È tardi – è l’ora/
della cenere./ Origini e miserie/ disciolgono il
bersaglio./ Assembrano/ elise presenze.// E’
tempo/ di subire il tempo. La bella silloge d’esordio di Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi (L’arcolaio, 2011) è un libro per frammenti, certo non una novità nel panorama
poetico -se poi la poesia debba essere novità e nuova questo è tutto da
discutere - ma qui il frammento non ha nulla di vago o di solamente lirico, ha
la forza e la valenza di una scheggia che vuole e spesso riesce a rimanere
conficcata nella sostanza dell’essere, nonostante l’immensa, l’immane frana
dell’esistenza e della parola che tende disperatamente di dirla. Il frammento è
la scheggia dell’io che prende parola e scopre il nulla che lo costituisce, la
frazione, la sottrazione che la coscienza di sé comporta di fronte alla
massiccia opacità dell’essere. E il viaggio destinale del dire poetico inizia
dalle viscere (il tema del corpo è uno dei luoghi centrali del libro), dall'albore di ogni vita, dalle proprio ventre e da quello
materno come indica la prima sezione Diatribe
dal ventre. L’esistenza si presenta sin dall’origine -sconosciuta perché
già da sempre prima di noi- come diatriba, lotta, polemos (Dimora negli
intestini/ la terra franata dei nomi.// Là, dove nessuno sa.// Dove non c’è dove/ ogni cosa/ è radice d’abisso.// Là fiorì il tuo nome.), ma anche come una
dispersione, perché proviene da un dove
in cui non c’è dove, da un silenzio
che ci precede e che può offrirsi come intuizione o balbettio, mai come
certezza salvifica. E qui si può cogliere anche un segreto rapporto dell’autore
con alcune esperienze fondamentali del ‘900 poetico, come Celan e soprattutto Mandel’stam, quasi
riecheggiato in un frammento in particolare (
Ho sempre guardato, guardato,/dal nulla da cui vedo/ i corpi della soglia,
laddove sono rimasto a fissarne/ la
fissità inquieta/ d’un nulla. Invece
in Mandel’stam A tu per tu, il gelo io fisso:/ lui fissa il
nulla ed io fisso dal nulla). In questo risalire alle fonti più estreme e
limpide del novecento, Gabbia giunge alla soglia ultima di
dove è giunta la poesia del secolo scorso: guardare le cose, il mondo, dal
nulla, ecco questo è il grado zero raggiunto dal novecento come epoca e
coscienza storica. Ma come ricostruire, riorganizzare un discorso che è
sprofondato dall’altra parte del reale, in ciò che non è? E qui la poesia di Gabbia
tenta una via – anche linguisticamente con l’uso di parole ricercate e desuete o con la dislocazione inusuale delle parole nel verso, che indica una volontà di reazione allo zero linguistico oltre che
ontologico raggiunto dalla nostra epoca- un sentiero che è quello della costruzione di
una identità a partire dal frammento che siamo, come tessere di un puzzle che
devono essere ricomposte, forse con la consapevolezza che ne mancherà sempre
qualcuna, la definitiva che fa tornare i conti. Ma una precaria, provvisoria articolazione del
dire, per Gabbia, sembra possibile, proprio a partire da ciò che è
diventato, forse per la sua precedente eccessiva sovresposizione, un tabù: l’io.
E Io è anche il titolo dell’ultima
sezione dove emerge anche l’aspetto più originale
dell’opera, ossia l’io non è solo un’identità, ma un luogo, un brano del nulla,
una radura in cui si incontrano i vari elementi del mondo, in cui si accolgono le
ombre, gli spettri che ci abitano (Io sarò voi-/ i morti, tutti,/ noi, voi/
dopo di me, quando/ solo, soffierò/ lo sguardo, da ciascuno/ di voi tutti/ su
ognuno/ di me.), in cui si apre una relazione con la radice finita e
mortale del nostro stare al mondo, che ci ricorda, nell’ascolto di un attimo,
in un tempo senza tempo, che, se siamo veramente qualcosa, siamo non uno, un semplice io irrelato, ma anche un tu e quindi tutti (Il battito della stanza/ coagulato, si fermava,/ ci
assaliva, un tempo/ senza tempo, un ascolto/ in ascesa. Il rumore/ era un
cerchio lontano. Tutto/era fermo, mentre
tu, procedevi - / eri tutti). Da
qui forse ripartire, o meglio, restare?
Francesco Filia
Francesco Filia
4 commenti:
...la tua vicinanza con Mandel'stam nasce dalle cose stesse del dire poetico... Un caro saluto.
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