L'insurrezione erotica
(Autocritica della corporeità metaforica)
da Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974
Giorgio Cesarano
A chi si lascia spegnere non resta che il suo piagnucolare. Io, io, io. “... Il solo fatto che noi seguitiamo a proclamare... io, tu... con le nostre bocche screanzate... con la nostra avarizia di stitici predestinati alla putrescenza... io, tu... questo solo fatto... io, tu... denuncia la bassezza della comune dialettica... e ne certifica della nostra impotenza a predicar nulla di nulla,... dacché ignoriamo... il soggetto di ogni proposizione possibile...” (C.E. Gadda, op. cit., p. 124) Il cazzo piccolo, la fica frigida, il pene-clitoride, la famiglia assassina, gli amici bastardi: fosse andata altrimenti, si fosse potuto avere! E potessero riuscire a parlarsi: come vedrebbe quanto nessuno ha, come si è tutti identici nella deprivazione e nella “sventura”, come a ciascuno accade lo stesso mortificante gioco di tarocchi truccati, grazie al quale non uno riesce più a scorgere ciò che realmente vive, o potrebbe vivere non appena sorreggessero passione incarnata, desiderio concreto, volontà di realizzarsi. Contempla invece affamato le illustrazioni dello splendido Altro, immensamente profuso di tutto ciò che gli manca. A questo almeno, ed è molto, gli amanti sanno brevemente scampare. Essi si guardano, dunque sanno vedersi. Si desiderano, dunque si riconoscono. Si deludono, dunque sanno che cosa cercano. Si odiano, dunque sanno di non bastarsi.
Il capitale ha creduto di liquidare facilmente la resistenza millenaria dei contenuti radicali manifesti nella sacralità delle situazioni topiche. Non ha potuto che saccheggiarne l’iconografia. Sorprendentemente, neppure questo gli è riuscito senza danno. Schiacciata sotto i rulli delle macchine da stampa, l’immagine dell’uomo futuro, racchiusa nella corporeità di ogni essere, è sempre capace di resuscitarsi. In un brivido, per un istante, come per equivoco, in un colpo d’occhio distratto, a tradimento, tra una trivialità e uno sbadiglio, tra l’una e l’altra parola del vuoto, un occhio improvvisamente ti fissa, un seno respira, una mano pulsa, un ventre trasale. Un secondo sguardo non troverà che la patina della carta, la lattescenza dello schermo; uno slogan si precipiterà a suturare la fêlure minima aperta nella corteccia del cinismo d’obbligo. Non è accaduto niente, e il lutto si rassicura: sei morto come sempre, in uno sterminato campionario di illustrazioni ferali. Ma non è mai vero del tutto, e lo è sempre meno. È tempo di invertire la prospettiva, di saper vedere l’estrema fragilità della catalessi imposta dal capitale. È tempo di capire che l’ineroe nihilista, questo egotista dell’autodistruzione e dell’annientamento, ha i nervi a pezzi, e che persiste con crescente difficoltà. Nessun ottimismo è lecito sulla facilità dell’impresa, ma è tempo di non lasciare accidiosamente ingrassarsi il verme del pessimismo.
Se due “persone” non possono mai veramente congiungersi, ma soltanto vieppiù separarsi, è dunque vero un altro proverbio della “realpolitik”, secondo il quale l’estasi dell’uno comprende necessariamente la disillusione dell’altro? Si tratta ancora una volta della consumazione di un sacrificio? Da quando la schizofrenia è una condizione del sociale, ciascuno si guarda vivere sentendosi morire. Innanzitutto, chi è il soggetto reale: l’io che guarda? L’io che “agisce”? Alla soglia dell’estasi, uno dei due deve morire. È questo, il sacrificio necessario. Ogni sortita dal sé, è un’uccisione di sé.
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