Si scrive veramente con l’inchiostro o con
il sangue? Che rapporto c’è tra vita e scrittura? Tra esistenza e parola[1]?
Queste domande attraversano l’intera esistenza di Pierre Drieu La Rochelle (13 gennaio 1893 – 15 marzo 1945) fino al
suicidio, avvenuto in una casa di campagna, nei pressi di Parigi, alla fine
della guerra che lui, collaborazionista, ha interamente percorso dalla parte
sbagliata e da cui trae le estreme conseguenze, senza cadere nel melodramma del
pentimento. Ma ridurre la fine di Drieu al dato storico sociologico, che pur è
presente, di una sconfitta politica, sarebbe non comprendere il cuore del suo
percorso artistico e intellettuale. Nella sua opera si agitano e si mostrano,
nella loro terribile limpidezza, le questioni che dilaniano la vita di ogni
uomo, lo sappia o no. Può essere concepita la vita senza la distruzione? O,
meglio, senza l’autodistruzione? Ha senso continuare a vivere oltre la soglia
fatidica della giovinezza, sopravviverle? Tradire ciò che si è stati anche solo
per un attimo? “Da ragazzo ho giurato a me stesso di rimanere fedele alla mia
giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.”[2]
La figura di Drieu è una delle più
affascinati, non solo della letteratura francese, ma anche di tutto il primo
novecento, soprattutto per queste domande definitive e inaggirabili, in cui, il
fascino dello scrittore e del dandy ammalato di delicatezza si alimentano l’un
l’altro, lasciando sempre un che di irrisolto che fa ritornare a leggerlo
nuovamente. Forse Drieu come scrittore è incompiuto, perché avrebbe voluto
essere scrittore di un solo libro, il libro perfetto, indelebile, "Rimbaud, Lautréamont. Beati gli uomini dai
pochi libri: non hanno avuto il tempo di confessarsi, di addomesticarsi
ripetendosi"[3].
Invece ha continuato a scrivere, a confessarsi[4],
fino a due giorni prima del suicidio, lasciandoci un ultimo grande testo
incompiuto Memorie di Dirk Raspe[5],
biografia romanzata di Vincent Van Gogh, in cui, nell’affinità con il grande
pittore olandese, Drieu coglie il cuore di ogni destino artistico, quello
di farsi “divorare dalla visione”
dell’irrealtà, ossia, da quell’Oltre immanente a ogni cosa che fonda già da
sempre quello che noi, per nostra comodità e stoltezza, chiamiamo realtà. Ma la figura di Drieu pone una domanda ancora
più inquietante: che senso dare alla nostra vita quando questa, rapita una
volta e per sempre dall’atrocità del vero e del bello, inizia a tradirci? Perché
per Drieu la vita è degna solo del suo apice e non della decadenza, che pur le
è costitutiva e che lui, come gran parte
dei suoi personaggi, attraversa sino in fondo. La vita va vissuta nella sua
irripetibile selvatichezza, a questa intuizione e non da altro si deve, forse,
far risalire le sue scelte politiche scandalose[6].
Il dramma di Drieu e di molti dei personaggi dei suoi libri, che non coincidono
mai del tutto con l’autore, è segnato da una doppia impossibilità, quella di
esistere autenticamente e di arrendersi al quotidiano, o, se resa c’è, è nelle
sue forme più abbiette e autolesionistiche, come estremo gesto di rivolta,
folle, patetica e disperata, che però non chiede pietà ma ha l’ambizione, attraverso
l’ultimo estremo gesto, di lasciare “una macchia indelebile” su chi resta[7].
Perché quel che conta è solo l’amore, l’ardore dell’esistenza che si sporge
oltre se stessa e quando questo slancio vitale si esaurisce, l’amore - e le donne
che non si lasciano afferrare, trattenere e anzi sembrano stringere in
un assedio che pretende la resa della procreazione - diventa forma vuota,
maschera mortuaria e dunque tutto si
trasforma in vuoto, in thanatos, in un lento finire che ha solo due vie
d’uscita, morire o sopravvivere a se stessi.
