lunedì 11 novembre 2013
Francesco Filia, La neve, Fara editore, 2012
Francois Villon cadenzava un sua celeberrima ballata con il ritornello: "Mais où sont les neiges d'antan?" ("Dove sono le nevi dell'anno?"). Il biancore a cui si riferiva il poeta francese era il candore intravisto tra le pieghe della storia, il tocco della grazia sulle vicende umane. Francesco Filia dilata quest'interrogativo per l'intero arco di un poemetto. La neve, vincitore del concorso bandito da Fara editore nel 2012, ha come immagine predominante il biancore della neve, il suo dolce manto intravisto da lontano sulle pendici del Vesuvio. "La neve, quella vera, non l'abbiamo mai vista/ se non nella bocca a nord del vulcano/ nei pochi giorni dei cristalli dell'inverno come una minaccia [...]", recitano così i primi versi del poemetto per frammenti dedicato alla città di Napoli. Questa prima immagine del libro ha la capacità di introdurre il senso complessivo del libro: il manto della grazia è ridotto ad una visione lontana sulle pendici di un vulcano attivo. Grazie e minaccia s'intrecciano indissolubilmente, tanto che la prima, come appunto nei versi di Villon, diventa un riflesso lontano e intangibile. Altro accostamento si potrebbe fare con un autore straniero, questa volta contemporaneo, D. Grünbein, che nel suo poema Della neve (Vom Schnee) scrive: "Mi spaventa la neve/ questo lenzuolo funebre,/ come bocca che sbava, o come occhi rovesci". In Grünbein la neve è simbolo dell'anestesia del reale causato dal cogito cartesiano, il distacco inguaribile dal mondo. Il poema è appunto una biografia in versi di Cartesio, delle sue ultime ore di vita. Filia invece mette l'accento sulla "neve sporca", sui "rivoli d'acqua" causati dalla neve che si scioglie, su quanto di deteriore resta della grazia intravista alla pendici del Vesuvio. Ma la neve è anche l'espediente metaforico che sospende il lettore dalle sue aspettative e lo costringe ad uno sguardo straniato sul mondo: "perché la neve a Napoli?" La poesia di Filia è infatti lontana dai modelli di quella che potremmo definire una scuola napoletana, lontana quindi sia dal più recente canone neobarocco (che premette un'accettazione incondizionata dei segni del reale) sia, neanche a dirlo, dalla tradizione neorealistica di tradizione più consolidata. La sua poesia mira piuttosto al respiro epico del racconto (i trenta frammenti sono per buona parte composti da versi liberi ipermetrici, con una massiccia presenza di enjambement) senza però tradire l'origine conoscitiva e cosmogonica dell'epos. Il frammento XV (Cose da fare) è da questo punto di vista una dichiarazione di poetica: "Costruire sillaba dopo sillaba/ le strade che hai amato: vico delle fate a forìa/ via belledonne a chiaia vicolo delle fiorentine via/ ascensione vico giganti, o odiato, portarle con te/ in ogni giorno di questa città, camminare/ fin dove una strada non è più città ma gioia/ perduta, destino". La parola rinomina ciò che è stato detto da altri senza la nostra voce. Come nella precedente silloge di Filia, Il margine della città, anche ne La neve l'epoché dal sentire comune e quotidiano, permette quindi uno sguardo nuovo sul mondo. Si apre così all'occhio del poeta l'originario bivio del destino, del "c'è stato" e del "sarà": da una parte la minaccia della Storia, o degli eventi privi di voce, e dall'altra la parola che rinomina, ridice, per incurvare il destino in un bagliore di grazia, così come avviene sulla "bocca[...]del vulcano". Ravvisabile il procedere di Filia proprio dal modo in cui utilizza le forme verbali. Molti dei frammenti iniziano con un passato, con il già avvenuto, il peso del destino nel senso greco del termine: "Il bianco sporco della neve si è fermato" [framm. II], "Abbiamo visto bruciare le colline del nostro assedio" [framm. V], "Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine" [framm. X] etc. Altro verbo utilizzato è il futuro: "Raccoglieremo le ombre esposte a questo niente" [framm. III], "Non saremo noi a sentire il tepore di questo disgelo" [framm. IV], "Osserveremo il colmo di questo cielo" [framm. XXVII].
Le prime due strofe del frammento XI diventano così di sublime chiarezza: "Discendenze trapassano il nostro sguardo per finire/ nel futuro remoto di grida e strati sepolti. Riconoscerai/ il tuo sguardo negli occhi di tua figlia, nel suo piangere/ e gioire ad ogni istante e saprai che non sei l'ultima cosa/ rimasta ma solo quel che non hai voluto, le impronte/ delle dita nella calce e uno sguardo di donna senza pace/ la linea severa della fronte e un sorriso appena accennato./ Conosciamo la prossemica del dolore dalle rughe/ d'espressione delle madri, dal loro incedere senza timore/ senza speranza, dalla loro algebra di vita e di morte".
L'essere tra il passato destinale e il futuro delle attese raccoglie il singolo nel bivio tragico del sé; lo predispone però anche alla speranza. Napoli diventa allora come l'Ankara del poeta Ka, il protagonista del romanzo La neve dell'autore turco Orhan Pamuk, raggelata in una anagramma che somiglia al cristallo del fiocco di neve e che trattiene sulle sue appendici principali la logica, l'immaginazione, e la memoria; sulle sue direttrici periferiche l'amore, l'amicizia delle stelle, il morire ammazzato. Al centro c'è l'io. Così Filia disegna la sua bio-grafia, lascia che l'immagine del biancore impressioni se stesso e la nostra storia.
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