Stefano - al tempo stesso doppio del fratello scrittore e del
padre suicida, ma anche irriducibile ai due - anticipassero il finale tragico
del libro. Sembra quasi che il figlio per affermarsi debba continuamente
sovrapporre la sua vita a quella del padre, per coglierne analogia e
differenze, per capire, infine, se l’esistenza che si trova in sorte valga fino
in fondo la pena di essere vissuta. Se valga la pena di essere vissuta e
scritta in un’estate milanese afosa e plumbea che cede il passo ad un autunno di
scrittura e di anamnesi dolente e lucida, in cui i
giorni trascorrono uguali e implacabili, dove le ombre del passato e i fantasmi del
presente, sotto forma di donne, amici, familiari, luoghi, riti solitari si
presentano per un redde rationem definitivo. Per scoprire, in ultimo, che il
padre, la distanza che ci separa da lui, è l’unità di misura in base alla quale
misuriamo noi stessi e il mondo e, percorrere la distanza che il padre stesso
è, superarla attraverso un libro o attraverso un altro percorso, uccidere
simbolicamente il proprio padre, è l’unico modo per rimanere autenticamente fedeli alla sua figura,
al rito che ci legava a lui come al nostro idolo; la domanda continuamente
posta dall’autore da bambino al padre: Papà,
che macchina è?
Francesco Filia