Dal confronto tra due opposte
possibilità, una richiamante l’altra, nascono pagine tra le più belle
dell’intera opera di Drieu, i capitoli di Fuoco
fatuo in cui Alain, il protagonista, si confronta, passeggiando per i
boulevard di Parigi, con l’amico di un tempo Dubourg, che, a differenza sua, ha
accettato “il ritmo elementare della vita”[8],
il caldo rassicurante della quotidianità, simboleggiato dal ventre della moglie
che lo accoglie ogni sera nel letto o dall’amore per l’archeologia egizia,
amore necrofilo, ma che permette di trovare un interesse per sopravvivere. Dubourg
non può salvare Alain, non può distoglierlo dal suo proposito, perché in fondo
anche lui sa che sta barando con se stesso (Dubourg
capiva che l’occasione per salvare Alain gli era sfuggita. Si diceva che se
fosse veramente sicuro di se stesso, si sarebbe gettato su Alain con brutalità,
insultandolo, mettendolo a nudo. Gli avrebbe gridato: "Sei mediocre, accetta la tua mediocrità. Rimani a
livello che la natura ti ha assegnato. Sei un uomo: per la tua semplice umanità
sei, per gli altri, ancora inestimabile")[9].
Alain, con la sua sola presenza, mostra le cose per quel che sono, eppure anche
Alain sa che in Dubourg c’è l’altro se stesso deformato; è come se i due vecchi
amici guardassero nell’altro se stessi
in uno specchio e vedessero la strada non presa. In Alain c’è già il distacco
di chi si sente finito, in Dubourg il cruccio di chi sopravvivrà, in entrambi
le braci sempre più tiepide di un amore per la vita che non ha più di che
alimentarsi.
Del suicidio, il tema dei temi
nell’opera e nella vita di Drieu, è fin troppo facile parlarne male, giudicarlo
come un atto frutto di una qualsivoglia disperazione, vile o un atto contro Dio,
come lo giudicano le religioni, ma invece in esso sono in gioco la libertà e il
destino. Drieu coglie un aspetto del gesto estremo che nessun atteggiamento
strettamente moraleggiante potrà cogliere.
Nella possibilità dell’autodistruzione irrompe la questione del sacro, del
patto sancito da ogni uomo per il solo fatto di esser nato. Patto sancito con
cosa? Come nominare quella forza che ci fa stare al mondo, come corrispondere
all’enigma che siamo? Ecco che nella possibilità ultima che la morte evoca e
che il suicidio anticipa, irrompe l’alterità, l’estraneità radicale che, per
contrasto, ci riguarda più da vicino, fino a toglierci il fiato, fino a
toglierci la vita. Alterità che si fa gesto in noi nella vertigine dell’auto
distruzione e in tale gesto è raccolto, per un attimo che si fa soglia
irrevocabile, tutto ciò che quel singolo uomo è stato, è e, in maniera
tragicamente paradossale, sarà ancora per un istante: altezza e bassezza,
autocommiserazione e disprezzo di sé, amore immedicabile per la vita e disgusto
dei giorni che si ripetono sempre uguali, lucido delirio autarchico (“La vita
non andava abbastanza in fretta per me, io l’accelero. La corda si allentava,
io la tendo. Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle, lo dimostro.”)[10]
e estrema consapevolezza dell’impossibilità di bastare a se stessi (“Ma in
fondo a te stesso ti credi un delicato.
Quanto a me, lo credo, non posso non crederlo. Avrei voluto piacere alla gente,
ma mi manca qualcosa. E, in fondo, questo qualcosa mi disgusterebbe.”)[11]
e, infine, sapere di non poter uscire dalla propria radicale solitudine e che,
per un’inezia o per un vizio, per un piacere unico e irripetibile, diventa un
percorso verso la perfezione del morire (“Ebbene, ora l’ho capito, la
solitudine è il cammino del suicidio o almeno il cammino della morte. Nella
solitudine assoluta si prova un piacere unico, superiore a ogni altro, per il
mondo e per la vita; è il solo modo per gustare fino in fondo un fiore, un
albero, una nuvola, gli animali, gli uomini, anche quando passano lontano da
noi, e le donne; ma è la china lungo la quale ci si perde”)[12].
La via della bellezza è la via della morte, in questa equazione sembra
riecheggiare la sapienza platonica del Simposio, del Fedone e del Fedro. Dove,
però, a differenza di Platone, la psicagogia non porta ad una anabasi salvifica,
ma ad una catabasi della Disperazione, non ritrovare se stessi, ma perdersi in
maniera definitiva nell’indistinto della morte, come unico modo autentico di essere fedeli
all’errore che si è, perdersi nel nero abbagliante del nulla ( vorrei rientrare nella notte senza stelle,
nella notte senza dei, la notte che non ha mai portato il giorno nel suo seno, che
non ha mai aspirato al giorno, che ha mai prodotto il giorno, la notte, immobile,
muta, intatta, la notte che non è mai esistita e non esisterà mai. Così sia.)
[13].
