venerdì 16 novembre 2012

Il sentimento dei vitelli. Luca Minola e Francesco Maria Tipaldi.



Far incontrare due poeti in unico libro non è cosa semplice. Spesso capita che le due voci siano incompatibili o che l’una sovrasti l’altra. Nel libro Il sentimento dei vitelli (a cura di Alberto Pellegatta, EDB Edizioni, 2012) questo non accade. Le voci dei due autori - Francesco Maria Tipaldi e Luca Minola, campano l’uno bergamasco il secondo - sono, nella loro diversità, complementari. In quanto l’uno sembra il negativo dell’altro, l’uno opera negli spazi dell’immaginario lasciati liberi dall’altro e viceversa. Quanto sovraesposto, presente scenicamente, tra il Barocco e il Rococò, è Tipaldi, così è invece nascosto nelle pieghe dei versi il linguaggio di Minola, che agisce più per sottrazione che per aggiunta di elementi.
Leggendo le poesie di Tipaldi il primo riferimento letterario che mi è venuto in mente è Spaccanapoli del suo conterraneo Domenico Rea (e da lì su fino al Basile de Lo cunto de li cunti), sia per la studiatissima brevitas dei testi (utilizzata anche se con intenzione diversa da Minola) e per la lingua sonante, icastica e nervosa, per le accensioni e gli scatti delle scene, ma anche per l’immaginario, legato a un mondo basso e terrigno,  che risucchia verso di sé ciò che invece dovrebbe essere alto - Cristo, gli angeli, il sacro. Di questo mondo Tipaldi coglie l’aspetto fantastico, grottesco (L’uva fragola sarebbe stata causa di enormi/ terribili diarree/ Lo sapevano Nahum e i profeti tutti.// Le feci divennero molli/ I ragazzi provarono il sentimento dei vitelli.) e, dietro questa maschera, la necessaria crudeltà della vita, se è vero che ritornare alla natura significa rinchiudersi nelle mura della violenza (Cercavo sul fondo della pupilla morta/ quello che non mi è dato/ vedere). Le scene di questi testi nascono, nella loro sapidità, da un horror vacui, dal sospetto che dietro la multiforme e fantasmagorica scenografia naturale, dietro i culoni in primo piano delle contadine, si nasconda il nulla (-io lo so che verrete/ madre/ il nulla ci mangia nella mano/ come fosse un cane.). E quindi la poesia, la vita e la fanciullezza non possono che essere un’attesa crudele e divertita della morte, dove nelle poche pause concesse ci si può persino aprire all’amore che non salva e al candore dell’anima (Erano labbra reali/ parole reali nello stesso posto/ e tu eri bianca come un pane bianco// e ti ho toccata come un cieco/ ti avrebbe toccata, avevi i capelli bagnati,/ i capelli bagnati/ anima.). Vivere significa attendere il mammone (la morte, il nulla) che ci porterà via con sé e a cui potremo solo rispondere con il disincanto e la saggezza della terra, di quella parte di noi, la più infima forse, che non muore (dicono sia la morte questo senso/ di spossatezza/ questa stazione zuppa/ di mosche).
Nei testi di Minola, come si è accennato sopra, il procedimento predominante è quello della sottrazione, ma anche quello di un tentativo estremo di fragile ricomposizione. I versi sembrano i frantumi rimasti dell’immenso specchio della rivelazione, di una meraviglia ancestrale, di cui si è persa traccia e di cui rimangono solo frammenti sparsi, intermittenze, brevi accenni, visioni rapite e vertigini della memoria (Non ci sono altri oggetti da separare,/ nelle stanze le memorie sono calendari di luce.). Frantumi che riflettono luci e colori (Dopo si brucia il verde delle foglie) di una natura ambivalente, da un lato apparentemente accogliente dall’altro sottilmente inquietante. La luce, come fa notare Pellegatta nella presentazione, è un aspetto centrale dell’immaginario di Minola, anzi si potrebbe dire che lo studio di essa è la traccia che conduce il poeta a corrispondere allo stupore originario che lo muove, è il filo segreto e invisibile che tiene insiemi le immagini disperse del mondo. E che in ultimo, dopo una peregrinazione che lo porta ad attraversare la dispersione della vita con la bussola di una sottile ironia, permette all’anima di purificarsi (Le sostanze sono chiare, piene di radiazioni,/ portano il filtraggio, lo spurgo/ delle lunghe ore di sonno.), di scoprirsi nella sua nudità. L’anima non si mostra solo come cercatrice di un ordine scomparso (I suoi movimenti sono prigioni di diritto,/ lunghe intermittenze./ Non sbaglia, tocca il morso,/ il meccanismo dell’ordine.) - indagatrice di un destino, che spesso appare in sogno e o nelle ore del buio (Negli spazi si dividono le ore dei nottambuli/ quando la casa è passata dall’abito/ e lo  sguardo si carica di effetti nel tempo immobile,/ il sonno che riproduce l’abbondanza.) e che si dà tra il desiderio colmo di dubbi dei mortali (C’è speranza solo adesso che è tardi/ e i fili sono tutti tirati/ e la lana non si indossa più.) e il cielo inquieto che li sovrasta (È la mossa  dei destini,/ i dubbi precisi modellano le strade/ e il paesaggio è arrestato.// Osservo  battaglie nei cieli,/ misure di contatto, pressioni dell’aria.) - ma essa stessa si scopre cercata, se non addirittura desiderata e accolta (Sarei il sogno a te presente,/ l’azzurro spinto al massimo/ e saprei che l’anima è cercata.).

