I poemi di Vincenzo Frungillo (Ogni cinque bracciate, Le Lettere, 2009; Iter stultorum, in Undicesimo
Quaderno di poesia contemporanea, Marcos y Marcos, 2012; La
fine di Lucrezio, in La fisica
delle cose, Giulio Perrone editore, 2011) rappresentano una vera e propria
trilogia sulla storia ed hanno al centro lo stupore verso la condizione
dell’uomo, al tempo stesso uguale ed eccentrica rispetto agli altri esseri, che
è la stessa meraviglia che risale alla sapienza tragica greca; basti ricordare
i famosi versi del coro dell’Antigone di Sofocle “Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell'uomo”[1], ossia lo sgomento e la
vertigine al cospetto della libertà
umana, che prende forma nel linguaggio. La libertà di ritrovarsi o di perdersi
di raccontarsi o dimenticarsi, la libertà e l’angoscia di dover darsi un limite
che non è dato una volta per tutte e quindi la necessità di dover esperire l’esistenza
come continuo rischio di cadere nella sproporzione, nella hybris (ὕβρις) (“Sapersi mutazione costante,/oltre la divisione delle caste,/anche se il
mondo, orfano del sublime,/vede ogni cosa senza la sua fine.” La fine di Lucrezio). Da qui
nasce, però, anche la tenerezza verso lo stare al mondo dell’uomo, la consapevolezza
nei confronti della comune sorte dei mortali, cioè di coloro che sanno fin
nell’intimo delle loro fibre che moriranno (Per la
legge naturale della specie,/ solo chi conosce fino in fondo/ la tenerezza
dello stare al mondo/ può vedere le barbarie. La fine di Lucrezio). L‘esistenza dell’uomo è proprio
questa faglia tra bios (βίος) e logos (λόγος), che si allarga e si restringe, ma che tiene uniti sotterraneamente le due
sponde dell’esistere dell’uomo, come lo stesso Frungillo, in un suo saggio, fa
notare consapevolmente: “L’equilibrio sta
proprio nella relazione tra bios e mondo, tra temporalità del singolo e Storia”[2]. In altri
termini l’uomo è l’unico essere - per quel che ne sappiamo - che ha
consapevolezza, coscienza simbolica di esistere, ha il linguaggio che nomina le
cose, e in questo nominare le trae dall’indistinto primigenio e le consegna
alla storia. La Storia è l’oggetto del dire poetico dell’uomo, il suo essere
oltre il solo bios e già da sempre essere nello zoon (ζῷον)[3], ossia nella condizione di chi
per essere ciò che è deve aprirsi, o meglio è già da sempre aperto,
all’alterità del suo stare al mondo, e sperare di esserne riconosciuto, e nel
logos, in quel che lega pensiero e parola, ciò che altrimenti sarebbe destinato
al caos, a tornare nell’indistinto da cui proviene. Il discorso, in questo caso
quello poetico, è il tentativo dell’uomo di sottrarre il suo destino
all’insignificante, per l’irripetibilità dell’esistenza individuale e storica,
della mera ripetizione della natura, anche se però, la natura, rimane nel
corpo, anch’esso simbolo, legato indissolubilmente ad essa. Nell’intrecciarsi
di bios, zoon e logos si dà la specificità del canto epico che coglie l’uomo
nel suo divenire storico e fa assurgere quell’attimo (che può essere l’epopea
delle nuotatrici di Ogni cinque bracciate, il viaggio verso il Santo Sepolcro della
crociata dei fanciulli in Iter stultorum, o il viaggio di Memmio sulla scia di Epicuro in La
fine di Lucrezio) colto e sottratto al divenire incessante, ad archetipo
di uno specifico stare al mondo, quello che fonda un popolo, una nazione o
un’intera civiltà (Gridavano in faccia
allo spray rosso/ sui mattoni primordiali del più alto muro;/ lei, bambina, si
caricò quell’urlo addosso/ e decise per sé
l’impegno più duro/ "salverò
queste voci dal puzzo di piscio,/ le porterò con me in un posto libero,
sicuro,/ farò di me stessa il oro corpo,/ farò dei miei gesti il loro volo!". Ogni cinque
bracciate).
