La fine di Lucrezio
“Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo”.
Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.
La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere;
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione;
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.
Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen!
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.
Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera
in una fusione che non s’avvera.
Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.
Adesso sento crescere la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega mortale del clinamen.
Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.
Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende…
(il gallo nasce non dall’uovo
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.
Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto.
Resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.
Vincenzo Frungillo nasce nel 1973 a Napoli. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo libro di versi Fanciulli sulla via maestra (Palomar, Bari). Nel 2007 è stato finalista del Premio Delfini con Ogni cinque bracciate. Un estratto. Nel 2009 pubblica Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, (Le Lettere, collana Fuori Formato, con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis). Un piccolo estratto del libro è stato tradotto in Germania, una parte più ampia è in corso di traduzione negli Stati Uniti. Nel 2011 è tra gli autori di La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone). Parte del primo capitolo del romanzo inedito Il genio degli avanzi verrà pubblicato in dicembre per La Libellula. Rivista di italianistica. E’ redattore di Puntocritico e Absoluteville.
“Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo”.
Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.
La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere;
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione;
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.
Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen!
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.
Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera
in una fusione che non s’avvera.
Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.
Adesso sento crescere la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega mortale del clinamen.
Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.
Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende…
(il gallo nasce non dall’uovo
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.
Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto.
Resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.
Una
è la regola,
ma varia la misura,
tornano i corpi verso la
fonte,
poi se ne allontanano per repulsione,
così gli astri, così la luce,
così il sole
ripetono la rivoluzione, la regola prima della generazione
e
anche se alla fine il vulcano mi darà ragione,
tutto intorno sarà solo cenere
e distruzione,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna
d’Iperione.
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda,
Memmio,
il sole.
Vincenzo Frungillo nasce nel 1973 a Napoli. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo libro di versi Fanciulli sulla via maestra (Palomar, Bari). Nel 2007 è stato finalista del Premio Delfini con Ogni cinque bracciate. Un estratto. Nel 2009 pubblica Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, (Le Lettere, collana Fuori Formato, con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis). Un piccolo estratto del libro è stato tradotto in Germania, una parte più ampia è in corso di traduzione negli Stati Uniti. Nel 2011 è tra gli autori di La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone). Parte del primo capitolo del romanzo inedito Il genio degli avanzi verrà pubblicato in dicembre per La Libellula. Rivista di italianistica. E’ redattore di Puntocritico e Absoluteville.
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