giovedì 31 gennaio 2013

Commiato da Andromeda a Milano

Milano – venerdì 8 febbraio

Dalle 21.00 alle 23.00

Presentazione del volume di Andrea Inglese Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, premio Ciampi 2011)

presso la Libreria Popolare, via Tadino, 18 a Milano

con interventi di Vincenzo Frungillo e Paolo Zublena, coordinamento di Alessandro Broggi e lettura dell’Autore.

Il mostro irriducibile di Andrea Inglese in Commiato da Andromeda

La casa editrice di Livorno, Valigie Rosse, ha pubblicato, in occasione del Premio Ciampi 2011, il testo Il commiato da Andromeda, un estratto del primo capitolo del romanzo di Andrea Inglese. Sfogliando le pagine del libretto ci troviamo di fronte ad una prosa poetica che si alterna ad inserti lirici. Ritornano quindi le scelte stilistiche e gli esperimenti formali che Inglese ha sperimentato in Prosa in prosa e in Quando Kubrick inventò la fantascienza. Accomuna gli ultimi lavori di Inglese anche la scelta di immagini come prima fonte d'ispirazione; se nel libro su Kubrick le immagini sono quelle del film 2001. Odissea nello spazio, ne Il commiato da Andromeda l'immagine chiave è data da un quadro di Piero di Cosimo, La liberazione di Andromeda. Il dipinto, riprodotto in formato poster, campeggia dietro la porta del bagno dell'abitazione parigina dei due amanti, protagonisti del romanzo. Il pretesto in questione è il mito, raffigurato dal pittore, che racconta le vicende di Perseo impegnato nella liberazione dell'amata Andromeda. La donna al centro del dipinto sta per essere divorata da un mostro marino, Perseo è sul punto di colpire il mostro con la sua spada; ma Andromeda non sarà salvata e il mostro diventerà il vero protagonista del libro. Se etimologicamente mostrum è ciò che si mostra o "ciò che si vede", per citare un altro titolo di Andrea Inglese, al centro del quadro di Piero di Cosimo c'è lo stesso occhio della conoscenza. Forse, la lettura del libro si gioca proprio su questa sottile differenza tra il mostrarsi e il vedere. Il primo termine richiama l'accoglienza del mondo tipica dell'atteggiamento fenomenologico, delle teorie di lettura del mondo che mettono in crisi l'io, mentre il vedere resta ancora nell'egotica rappresentazione del mondo. Su questo punto si possono leggere i passaggi della produzione di Inglese, da La distrazione (testo poetico sulla fallibilità dell'io e dell'identità), alla produzione partigiana di Prosa in prosa, tutta "dalla parte degli oggetti", fino a Il commiato da Andromeda. Si giunge così alla questione cardine della relazione dell'io con il mondo e con gli altri, qui inscenato con il rapporto erotico dell'io-personaggio con la sua amante. Il mostro, quindi lo sguardo sulle cose, diventa il vero protagonista. Per questo motivo il punto nodale del nostro estratto sembra essere proprio il passaggio che recita: "Quel mostro sono io [...] Il mostro tiene banco, è lo spazio irriducibile, la latitanza, la zona di cuscinetto, il vuoto pneumatico, intorno a cui ruotano, senza speranza di progresso, Andromeda e Perseo, come ai capi opposti di un bastone". Se l'istinto lirico riesce a condurci al fondo stesso della vanità, (vanità, appunto, cosa vana, che si riferisce al nulla), ogni operazione lirica consapevole canta il nostro essere imparentati con il nulla. Inglese riesce a cantare il rapporto di una cultura con il vuoto, traduzione fisica del nulla originario. Questo ci sembra essere il livello di lettura del testo, dopo quello palesemente erotico. Del resto proprio in una delle ultime pubblicazioni Inglese si è dedicato ad una rilettura lucreziana del vuoto in fisica. Assecondando questa suggestione, anche l'archeologia delle immagini, lascia il posto ad un'indagine sullo spazio o sul vuoto. Si torna quindi al tema di Kubrick, solo in apparenza leggero. In un inserto lirico del testo troviamo questi versi: "Io non posso stabilire niente, se non l'oblio,/ se io sono così bravo, se la mia scienza/ pur essendo imperfetta, anzi,/ pur non essendo scienza, ma ombra,/ favola improvvisata, se dunque/ la mia ignoranza trionfa,/ mostrandosi in tutta la sua forza/, quasi militare, di dominio/ e supremazia, è perché io/ ogni minuto dimentico,/ dimentico agile e sistemico,/ con sottigliezza e precisione,/ portando sempre più avanti/ e sempre più distratto/ il fronte della dimenticanza". L'eroe della narrazione non s'identifica con Perseo, ma con il mostro, prima, e con lo spazio stesso che si apre ai suoi occhi, dopo. Emblematica per questo motivo la figura della madre del personaggio-autore che dà vita nelle pagine finali del capitolo ad un anti-edipica proliferazione di forme poetiche. Si va verso l'origine per trovarsi in un ennesimo punto di fuga, come se si fosse proiettati su altre orbite, con altre visioni e immagini: "E' la nuova vita, essendo gli amori/ incomprimibili, che attacca e devasta/ quella antica, si nutre e accresce/ d'altre latitudini/, atlanti, climi/ mai visti, che assorbono della mente/ ogni atomo, residua forza./ La vita nuova che mi è concessa/ si edifica cancellando punto dopo punto/ la vicenda passata, la spiaggia, il mostro,/ i tronchi amputati che tengono/ Andromeda, incurvata come arco". I conti vengono fatti con Dante e la Vita nuova. Sappiamo bene che la scoperta dello spazio-mondo di Dante, la stesura della Commedia, aldilà della lirica stilnovistica e provenzale, ha inizio proprio con la fine di Beatrice. Il ritirarsi della figura riflesso, dell'acquisizione di sé tramite l'altro da sé, porta allo squadernarsi dello spazio come proiezione dei tanti sulla tela e la semiosi infinita è debitrice del vuoto (in Dante ancora tomisticamente sostenuto da Dio). L'eroe è separato dalla sua amante, ed è irrimediabilmente il potenziale cospiratore del vuoto o dello spazio infinito. Le immagini restano tracce, ossia punti di partenza, e punti di coincidenza di nuove orbite (Andromeda, incurvata come arco). In questo gioco l'autore si disperde, si arrende alla voracità del mostro. Anche solo per questi motivi, l'estratto regalatoci da Inglese sembra annunciare un testo complesso e dalle mille implicazioni, un testo importante, che conferma una scrittura tra le più ricche e complesse dei nostri anni.

