venerdì 24 febbraio 2012

Figli di Vincenzo D'Alessio



“Dove sono le mani/ di mio figlio seppellite/ dentro madre terra/ tradita da tossici residui/ rintanati sotto nuda terra.” In questi versi è racchiuso gran parte del mondo poetico di Figli – Edizioni G.C. “F. Guarini”, 2009 – di Vincenzo D’Alessio - poeta e critico letterario di consolidata fama- : il rapporto ancestrale con la terra e il relativo tradimento da parte dell’uomo civilizzato e soprattutto Il senso del dolore, non di un dolore qualsiasi ma di quel dolore totale, perché avvertito come innaturale nell’ordine delle cose, che è la perdita di una persona cara, della più cara delle persone, il figlio. Come si può e si deve sopravvivere a questo lutto lancinante e come lo si può nominare senza tradirlo, ma cercando di custodirlo nella sua indicibilità radicale? Tutte le poesie della prima sezione del libro si muovono sullo sfondo di questo dramma. E la loro peculiarità sta nel racchiudere in pochi versi, limpidi e cristallini, il dialogo con le ombre che, nell’animo di chi scrive, sono vive nella loro irriducibile lontananza: “Dove dormi angelo ferito/ tuo padre ti cerca/ nelle acque del cielo/nelle corde infinite/ di un contrabbasso antico/”. Un dialogo che è un domandare incessante, un’inesausta richiesta di senso: “dove guardano i tuoi occhi/ quali mari toccheranno/ i tuoi fianchi dopo il lutto/ che ci ha colpiti nel seno?” Ed è questa richiesta di senso che rende il discorso, non solo un dialogo intimo con la persona cara, ma un parlare all’umanità intera, al senso del suo stare al mondo, come fa notare in maniera precisa Emilia Dente nella sua prefazione: “Il dramma personale dell’uomo D’Alessio scivola poi, come rivolo sottile e profondo, nel fiume della sofferenza collettiva, la sofferenza dell’umanità umiliata ed offesa dal male, nel coro mesto di quella “gente di creta/ (che) si spegne tutta ignuda / gridando di cancro in ospedale” gridando forte che “la morte la respiriamo nei fili d’erba nera/ nelle macchie malate dei castagni”.
In questi versi si fondono il dolore privato con quello per l’umanità sofferente, oltre che lo sgomento per la radicale perdita di senso del rapporto dell’uomo con la sua casa (oikos), con l’ambiente e con la natura, madre che ci accudisce a cui noi rispondiamo con la devastazione del territorio e quindi, inconsapevolmente, di noi stessi. Tale contesto di relazioni emerge soprattutto nella seconda parte del libro, La mia terra, poesie 1996, dove nel rapporto d’amore con la sua terra, l’Irpinia, l’Autore manifesta l’alternarsi dei due poli della passione, l’amore per i luoghi che hanno descritto la sua esistenza, ma anche l’odio per ciò che la sua terra è diventata, in cui si manifesta sia lo slancio passionale ma anche la rabbia “Terra/ (continui a chiamare)/ non voglio tornare!/ Seguo/ capre/ sulle sponde dell’esodo./ Non appartengo/ a questa ingrata terra.”  Il rapporto “carnale” con la propria terra diventa il paradigma di un approccio alla natura tutto volto ad un recupero delle autentiche radici della comunità, perse invece nello spaesamento in cui è caduta l’Irpinia, come gran parte del Sud. In questo la poesia di D’Alessio ha una forte connotazione “ecologica” ed etica, nel senso che la vita dell’uomo non può essere slegata dal rapporto con la terra e dall’ethos che da questo rapporto scaturisce: “Qui/ dove riposa il vento/ sento la tua anima./ Il mondo/ vende panico e rammarico erba verde/ recisa alle radici./ Porto il nome che ripetevo allora./ Torna/ pietoso il suono/ a ricordarmi uomo.”  Ed è forse solo qui la salvezza (anche per chi è andato via, costretto ad emigrare al Nord), in questo senso di appartenenza ad un destino comune, dove può essere, infine, anche recuperata la dimensione del dolore, sia individuale che collettivo. Può essere ritrovata una speranza anche nel silenzio del sepolcro: un luogo dove il padre e il figlio tornino ad abbracciarsi sotto lo sguardo compassionevole di un Dio, che renda il vivere e il morire meno assurdi: “La neve tornerà ed io/ con lei a baciare il marmo/ candido delle forme/ figlio scomparso al sorgere/ del sole raganella impazzita/ nel pantano Ci sarò a darti/ l’alito di fuoco che il freddo/ ti ha tolto dalla fronte/ gli occhi chiari all’odore/ del vento Ci sarò/ per perdermi in rivoli sottili/ poi mi fermerò sotto la coltre/ sperando che un Dio/ ci sveli l’ora dell’infinito.”

Francesco Filia

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