“Dove sono le mani/ di mio figlio seppellite/ dentro madre terra/ tradita
da tossici residui/ rintanati sotto nuda terra.” In questi versi è racchiuso gran
parte del mondo poetico di Figli –
Edizioni G.C. “F. Guarini”, 2009 – di Vincenzo D’Alessio - poeta e critico
letterario di consolidata fama- : il rapporto ancestrale con la terra e il
relativo tradimento da parte dell’uomo civilizzato e soprattutto Il senso del
dolore, non di un dolore qualsiasi ma di quel dolore totale, perché avvertito come
innaturale nell’ordine delle cose, che è la perdita di una persona cara, della
più cara delle persone, il figlio. Come si può e si deve sopravvivere a questo
lutto lancinante e come lo si può nominare senza tradirlo, ma cercando di
custodirlo nella sua indicibilità radicale? Tutte le poesie della prima sezione
del libro si muovono sullo sfondo di questo dramma. E la loro peculiarità sta
nel racchiudere in pochi versi, limpidi e cristallini, il dialogo con le ombre
che, nell’animo di chi scrive, sono vive nella loro irriducibile lontananza: “Dove dormi angelo ferito/ tuo padre ti
cerca/ nelle acque del cielo/nelle corde infinite/ di un contrabbasso antico/”.
Un dialogo che è un domandare incessante, un’inesausta richiesta di senso: “dove guardano i tuoi occhi/ quali mari
toccheranno/ i tuoi fianchi dopo il lutto/ che ci ha colpiti nel seno?” Ed
è questa richiesta di senso che rende il discorso, non solo un dialogo intimo
con la persona cara, ma un parlare all’umanità intera, al senso del suo stare
al mondo, come fa notare in maniera precisa Emilia Dente nella sua prefazione:
“Il dramma personale dell’uomo D’Alessio scivola poi, come rivolo sottile e
profondo, nel fiume della sofferenza collettiva, la sofferenza dell’umanità
umiliata ed offesa dal male, nel coro mesto di quella “gente di creta/ (che) si spegne tutta ignuda / gridando di cancro in
ospedale” gridando forte che “la
morte la respiriamo nei fili d’erba nera/ nelle macchie malate dei castagni”.
In questi versi si fondono il
dolore privato con quello per l’umanità sofferente, oltre che lo sgomento per
la radicale perdita di senso del rapporto dell’uomo con la sua casa (oikos),
con l’ambiente e con la natura, madre che ci accudisce a cui noi rispondiamo con
la devastazione del territorio e quindi, inconsapevolmente, di noi stessi. Tale
contesto di relazioni emerge soprattutto nella seconda parte del libro, La mia terra, poesie 1996, dove nel
rapporto d’amore con la sua terra, l’Irpinia, l’Autore manifesta l’alternarsi
dei due poli della passione, l’amore per i luoghi che hanno descritto la sua
esistenza, ma anche l’odio per ciò che la sua terra è diventata, in cui si
manifesta sia lo slancio passionale ma anche la rabbia “Terra/ (continui a chiamare)/ non voglio tornare!/ Seguo/ capre/ sulle
sponde dell’esodo./ Non appartengo/ a questa ingrata terra.” Il rapporto “carnale” con la propria terra
diventa il paradigma di un approccio alla natura tutto volto ad un recupero
delle autentiche radici della comunità, perse invece nello spaesamento in cui è
caduta l’Irpinia, come gran parte del Sud.
In questo la poesia di D’Alessio ha una forte connotazione “ecologica” ed
etica, nel senso che la vita dell’uomo non può essere slegata dal rapporto con
la terra e dall’ethos che da questo rapporto scaturisce: “Qui/ dove riposa il vento/ sento la tua anima./ Il mondo/ vende panico
e rammarico erba verde/ recisa alle radici./ Porto il nome che ripetevo
allora./ Torna/ pietoso il suono/ a ricordarmi uomo.” Ed è forse solo qui la salvezza (anche per chi
è andato via, costretto ad emigrare al Nord), in questo senso di appartenenza
ad un destino comune, dove può essere, infine, anche recuperata la dimensione
del dolore, sia individuale che collettivo. Può essere ritrovata una speranza anche
nel silenzio del sepolcro: un luogo dove il padre e il figlio tornino ad
abbracciarsi sotto lo sguardo compassionevole di un Dio, che renda il vivere e
il morire meno assurdi: “La neve tornerà
ed io/ con lei a baciare il marmo/ candido delle forme/ figlio scomparso al
sorgere/ del sole raganella impazzita/ nel pantano Ci sarò a darti/ l’alito di
fuoco che il freddo/ ti ha tolto dalla fronte/ gli occhi chiari all’odore/ del
vento Ci sarò/ per perdermi in rivoli sottili/ poi mi fermerò sotto la coltre/
sperando che un Dio/ ci sveli l’ora dell’infinito.”
Francesco Filia
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