Se natura c’è nell’uomo essa è sangue, ossia già un simbolo, etimologicamente
ciò che mette insieme due cose unendole, è un sentimento che ha trovato parola
(ma la loro condizione io canto/ in
parole, che sono filari di luce,/ lo stupore di fanciulle di fronte alla secca/
che la Storia produce. Ogni cinque bracciate). L’uomo unisce nel suo
domandare il qui e ora della vita e l’oltre del fatto che non vive
semplicemente come tutti gli altri esseri viventi ma esiste, ossia progetta ed
è già da sempre oltre se stesso, è estasi temporale, memoria del passato,
attenzione del presente e attesa del futuro, è storia appunto (Dal piede gocciola il tempo della memoria/
in cerchi regolari d’acqua e di cloro/ Ute riapre lo spazio della storia. Ogni cinque bracciate). Ma la storia è l’intreccio di tensioni che si contrappongono, lottano e
che trovano negli eventi e nei singoli il luogo privilegiato del loro
manifestarsi (Chi è pronto al
sacrificio/o è un martire o un assassino,/in ogni luogo luminescenza della
Storia/ in ogni luogo ci deve esser un addio. Iter stultorum). E spesso le tensioni
dell’essere storico dell’uomo, oltre che manifestarsi nei grandi eventi e nei
personaggi che la storia la “fanno”, trovano il senso più profondo in eventi
apparentemente marginali o in microstorie, che non sono mai accidentali, ma
ramificate esse stesse con la totalità dell’epoca, dove, le tensioni e le
contraddizioni, il conservarsi e il disperdersi, si coagulano e si sciolgono
nella loro essenzialità. In altre parole, in alcuni eventi l’esistenza ritorna
su se stessa per mostrarsi nel suo senso profondo, e questo senso profondo
trova il suo luogo, lo spazio che gli compete, nella parola poetica, che nella
sua essenzialità è canto del destino, o per lo meno di un destino, ma in quanto
destino aperto e intellegibile da ognuno che lo voglia ascoltare (Lei conosceva la sua potenza,/ e il fondo
che schiaccia come un’orma,/ lei sapeva, con il suo corpo di tedesca,/ che la
morte aspetta sempre che la vita le getti un’esca. Ogni cinque bracciate).
Sia nel poema Ogni cinque bracciate, sia in Iter
stultorum, che in La fine di Lucrezio il dramma poetico è
nell’impossibilità da parte dei protagonisti dei poemi di trovarsi fino in
fondo, di ritornare all’origine del proprio essere che è sempre oltre la
possibilità di essere afferrata, perché l’origine è già un dopo, uno scontro
tra l’inizio ormai perso irrimediabilmente e una meta ancora da venire e sempre
un più in là dell’orizzonte (Honte! Honte! L’origine si nasconde./S’accecano da sole le civette nella
notte,/solo all’alba le donne/bagnano le labbra alle nostre veglie. Iter stultorum); e non è un caso che i protagonisti siano ragazzi e
ragazze, adolescenti - che si confrontano tragicamente con “maestri crudeli
della storia e del destino” (il Dottor.
Starkino, Innocenzo III, Lucrezio) - esseri colti nella frazione della
parabola umana in cui l’attrito del non più dell’infanzia e del non ancora
della maturità, con le sue forme, spesso informi, definite, avviene in maniera
violenta e senza un possibile rimedio.