di Vincenzo Frungillo

(già ne Il Verri, n. 50, ottobre 2012)

mercoledì 30 gennaio 2013

"La neve" di Francesco Filia alla Treves di Napoli

La neve a Napoli! 16 febbraio 2013

La neve di Francesco Filia (Fara Editore, 2012)

alla Libreria Treves

sabato 16 febbraio ore 18:00

sarà presente l'autore

Interventi critici di Giancarlo Alfano, Vincenzo Frungillo e Daniele Ventre.

Coordina Viola Amarelli.

L’autore: Francesco Filia vive e insegna a Napoli, dov'è nato nel 1973. E' stato vincitore della sezione inediti del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista del premio Città di Tortona 2008, per l’opera edita e vincitore del premio “Faraexcelsior” 2012, per l’opera inedita. Sue poesie e recensioni dei suoi testi sono apparse su varie riviste e siti e tra le altre nelle antologie "Periferie", a cura di Michele Sovente (Napoli, 2004); "Subway- Poeti italiani Underground", a cura di Davide Rondoni e con introduzione di Milo De Angelis (Net, 2006); nell'antologia "Da Napoli, verso", a cura di Antonio Spagnuolo e Stelvio Di Spigno (Kairos, 2007); nel catalogo di artisti e poeti per i sessant'anni della Repubblica Italiana (Il Laboratorio, 2006); nell'antologia "Il miele del silenzio", a cura di Giancarlo Pontiggia (Interlinea, 2009). Ha pubblicato i poemi in frammenti "Il margine di una città" , con prefazione di Raffaele Piazza e dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008) e “La neve” (Fara Editore, 2012).

sabato 26 gennaio 2013

Forcipe di Massimiliano Bossini

(Il testo Forcipe di Massimiliano Bossini è stato pubblicato nel 2008 dalla casa editrice Il Filo. Qui di seguito una breve nota e alcune poesie).

