nessun nemico
I
piombo, è il tempo-zavorra, questo
giorno
salgoscendo
piombo che sfora e tace,
orfano al mondo
vadovengo
sequenze le catene inconcludenti
sfilo da occhiello a occhiello
metto punto
sia – sole alla luna piena
luce d’ombra
II
L’umido appiccoso alla parola
muta la bocca in muffa, nostra fortuna
III
in fila le formiche invadono il terreno,
la zappa si conficca, le scompiglia
avanzano i più forti
tutto un presidio – io rimpiangevo i deboli
IV
ho occluso i circuiti, bruciati i ponti
strappati i by-pass, intorno c’è il deserto
nessun nemico – mi chino
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gaté
Stranissimo, la strana, la paura non detta
quella che è asserragliata,
sola cerca d’amore
l’esser voluto bene
normale normalissimo
se se se ti
volessi bene
soltanto, senza un fine, senza un cerca la mamma
l’ultimo, il puer eterno, amando il quadro e il tondo
finisce il nascondino
odore forte di menta
niente paura niente,
lascialo via il respiro
niente niente paura
vedi, io e te
si muore,
strano quant’è normale
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autonegato
Andando a fondo
-dice
aspetta che anneghi
Sopra/sotto
-dipende
dal punto, una sutura
Andando dentro
-insiste
la cecità di polpa, lo scuro del nocciolo
Pazzia assoluta
-tremita
come ci fosse una, qualunque, mattìa relativa
Andando via
-finisce
il risultato noto, parrebbe. Autonegato.
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lucreziana
Qualsivoglia vita squagliando
fosse di gelsomino, l’aria ubriacata chiara,
di stecco secco e storto, memoria tra le bacche,
di cincia mattutiona, cipria per piuma rossa,
di uno vecchio idropico, la corsa da ragazzo,
lascia una traccia invisibile inghiottita
sino alla prossima rinascita immersa nelle cellule
le stesse, stringile al fondo, forme diverse.
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impermanere
la te-la si sfal-da,
si slava,
precipite vento
azzera la forma
un solo momento: lo sfilo e l’avvinghio.
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vociavano
Forme a parvenza al ralenti
il traguardo – macinato
se ne accorge, scorge in tralice la linea
chi l’ha mai tracciata – prende un pennello
ad allungarla in una curva
gonfia e ridondante
cos’era? ah, sì, esistenza, vociavano
così va meglio. più esatto,
fine di gara.
finge quel gatto.
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en plein air
I
Sta per i fatti suoi, quasi ringhioso,
il gatto nato bianco, quasi albino,
le zampe dietro sbilenche
si rifugia tra i pini, i peli irrigiditi
di resina la crosta, non sorride
rifugge – mio fratello ha paura
II
Bere di notte acqua alle pozze
incontrare allegri porcospini
spedire i minatori nel ventre delle madri,
le sciocche, povere talpe – un rospo deciduo
verde squillante tra i ciclamini la mattina
l’involucro, di suo, già corpo vivo
III
Carezza su carezza fuso all’uomo
malcerto macilento
beninteso-cibo nel ventre e
affetto, però non ce l’ha fatta, mea culpa
grandissima, vana
IV
La vita è l’arte di essere perdenti, nulla di nuovo – dimentica
- si muore
V
L’istante che le frullano
le ali, d’un colpo la tortora che
plana e la farfalla enorme
candeggia questa luce, squaglia
crema, intanto che si scollano
etichette, si arrestano i pensieri
frullano insieme tutti – senti
i respiri
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persi
Una sbiadita primavera segna le tracce d’inverno mai finito,
tronchi e rami spezzati.
Incerti e coraggiosi tra soffioni e sambuchi
spuntano papaveri, quelli che ce la fanno
i forti, i fortunati.
Io m’aggrappavo ai persi,
(lavoro in corso)
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