In questo senso il suicidio per Drieu è il rito, nel senso forte del termine,
che ci inizia all’enigma dell’esistenza[14]
e del mondo, al suo fondo buio, a quel qualcosa che si nasconde dietro a ciò
che noi nominiamo nulla e che non si dà in altro modo possibile. L’auto-distruzione
fino al gesto estremo, non solo e non tanto come un atto di disperazione, quindi,
ma come punto d’arrivo di una logica implacabile, compimento della vera
Disperazione strutturale che noi siamo, che non si accontenta del rimorso,
della tristezza o del melodramma del ‘se avessi’, ma arriva sino allo strappo finale, lì dove si spezza il nesso tra
parola pensiero ed essere, dove la parola si ritrae o, al massimo, arriva
postuma e dove, se riesce a dire qualcosa di essenziale, non ha la pretesa di
salvare ciò che non può essere salvato[15].
“Egli è convinto di credere al nulla, pensa di abbandonarsi al nulla, ma
sotto questa parola negativa, sotto questa parola approssimativa, sotto questa
parola limite c’è qualcosa che gli resta nascosto” [16]. In questi passaggi, rivelatori del
pensiero e del vero sentire di Drieu, sembra quasi delinearsi una filosofia neoplatonica,
una teologia negativa, il Mónos di cui parla Plotino a
cui si può giungere solamente superando la dualità del divenire in una forma di
mistica negativa, nel caso di Drieu non ascendente ma discendente e nichilistica[17].
Questa deriva consapevole di Drieu è
testimoniata dal diario e dall’ultimo suo libro pubblicato in vita I cani di paglia[18],
libro di rara sottigliezza analitica e di una bellezza livida, che prende il
titolo da una frase del Daodejing di Laozi posta in epigrafe[19],
in cui la crudeltà dell’esistenza è connaturata alla condizione umana, che
sembra essere un esperimento del destino in mano a forze sconosciute dove
ognuno - il collaborazionista, il traditore, il comunista, il gollista - in situazioni
limite, come quelle della Francia occupata dai nazisti, fa i conti tragicamente
con ciò che è, con il carattere che lo abita, che lo possiede, al di là di ciò
che vorrebbe essere, al di là della sua volontà[20].
Drieu alla fine dei suoi giorni sente il
fascino di un pensiero originario che lo possa liberare dal carcere
dell’esistenza e, di volta in volta, questa liberazione si presenta sotto forme
diverse, dalla filosofia neoplatonica alla
sapienza evangelica, dalla mistica alla teologia negativa, dai Veda all’Upanishad
e al Taoismo, vie che però, al di là
delle intenzioni dello stesso Drieu, non potranno mai essere abbracciate da lui,
letterato fino al midollo[21],
che ha riversato tutto il suo sangue nell’inchiostro della scrittura, scrittura
che non potrà mai contenerlo tutto nonostante il suo amore per la terra, per
ogni singolo dettaglio e che, però, alla fine si mostrerà incapace dell’ultima
parola che possa dire ciò che parola non è. C’è un’ ombra che cade tra la parola e la
cosa, è questo il limite disperante di ogni gesto letterario. Drieu quindi è
uno scrittore incompiuto non per una sua mancanza soggettiva d’artista, ma
perché quel che egli vuole dire si ritrae
definitivamente dalla parola, cede il passo a quel che non potrà mai essere
nominato. E proprio per la sua radicale alterità e quindi sacralità, più sacro
di qualsiasi dio, il nulla o ciò che attraverso esso è, richiede un rito,
l’ultimo e il solo, che però non ha il conforto della ripetizione ma l’indicibile
vertigine dell’irripetibilità, del mai più, del per sempre[22].
L’ek-stasi di un delicato, cioè di colui che coglie l’intima violenza e
bellezza dello stare al mondo, in un’epoca senza dèi è il suicidio. Il perdersi
oltre la dispersione dell’esistenza, l’uscire fuori di sé nel tutto infinito (L’infinito crea il finito e rimpiange
l’infinito.)[23] ed è al
tempo stesso fare i conti per la prima e ultima volta con le cose - attraverso un gesto, questo sì veramente
politico - con la muta barriera inscalfibile che le avvolge e che ci avvolge. Fare
i conti con la nostra costitutiva sconfitta. “ Una pistola è solida, è
d’acciaio. È una cosa. Scontrarsi, finalmente, con le cose”[24].
