sabato 27 ottobre 2012

La croce delle spose di Prisco De Vivo

(tratto dal catalogo Sfilata Trascendentale "Le Spose", ed. Arco&Arco 2007)

Se ci si pone di fronte all’opera pittorica di Prisco De Vivo dal titolo La croce delle spose, si resta stupiti, e inizialmente irretiti, dalla sua complessità. Ma, come deve succedere in tutte le esperienze artistiche di valore, tale complessità poi cede qualcosa all’occhio di chi interroga. Questo accade, però, gradualmente, per livelli d’osservazione. Bisogna dire preliminarmente che la struttura complessiva del quadro è fatta gravitare intorno ad un ramo dorato: un elemento vegetale applicato sulla tela che ha come corolla quattro dipinti che raffigurano altrettante spose. La composizione dell’opera forma una croce che ha come quattro bracci i dipinti delle donne in bianco. Volendo allora seguire la priorità degli impulsi visivi che questa composizione regala, bisogna prima di tutto chiedersi il perché di quel ramo. L’analogia immediata che viene in mente, non è pittorica: si pensa infatti, quasi d’istinto, al testo di James Frazer, Il ramo d’oro. In questa voluminosa opera l’antropologo inglese cerca di ricostruire i miti della fertilità della terra e indica come questi rituali magici siano alla base delle successive pratiche religiose. Il mito primigenio da cui parte Frazer è quello di Enea che scende nell’Ade per riportare il padre morto nel mondo dei vivi. La Sibilla cumana consiglierà ad Enea di portare con sé, nel viaggio infernale, un ramo d’oro, simbolo di vita e di rinascita. L’elemento vegetale diventa così il simbolo della relazione tra morte e vita, tra il basso e l’alto, tra l’inorganico e l’organico. Tale relazionalità tra le cose basse e la risalita verso l’alto è l’essenza dei mortali, degli esseri finiti. Questa dinamica primordiale sembra essere la struttura irremovibile dell’umano, la ragione della sua propensione al sacro ed al mito. Ora, partendo da questo assunto, la tesi di Frazer vuole che non sia la religione a fondare il mito, la magia e l’apparizione del sacro, ma il contrario: il magico, il mito, il sacro sono il fondamento ineludibile ed inestinguibile dell’esperienza religiosa. In questo assunto c’è il legame che unisce nei secoli il magico mondo di Giordano Bruno (filosofo citato spesso dal pittore De Vivo) e James Frazer. Tenendo presente questa premessa, si può azzardare dicendo che in De Vivo il ramo d’oro sia un’intensificazione magica e sacra del tratto pittorico. Il gesto minimale del pittore di appoggiare un ramo sulla tela significa la volontà di riportare il gesto pittorico ad un ruolo primordiale: il tratto è apertura, connessione di terra e cielo, relazione di morte e vita, di morte e resurrezione. Già Heidegger, nei sui scritti sull’opera d’arte e su Van Gogh o su Paul Klee, aveva parlato del tratto (Zug) pittorico riportandolo alla sua natura metafisica di relazione di terra e cielo. In questo senso un’esperienza pittorica radicale è stata fatta da pittori giapponesi contemporanei che alla Tate Gallery di Londra, qualche anno fa, hanno esposto quadri che avevano come soggetto una sola pennellata di nero sul bianco della tela: vera operazione zen di relazione tra interno ed esterno. Ma lo stesso gesto radicale lo si può riscontrare nella produzione più famosa di Fontana i tagli sulla tela. In De Vivo tutto ciò assume uno spessore antropico o filantropico (per riprendere un’espressione di Furio Jesi). Il secondo livello d’osservazione lo si ottiene allargando lo sguardo sull’opera di De Vivo: si intuisce la sagoma di un croce. Anche se i richiami del pittore campano sono più spesso rivolti alla classicità del Rinascimento italiano, in linea con un recupero essenzialista di quella stupenda stagione fatta dalla transavanguardia (si pensi a Clemente su tutti), in questo caso non si può non pensare all’iconografia medievale. In particolare esiste una singolare analogia tra la composizione dell’opera di De Vivo e le crocifissioni di Cimabue o di Giotto. Si pensi, ad esempio, alla crocifissione di Cimabue del 1287 conservata a Firenze: qui è raffigurato il Cristo sofferente al centro e la Vergine disposta al lato destro della croce (in un riquadro, in piccolo) e San Giovanni dall’altro lato (sempre in un riquadro, in piccolo). Si pensi poi alla crocifissione di Giotto della fine del ‘300, che a quella del maestra Cimabue s’ispira, con il Cristo morto