lunedì 27 aprile 2009
Pagliarani e la dispersione radicale
Scriveva il giovane Bachtin in L’autore e l’eroe: «Le tre sfere della cultura umana –scienza, arte e vita- trovano unità soltanto nella persona che le rende partecipi della propria unità. […] Quando l’uomo è nell’arte, egli è fuori della vita, e viceversa. Tra esse non c’è unità e reciproca compenetrazione interiore nell’unità della persona. Che cosa allora garantisce il legame interiore degli elementi della persona? Soltanto l’unità della responsabilità.» Nessuna citazione è ai miei occhi più calzante per descrivere l’esperienza poetica di Elio Pagliarani. Rileggendo la sua opera ho notato che la responsabilità verso il proprio tempo è la costante del suo impegno letterario. C’è da questo punto di vista una precisa dichiarazione di poetica nel famoso finale de La ragazza Carla. Nella prima strofa del coro si legge: Quanto di morte noi circonda e quanto/ tocca mutarne in vita per esistere/ è diamante sul vetro, svolgimento/ concreto d’uomo in storia che resiste/ solo vivo scarnendosi al suo tempo/ quando ristagna il ritmo e quando investe/ lo stesso corpo umano a mutamento.
Tenendo presente questi sette versi, mi piacerebbe sottolineare quello che per me è uno snodo importante dell’opera del poeta emiliano. Dopo il finale corifeo de La ragazza Carla, avviene una mutazione radicale nello sguardo di Pagliarani. «Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle» dice il protagonista del romanzo Atlante Occidentale di Del Giudice, parlando con un giovane fisico impegnato in esperimenti sull’accelerazione della materia. Ed è come se Pagliarani avesse avvertito la stessa mutazione epocale dopo il ’62, e avesse deciso di non sottrarsi alla sfida.
Tutta l’epica didascalica successiva al poema sull’impiegata dell’Olivetti è un’interrogazione sofferta sul perché quest’eroina non riesca a diventare ideale, non riesca a trattenere, a conservare intorno a sé lo spazio della rappresentazione (Esercizi platonici, del 1985, mi sembra essere ancora un’interrogazione teoretica su questo punto). Il coro finale del poema del ’62, quindi, si dilata all’infinito e le forze della Storia diventano il centro stesso della scena, diventano esse stesse lo spazio e il protagonista della rappresentazione. Il contesto storico-sociale invade il corpo del personaggio Carla e lo smembra. Il finale de La ragazza Carla, da questo punto di vista, ha la stessa funzione che aveva il coro della tragedia greca: irrompe sulla scena, toglie la voce ai personaggi e far parlare l’oggettività della Storia.
Da qui ha inizio l’avventura testuale dell’epica didascalica di Lezioni di Fisica e Fecaloro; testo innovativo e profetico che fa del corpo nero e della legge sull’indeterminazione in fisica (vedi IV lettera o egloga di Lezioni di fisica) la metafora madre di quegli anni e degli anni a venire. Adesso è l’indeterminazione il paradigma sovrano così come il corpo nero rappresenta l’impossibilità di raffigurare il personaggio simbolo della nuova era. Restando all’interno di un linguaggio scientifico si potrebbe dire allora che se un corpo è “il risultato di un equilibrio tra la forza di conservazione e quella di dispersione” (così Kant riprendendo Leibniz in commento alla fisica di Newton), i versi di Pagliarani dicono il passaggio al paradigma della pura dispersione. In questo scenario il poeta non può che accettare l’”indistinto”, ma non si abbandona ad esso con nichilistica rassegnazione.
Il narratore in versi diventa la cassa di risonanza delle mutazioni epocali che coincidono con le rivoluzioni scientifico-tecnologiche del suo tempo. Se la tradizione non è più l’insieme di codici linguistici che garantiscono comunità e centralità all’uomo, se lo stesso “io narrante” vacilla, in quanto strumento di comprensione del mondo, di certo non decade l’essenza storica del narratore-corpo, la traumatica somatizzazione del suo tempo. Di fronte alla scomparsa del corpo ideale e del suo spazio il poeta oppone la forza della resistenza. Adesso non c’è più un personaggio che rappresenti un’epoca, adesso ci sono le sole forze che si combattano avendo perso l’equilibrio iniziale (è Deleuze che dirà che un “corpo è sempre il risultato di uno scontro di forze”). Questo, mi sembra, può voler intendere il poeta quando nella V egloga di Lezioni di fisica parla della “grammatica epica d’Achille”: scarnificare il racconto eroico per rimettere in campo il thymos, il respiro, lo slancio che animava i personaggi dei poemi antichi; anche se adesso il nemico da combattere è l’”indistinto”. In questo scontro il solo nucleo che si può rintracciare è la “retorica dei recitativi”, il punto d’impatto tra il fuori e il dentro, il fiato del poeta che tiene insieme il testo e lo spazio.
(intervento apparso leggermente modificato sul numero monografico L'immaginazione, Manni editore)
sabato 11 aprile 2009
Pubblicato poema di Frungillo sulla DDR
Cosa si può immaginare di più inattuale, oggi, di un poema epico in ottave? Basterebbe questo a indicare in Ogni cinque bracciate, work in progress iniziato nel 2002 e concluso nel 2007, la più rara delle aves in un panorama poetico, come il nostro degli ultimi decenni, contrassegnato per lo più da gabbie strenuamente chiuse, finissimi lavori di cesello, fenomenologie microscopiche. Eppure nella generazione di Frungillo – magari guardando a esempi ormai remoti come quelli del Pagliarani della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi – significativamente si assiste a un rinnovato anelito a raccontare storie, anche in poesia, che una buona volta superino lo spazio ristretto della soffocante «cameretta» lirica.
Le buone intenzioni, naturalmente, non bastano. Il colpo di genio di Frungillo è stato quello di cogliere – nella vicenda delle nuotatrici della Repubblica Democratica Tedesca, amazzoni per l’appunto «mitiche» negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso – la chiave d’accesso a una dimensione, oltre che epica, allegorica e mitopoietica. Come dice un indubbio ispiratore di questo immaginario quale Milo De Angelis, si realizza in Ogni cinque bracciate il miracolo di un «sempre» (il fascinum della giovinezza, dell’agone, dell’eterno splendore della carne) che si sposa con una dimensione «storica»: precisa quanto dolorosa. Quello di Renate, Karla, Lampe e Ute – corpo dopato prima glorioso poi in macerie – è il corpo dell’utopia socialista e, più in generale, di una modernità che ha preteso di spingersi, in tutti i sensi, oltre i propri limiti.
Frungillo s’è imbattuto in questa storia studiando filosofia in Germania. Più avanti ne ha trovato inquietanti addentellati documentari: le fotografie in appendice, di frammentaria qualità, sono state infatti da lui reperite negli archivi della Stasi, la polizia segreta della DDR: a dimostrare come le gloriose nuotatrici fossero, durante i loro interminabili allenamenti, occhiutamente controllate. Proprio come nelle Vite degli altri, il fortunato film di Florian Henckel von Donnersmarck, c’è in questa storia anche un «agente doppio»: l’inquietante dottor Starkino che canta le magnifiche sorti e progressive dei corpi da record. La sua retorica ci turba perché, pur riconoscendola ripugnante, non possiamo non risentirvi gli accenti irresistibili degli epinici antichi, delle odi pindariche. L’inganno della parola e quello della storia sono lo stesso inganno.
Andrea Cortellessa
(quarta di copertina di Ogni cinque bracciate, Le Lettere, collana Fuori Formato, prefazione Elio Pagliarani, postfazione Milo De Angelis)
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