Francesco Filia
Francesco Filia
Il presente articolo è stato pubblicato su Nazione Indiana il 15 marzo 2013 http://www.nazioneindiana.com/2013/03/15/pierre-drieu-la-rochelle-morte-di-un-delicato/
[1] Questo tema è stato messo a fuoco e
affrontato nel saggio “Il sangue e l’inchiostro” di Paul Renard. Nella traduzione
italiana in appendice a “Racconto segreto” Pierre Drieu La Rochelle, SE edizioni, 1986, trad. di Alfredo
Cattabiani. Edizione originale Editions
Gallimard, 1961.
[2] Ibid., p.23.
[3]
4 dicembre 1944, p. 436. Pierre Drieu La Rochelle, Diario 1939 . 1945,
Il Mulino 1995. Edizione originale
Journal 1939 – 1945, a cura di Julien Hevrier, Editions Gallimard, 1992.
[4] “La letteratura non è altro che una forma edulcorata di confessione..” Pierre Drieu La Rochelle, Diario di un delicato, SE edizioni, 1998, trad.
di Milo De Angelis. Edizione originale
Journal d’un délicat, Editions Gallimard, 1963.
[5] Pierre Drieu La Rochelle, Memorie di
Dirk Raspe, trad. di Paolo Bianchi, Edizioni SE, 1996. Edizione originale
Méimoires de Dirk Raspe, Editions Gallimard, 1966.
[6] Per una ricostruzione, se pur parziale delle scelte politiche di Drieu La Rochelle
si veda la conversazione di Frédéric Grovier con Louis Aragon in appendice
all’edizione italiana di Diario di un delicato, Pierre Drieu La Rochelle, SE
edizioni, 1998, trad. di Milo De Angelis. Edizione originale Journal d’un délicat, Editions Gallimard,
1963.
[7] “Io mi uccido perché voi non mi avete
amato, perché io non vi ho amato. Mi uccido perché i rapporti erano allentati,
per rinsaldarli. Lascerò su di voi una macchia indelebile.” P. 106. Pierre Drieu La
Rochelle, Fuoco fatuo, SE edizioni,
1987, trad. di Donatella Pini, p. 111.
Edizione originale Editions Gallimard,
1931.
[8] Pierre Drieu La Rochelle, Diario di un delicato, SE edizioni, 1998, trad.
di Milo De Angelis, nota p 99. Edizione originale Journal d’un délicat, Editions Gallimard,
1963.
[9] Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco
fatuo, SE edizioni, 1987, trad. di
Donatella Pini, p. 69. Edizione originale
Editions Gallimard, 1931.
[10] Ibid., p. 111.
[11] Ibid., p. 115.
[12] Pierre Drieu La Rochelle, Racconto
segreto, SE edizioni, 1986, trad. di Alfredo Cattabiani, p. 23. Edizione
originale Editions Gallimard, 1961.
[13] Pierre Drieu La Rochelle, Diario 1939 . 1945, Il Mulino, 1995; 17 ottobre
1944, p. 425. Edizione originale Journal
1939 – 1945, a cura di Julien Hevrier,
Editions Gallimard, 1992.
[14] “Preferivo qualcosa di minuto, di elastico, di delicato. Ecco. Quel
coltellino da dessert così appuntito, che penetrava così facilmente nella carne
di una pera o di una pesca. Saggiavo la punta con il polpastrello, la saggiavo
e la sentivo. La spinsi contro il dito dolcemente, la spinsi più forte.
Incomincio a farmi male e allora smisi di premere. Ripresi con più forza,
spinto dalla curiosità e dal desiderio. Il dolore diventò diverso, più
concentrato, più acuto e una goccia di
sangue apparve. Restai a bocca aperta: era dunque possibile.” Pierre Drieu La
Rochelle, Racconto segreto, SE edizioni,
1986, trad. di Alfredo Cattabiani, , p. 19. Edizione originale Editions Gallimard, 1961.
[15] A tal proposito si veda il capitolo Adieu a Gonzague su Drieu La Rochelle con la versione poetica del frammento omonimo di
Poesia e destino, Milo De Angelis, Cappelli editore, 1982.
[16] Pierre Drieu La Rochelle, Racconto segreto, SE edizioni, 1986, trad. di
Alfredo Cattabiani, , p. 23. Edizione originale
Editions Gallimard, 1961.
[17] In
questa prospettiva Alain, il
protagonista tossicomane di Fuoco fatuo,
è il prototipo del tipo umano descritto
da Drieu: “I drogati sono i mistici di un’epoca materialistica che, non avendo
più la forza di animare le cose e di sublimarle in simbolo, operano in esse un
processo inverso di riduzione e le consumano e le logorano fino a raggiungere
in esse il nucleo del nulla” p. 62 Pierre
Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo, SE
edizioni, 1987, trad. di Donatella Pini.