La forza che si sprigiona dalle campionesse di nuoto
della DDR Ute, Lampe, Renate, Karla
in Ogni
cinque bracciate e la fede nei fanciulli di Iter Stultorum Stephan e Nikolaus sono il momento in cui un’epoca si fa
carne e immagine, dramma. Entrambi i poemi sono il luogo in cui si concretizza
la visione di un’epoca, e questa visione si fa gesto, accade diventando
indelebile, ma quel che diventa indelebile è un perdersi, una dispersione, un
fallimento che va cantato (Candida è la fine di chi sa
morire/ privilegio esclusivo saper finire,/molti s’arrendono, si tirano
indietro/spinti dal nostos, il sentimento più vero,/ma loro avanzano lungo il
confino,/il mare li affidi al loro destino,/li consegni al supplizio di ciò che
conviene,/si stringa il cerchio di chi non vede. Iter
Stultorum) è una definitività deforme che lascia tracce su un corpo
deforme anch’esso, come quello delle campionesse di nuoto dopate dal regima
comunista e diventate mostri senza patria (Come
una massa d’acqua entrano/ nel volume del corpo mutato,/ obeso di fronte allo
specchio guardano/ indiscreti il proprio passato/ -<<è una donna, è un
uomo, un essere umano?>>- Ogni
cinque bracciate). È come se Ulisse fosse stato divorato da Polifemo o
peggio fosse diventato lui il Ciclope solo e senza nessuno che lo ascolta: il
pericolo del perdersi ad ogni istante, di obliare perfino l’oblio. E per
rimanere nell’orbita dei due poemi omerici, nei poemi di Frungillo si inseguono
i due modelli costitutivi della letteratura occidentale, per riprendere
l’ipotesi di Franco Ferrucci[4],
l’assedio e il ritorno. L’esistenza umana oscilla tra i due modelli, è stretta
nell’assedio di un prima e un dopo incombenti ed è a sua volta assedio a un
centro di felicità strutturalmente irraggiungibile; in Ogni cinque bracciate
questo punto di felicità è rappresentato dalla perfezione del gesto atletico e
dall’attimo della gara (si stende poi da
pura dorsista e adocchia/ il suo punto di gravità nell’aria,/ svolta nella
virata verso la vittoria. Ogni cinque bracciate) o in Iter stultorum nell’epifania dell’amore divino (Invece ora manchiamo il centro,/lo perdiamo ad ogni colpo,/ogni volta
che miriamo al tuo corpo;/ma tu stesso l’hai detto un giorno:/“Un gesto d’amore
non può che fallire,/più si è precisi e più si resta in superficie”. Iter stultorum). Ma l’esistenza è anche un ritorno ad un passato, luogo
di un’origine da riconquistare, che in quanto narrato viene salvato da un oblio
irrimediabile, ma resta anch’esso irraggiungibile, in quanto ogni ritorno
tradisce chi vuole ritornare, perché quel luogo in cui si ritorna non c’è più
ma è presente solo nella memoria di chi desidera ritornare a tutti i costi (La Storia. Il contrasto vissuto,/ lotta
senza più corpo,/ non ha più ricordo;/ non ha luogo, il ritorno. Ogni
cinque bracciate). Perché la storia nel suo intimo è una dispersione,
un abbandonare nel mare del tempo ogni essere che l’ha percorsa, come si mostra
nel finale di Iter stultorum (Siamo annegati vicino
Lampedusa,/altri sono dispersi al largo della Puglia,/siamo una falla della
Storia,/solo questo ci accomuna./Eravamo acqua, terra, fuoco,/poi ha parlato
per noi il vuoto,/ci ha spinti tra le onde,/a spiare le coste,/tentare la via
del mare,/e naufragare, naufragare./La terra non ci ha accolto,/nessuno ci ha
sepolto,/offriamo a te il nostro corpo,/la nostra fine sarà il vostro inizio. Coro dei dispersi) che sembra quasi
riprendere e dialogare con la sezione IV
Death by water di The Waste land[5]
Phlebas il Fenicio di Eliot, in cui la salvezza, se c’è, è affidata alla
memoria di chi rimane, non ancora sommerso dalle acque e dal mormorio
dell’oblio, e racconta, perché senza quel ritaglio di senso che è il racconto
non c’è esistenza. Insomma, l’uomo è storia perché è sempre oltre se stesso e
racconta, o dice poeticamente, per rompere l’assedio e ritornare a se stesso, ma
questo ritorno è esso stesso una perdita, una ferita mortale o una pausa per un
nuovo assedio. Il poema canta la struttura intimamente irrimediabile
dell’esistenza e la sua continua inesausta richiesta di un perché. (Finire
non è uscire dalla vita,/ ma è restare per sempre/ nella sua scena madre,/ è un
difetto della vista,/ che non si sceglie, si subisce,/ e vede solo chi sa
guardare/ la nostra ferita mortale. La fine di
Lucrezio).
Il poeta - anche lui come
l’angelo di Klee di cui parla Walter Benjamin[6], che
Frungillo richiama esplicitamente nel canto II sequenza II (Le spalle al futuro) di Ogni cinque bracciate, o come l’Omero nei Sepolcri di Foscolo[7] e
a differenza del profeta, che sa tutto per illuminazione divina, o del filosofo
della storia che giustifica tutto e tutto rende incatenato nella necessità che
porta al fine ultimo, a quel telos (τέλοϛ) individuato da una sapienza onnisciente- canta chi di quella storia è
vittima, senso ulteriore e mai concluso, possibile alterità. Il poeta invoca le
muse per essere partecipe di una scintilla di sapienza (Bellezza, certezza della vita estrema,/ essere poeta significa/ salire
di schiena al tempio della dea/ la Venere etrusca, padrona della fiera,/non
regala una sola misura,/ ad ogni corpo affida la sua caduta. La fine di
Lucrezio), si aggira e si trattiene tra le macerie e cerca con
la sola forza del canto di ricomporre l’infranto e di destare i corpi, i morti.