Francesco Filia

martedì 13 novembre 2012

Cèsar Vallejo, da Poemi in prosa: cosa significa scrivere della distanza.

Il senso buono


Madre c'è un posto nel mondo, che si chiama Parigi. Un posto molto grande e lontano e, ancora una volta, grande.

Mia madre mi aggiusta il collo del cappotto, non perché comincia a nevicare, ma perché cominci a nevicare.

La donna di mio padre è innamorata di me, venendo e avanzando con le spalle rivolte alla mia nascita e il petto alla mia morte. Giacché sono due volte suo: per l'addio e per il ritorno. La chiudo nel rientrare. Per questo mi hanno dato tanto gli occhi di lei, innocente di me, in flagrante di me, effettuandosi mediante opere compiute, patti consumati.

Mia madre è confessa di me, nominata di me. Come non dà altrettanto agli altri miei fratelli? A Victor, per esempio, il maggiore, ormai così vecchio che la gente dice: Sembra fratello minore di sua madre! Sarà perché io ho viaggiato molto! Sarà perché io ho vissuto di più!

Mia madre lascia un attestato di principio colorante al mio attestato di ritorno. Davanti alla mia vita di ritorno, ricordando che ho viaggiato per il suo ventre durante due cuori, arrossisce e rimane mortalmente livida, quando dico nel trattato dell'anima: Quella notte fui felice. Nondimeno, più diventa triste; più diventerebbe triste.

- Figlio come sei invecchiato!

E sfila per il color giallo a piangere, perché mi trova invecchiato, nella lama di spada, nello sbocco del mio volto. Piange di me, si rattrista di me. Che bisogno ci sarà della mia gioventù, se sarò sempre suo figlio? Perché le madri si affliggono di trovare i figli invecchiati, se l'età di questi non raggiungerà mai la loro? Perché dunque, se i figli, quanto più declinano, tanto più si avvicinano ai genitori? Mia madre piange perché sono vecchio del mio tempo e non arriverò mai ad invecchiare del suo.

Il mio addio è partito da un punto del suo essere, più esterno del punto del suo essere a cui ritorno. Io sono, a causa dell'eccessiva dilazione del mio ritorno, più l'uomo davanti a mia madre che il figlio davanti a mia madre. Lì risiede il candore che oggi ci rischiara con tre fiamme. Le dico allora fino ad ammutire:

-Madre, c'è nel mondo un posto che si chiama Parigi. Un posto molto grande e molto lontano e, ancora una volta, grande.

La donna di mio padre, nel sentirmi, prende cibo e i suoi occhi mortali mi scendono soavemente per le braccia.

(Edizione Accademia, 1976, tr. di Roberto Paoli)

giovedì 1 novembre 2012

Il poema degli anni zero - Marilena Renda e Vincenzo Frungillo

A cura di Luciano Mazziotta, con Marilena Renda e Vincenzo Frungillo
Il primo di quattro incontri -venerdì 2 novembre 2012 ore 21 presso il Circolo dei lettori di Sabir Palermo, via Catania13 - tutti curati dal giovane poeta e critico Luciano Mazziotta, sulla nuova poesia, quella colta e letterariamente consapevole, di autori nati negli anni Settanta/Ottanta. Renda e Frungillo, siciliana lei napoletano lui, si occupano entrambi di critica letteraria, oltre che di poesia. Hanno pubblicato in volume e su siti autorevoli nel mondo letterario, fra cui Nazione Indiana e il blog collettivo Poetarum Silva.

A partire dal 2001, anno di pubblicazione del Tiresia di Giuliano Mesa, questo secolo ha visto un incremento esponenziale della scrittura poematica in Italia. Nell'arco di pochi anni si sono susseguiti Cefalonia di Luigi Ballerini, Le api migratori di Andrea Raos, Neon 80 di Lidia Riviello. Tra questi ovviamente bisogna ancora ricordare le operazioni di Vincenzo Frungillo e di Marilena Renda. Il primo con Ogni cinque bracciate riporta alla luce un poema in ottave, mentre con il suo ultimo lavoro, pubblicato sul Quaderno di poesia contemporanea diretto da Franco Buffoni, riprende la forza filosofica delle argomentazioni lucreziane.
Marilena Renda esce invece nel 2012 con Ruggine. Poema sul terremoto del Belice nel '68. Benché, da un tema così vicino a noi, ci si aspetti una trattazione "neorealistica", Marilena sfuma il linguaggio, dando l'impressione di trovarsi dinnanzi ad una "profezia retroattiva".
La forza filosofica del poema contemporaneo potrebbe spingere ad un'osservazione: si tratta di "carmina", nel senso latino del termine, e nel senso utilizzato da Foscolo per definire il suo "carmen filosofico", i Sepolcri. Come di un lungo testo che implica in sé argomentazioni filosofiche e sfumature narrative.
Questo incontro cercherà di mettere in luce sia gli aspetti delle opere dei due poeti, sia di contestualizzarle all'interno delle scritture coeve, sia di collocarle nell'ambito della poesia italiana del secolo precedente.
Ciò che salta all'occhio, ad ogni modo, è che ad un canone egemone che vede la tautologia tra poesia e lirica, un genere letterario come il poema in realtà non è affatto secondario e ritorna, per ondate, ciclicamente nel panorama della letteratura italiana.





L.M.