Edizione originale Editions Gallimard,
1931.
[18] Pierre Drieu La Rochelle, “I cani di paglia”, Guanda,
Milano, 1982. Traduzione di Maria Pia Tosti Croce.
[19] “Il cielo e la
terra non sono umani o benevoli alla natura degli uomini, essi valutano tutti
gli esseri come se fossero cani di paglia da usare nei sacrifici.”
[20] Si veda a tal proposito un passaggio
delle ultimissime pagine scritte da Drieu in vita, le ultime dell’incompiuto
Memorie di Dirk Raspe: “…ma devo riconoscere che io vedevo l’uomo al di là di
ogni civilizzazione, passata o futura che fosse” p. 254.
[21] “La letteratura è il contrario di una
seria disciplina filosofica e religiosa
che miri a raggiungere l’ascesi e ad acquistare così la concentrazione su punti
via via imprescindibili. La letteratura è ricerca e culto del concreto, del
particolare; per altri versi, beninteso, comporta una visione dell’universale,
ma di un universale che resti presente e impegnato in tutte le sue parti.”
Pierre Drieu La Rochelle, Diario 1939 . 1945, Il Mulino, 1995; 18 ottobre 1944,
p. 427. Edizione originale Journal 1939
– 1945, a cura di Julien Hevrier,
Editions Gallimard, 1992.
[22] “Io, scrivo sotto
l’ombra d’un ponte una frase anonima che nessuno leggerà mai. Ma è una frase
detta per sempre. Come per
sempre questa piccola maschera di pietra è scolpita in cima alla cattedrale,
dove in quattro secoli è stata guardata distrattamente due volte soltanto dagli
operai addetti alle riparazioni. Più i dettagli dei miei giorni, delle mie ore,
dei miei minuti sono infimi e più mi ci aggrappo; più mi dedico all’effimero e
più l’effimero mi distacca…No, mi lega all’eternità che cade nel mio petto
goccia a goccia…No, è una goccia sospesa per sempre e che non cade mai”. Pierre
Drieu La Rochelle, “I cani di paglia”, Guanda, Milano, 1982. Traduzione di Maria Pia Tosti Croce.
[23] Pierre Drieu La Rochelle, Diario di un
delicato, SE edizioni, 1998, trad. di Milo De Angelis, p.76. Edizione originale Journal d’un délicat, Editions Gallimard,
1963.
[24] Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco
fatuo, SE edizioni, 1987, trad. di
Donatella Pini, p. 115 . Edizione originale
Editions Gallimard, 1931. “Il suicidio, questo grande rifiuto, è un atto gratuito, o non è.” Questa è
la definizione del suicidio che dà Guido Morselli nel suo “Capitolo breve sul
suicidio”. Ecco il suicidio prima di tutto è un gran rifiuto. Di cosa, del mero
dato dell’esistenza, del suo vuoto ripetersi. Il suicida non vuole farsi del male,
è colui che non accetta il dato dell’esistenza così come gli è stato consegnato,
ma desidera l’oltre dell’esistenza, che però in quanto oltre è già da sempre al
di là di qualsiasi possibilità di appagamento. Il suicida desidera l’esistenza
nella sua possibilità ultima, nella sua purezza impossibile. E nel desiderare
ciò scopre la sua costitutiva nullità e a questa nullità non si rassegna ma
pretende di poterne rinascere. Il suicidio è un atto gratuito perché trascende
le motivazioni che possono aver condotto il singolo alla soglia del gesto, tra
la soglia e il gesto definitivo c’è una sproporzione tale che ogni precedente
motivazione è assorbita svanendo in quell'atto. A differenza di quanto si possa
pensare il suicidio è una rinascita o meglio è un ricongiungersi al Sé della
propria personalità che la vita ha tradito. E qui c’è una radicale componente
narcisistica. Per cercare se stessi bisogna correre il rischio di perdersi anzi
bisogna perdersi, annegare nella propria immagine riflessa, sapendo che oltre
quell’immagine che abbiamo di noi o c’è tutto o niente. Ma al di là del dopo, è
in quel gesto estremo che il suicida pensa di trovare se stesso, di scavare in
fondo al proprio desiderare (Frustato? Impossibile? Impazzito? Rimosso?) e di
trovarne la fonte, di fare i conti con le cose, con l’oggetto del proprio
desiderare che in quel gesto coincide con il desiderare stesso, proprio nel
momento in cui si desidera solo la morte.
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