Non ricuce le ferite dell’assedio (è
finito l’assedio, s’è concluso,/ ora tutto è osceno: Ogni cinque bracciate) ma le lascia aperte per dare loro
respiro, ritorno, vita (avverte il corpo
come se fosse discosto,/ figlio di quel taglio, sente l’impegno/ di tenerlo
nascosto,/ come ciò che deve ancora venire,/ che c’è ancora tempo per finire. Ogni cinque
bracciate) per far affiorare quella terra, l’oltre congenito
all’esistenza umana, non più solo desolata, dove lo spreco di energia,
l’assedio, la forza che si sprigiona dal domandare e dal desiderare umano che
chiede quale sia il suo posto nel mondo, possa venir riassorbita in un ritorno,
con la consapevolezza che comunque l’uomo naufragherà prima di arrivarci. (Queste le parole che danno
vita/ al percorso terrestre del pastore d’anime/in cerca di risposte:/trovare
la Terra promessa/dove lo spreco d’energia si riassorba. Iter stultorum).
Francesco Filia
[1] SOFOCLE, “Antigone”, vv.
332/333, in “Tragici greci” a cura di R. Cantarella, Mondadori, Milano, 1977. “Πολλὰ τὰ δεινὰ κοὐδὲν ἀνθρώπου δεινότερον πέλει”. Anche se
per rendere la dimensione “più mirabile” (δεινότερον) dell’uomo potremmo seguire la versione
filosofica di M. Heidegger, (das
Unheimlichste) che nella resa in italiano suona così “Di molte specie è
l’inquietante, nulla tuttavia/ di più inquietante (das Unheimlichste des
Unheimlichen) dell’uomo s’aderge” . MARTIN HEIDEGGER, Introduzione alla
metafisica, Mursia, Milano, 1968 (Einführung in die Metaphisyk, Max Nyemaeyer
Tübingen, 1966), pp. 154 e ss. Ossia l’uomo (il dasein, l’esserci, nella
terminologia heideggeriana) è il luogo in cui l’essenza inquietante del mondo
prende parola e chiede il perché.
[2] VINCENZO FRUNGILLO, “Il poema
contemporaneo tra Bios e Storia” in L’Ulisse – rivista di poesia arte e
scrittura. N° 15- gennaio 2012.
[3] “Bios significa
vita e, come fa notare Agamben, è il termine greco che contende a zoon questo
significato. Mentre il primo è l’espressione naturale o diremmo biologica della
vita, il secondo è la declinazione politica dell’essenza umana. Uso il termine
bios solo in relazione alla storia per alludere alla forbice tra natura e
cultura, tra simbolo e natura, tra carne e memoria. Una forbice mai azzerabile.”
VINCENZO FRUNGILLO,
note a “Il poema contemporaneo tra Bios e Storia” in L’Ulisse – rivista di
poesia arte e scrittura. N° 15- gennaio 2012.
[4] “ I due grandi modelli si sono da
sempre inseguiti nel tempo. Per secoli, l’idea della vita come assedio votato
alla distruzione e quella del ritorno come fuga e riconquista si oppongono e si
intrecciano.” FRANCO FERRUCCI, “L’assedio e il ritorno. Omero e gli archetipi
della narrazione.”, Oscar Mondadori,
Milano, 1991, p. 100.
[5]T.S. ELIOT, “The Waste Land”, IV Death by water, in
Opere 1904 -1939, a cura di Roberto Sanese, Classici Bompiani, Milano, 1992,
pp. 608-609.
[6]WALTER BENJAMIN, “Tesi di
filosofia della storia” in “Angelus Novus” (Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955),
Einaudi, Torino, 1962, tesi n° 9, p. 80.
[7] UGO FOSCOLO, Dei Sepolcri, in Opere, a cura di F. Gavazzeni, Ricciardi, Milano-Napoli, 1974 1981,
vv. 279/295.
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