I versi di Bossini sono un insieme di cruda, epifanica, disperazione e di controllo e-statico della parola (penso a G. Benn). Le due cose si tengono insieme e riescono a riprodurre lo spasimo, la "serpe" che "contorce" il suolo, e il senso stesso della fessura che anima ogni particella della nostra natura. Se la poesia deve essere memoria, lo deve essere delle cose prime, delle cose che restano a dispetto di ciò che passa. -Avessimo memoria di ciò che resta sarebbe tanto-. Così la raccolta di Bossini coglie la parola nel momento in cui viene al mondo, ancora sporca di "sangue" e "plasma". Questi versi che spiano la vita, ci danno indizi di una biografia. Sono soprattutto la fissazione di una parto doloroso, nascono con il forcipe appunto, e sembrano dilatare quest'immagine di tessuti molli che si allungano come per restare, all'origine: "vene", "polla", "breccia", "carne", sono i termini maggiormente evocati. Le vene che possono allungarsi per allacciarsi alle radici dei faggi, le vene che possono intossicarsi e ricordare ad una madre che la natura non sarà mai niente di naturale, che "se davvero fosse vera/la verità/non mi troverei la vena/in cui trasfonderla/ o un solco arato/ nello spirito". La natura lasciata a se stessa è mostruosa, ha bisogno della nostra insana presenza per essere dimora; il negativo della nostra specie compensa l'estraneità del vegetale. La natura, la madre originaria, che ci lega a lei solo con secrezioni organiche, tracce. Questi segnali anche a seguirli non conducono a nessun centro. Allora si spera che "il sapore/del fiore di ferro/ sulla punta della lingua" possa benedirsi in parola: "faccio/la mia danza della pioggia/pioggia sul verbo/inaridire -". Questo paradosso lo troviamo anche nelle fantastiche Pastorali di Cesarano, nei suoi versi come in quelli di pochi altri. Ma a tratti nella poesia di Bossini si sente anche la forza dell'invocazione di Eros Alesi, una forza sincera che è sempre più rara in poesia.
(Vincenzo Frungillo)




aspettando quel prodigio
che sa risorgere in brace
dall'infermo gorgo meccanico
distinguendo all'istante
metallo e plastica
da carne e ossa,
rabbiosi pensiamo a cose come fiori
o banconote a mazzi
e ripiegati dentro alle macchine
sfioriamo ciò che era la piccola breccia
che portavamo sul cranio
da fanciulli





acido ai miei giorni
il mattino
si dibatte in pugni molli
col suo chiarore
di fulmine soffermato
sul tetto
sospeso sul teschio
inesploso
tossisco nel cuscino
il cobalto respirato






bada mamma
che se non sarà mai pace
io mi sfilerò le vene dalle narici
per allacciarmici le scarpe –
legarci le caviglie alle radici dei faggi
e ascoltare ascoltare per niente
filacce di linfa spezzarsi
e colare dal mento
viaggio da fermo
un luogo di terra
una forma di carne
trapassare
la stagione
che viene






come attraverso un prisma
non luce ma fine
mi si compone dentro

e flagello staffile siringa e blu che
scompare lento traspare l'aldilà dal
torpore mentale il corpo
un solido immerso nell'acqua
di stagno sogno randagio macilente
conficcato nel risveglio come supplica

a terra - come la falciata serpe contorce -
io do segnale ai simili
linguaggio ultimo
lezione preziosa
poi mistero, realtà
alba per dio!






io non chiedo
né voglio verità
semmai sole e nuvola
e poi pioggia -

se davvero fosse vera
la verità
non mi troverei la vena
in cui trasfonderla
o un solco arato
nello spirito -

prego per il sapore
del fiore di ferro
sulla punta della lingua
e faccio
la mia danza della pioggia

pioggia sul verbo
inaridire -