al centro e la vergine a sinistra e San Giovanni a destra. Si pensi, in genere, a tutto quella tradizione iconografica che commenta la passione di Cristo attraverso i volti e la sagoma della vergine e dei santi posti ai lati del quadro, all’estremità dei suoi bracci. L’analogia con l’opera di De Vivo, dicevo, è singolare perché resta la croce, la sua sagoma, ma viene cancellato il corpo di Cristo. Al suo posto viene posto il ramo d’oro. Ciò che spicca in grande invece sono le sagome delle spose, delle vergini celesti. Il sacro viene riassorbito nel tratto, non permette la rappresentazione di un corpo: è una profondità tutta colta in superficie. Ecco che il mito, la magia, il sacro rivendica la sua originarietà sull’esperienza religiosa. Su questo procedimento si possono fare mille considerazioni. Si può interpretare questo spostamento di fuoco in vari modi. L’esperienza mistica della pittura del medioevo viene riproposta con un nuovo cambio di prospettiva all’apice del razionalismo occidentale. C’è una svolta in cui il razionalismo estremo si ricongiunge con il primitivismo. L’iconografia sacra di De Vivo non è allegoria divina o, quantomeno, il dio a cui lui accenna è tutto assorbito dai colori dalla tela e dai materiali pittorici e vegetali. Detto questo si passa al terzo livelli dell’osservazione: si scorge la sagoma delle donne in bianco, le spose. Non incontriamo l’immagine di donne piene di vita, come potrebbe essere in un Botticelli. Le spose celesti sembrano gravate dalla malattia del nuovo millennio, l’anoressia. Il debito artistico di De Vivo è in questo caso con l’espressionismo tedesco, in particolare per quanto riguarda i timbri forti che caratterizzano le immagini delle spose. Ma non si deve pensare che quest’ennesimo elemento pittorico complichi gratuitamente la scena. Basti ricordare quali erano le origini dell’espressionismo tedesco, quali erano i suoi propositi artistici. In questo ci aiuta un grande studioso della cultura tedesca e del mito come Furio Jesi. Jesi, infatti, in vari interventi critici ricorda la priorità dell’esperienza mitica nelle scene di morte dell’espressionismo tedesco. L’avanguardia tedesca tra le due guerre non è impegnata in una mera dialettica storica, come avviene con le avanguardie degli altri Paesi, non mira al semplice rinnovamento dello sguardo. L’espressionismo, pur nella sua grande novità, cerca di richiamare i fondamenti sacri del fare pittorico. Jesi, poi, ricorda il debito della cultura italiana verso quella stagione (ad esempio,in letteratura, nel Pavese della Luna e i falò o del Dialogo con leucò). Questi scrive: "[…] Ciò che l’espressionismo vede come sacro è precisamente la morte; è la morte il suo grande repertorio di miti. Essa domina nei simboli ricorrenti: la maschera, la donna che è piena di morte come Lulu di Wedekind [corsivo mio], l’assassino, la notte, la città (che è popolata di demoni: cfr. liriche di Heym), il tramonto, il ritorno da un luogo o da un’impresa di morte (motivo del reduce), la mutilazione, (che può essere castrazione cfr. Hinkemann di Toller), il cimitero come quadro di drammi che hanno per protagonisti dei viventi mescolati coi morti, dalla scena finale di Frühlings Erwachen (Risveglio di primavera) di Wedekind, a quella di Menschen (Uomini) di Hasenclenver, alla scena unica di Ein Geschlecht (Una stirpe) di Fritz von Unruh, che segna pur essa un ritorno al mütterliche Unterwelt (al sotterraneo materno, [tr. mia]). Si tratta di simboli nei quali si possono riconoscere alterate immagini già presenti nelle mitologie più antiche: esse però sono scisse dall’antico contesto sociale in cui partecipavano della vita quotidiana dell’uomo come immagini positive, benefiche. E’ venuto a mancare l’istituto della morte. Ora quelle immagini sono isolate nella loro extraumanità; di esse si sa soltanto che sono cose di questo mondo; manca la facoltà umana e sociale di entrare in contatto con esse rimanendo viventi. Esse ormai sono solo accessibili attraverso la morte. Si può riconoscere che esse, come archetipi primordiali, costituiscono la presenza terrifica dell’anorganico all’interno dell’uomo e dinanzi all’uomo: terrifica perché divenuta inaccessibile". Rispondendo a questo stesso richiamo De Vivo, riporta l’"anorganico all’interno dell’uomo e dinanzi all’uomo" e lo fa con l’intenzione di resuscitare dall’interno del mondo contemporaneo il sacro che soggiace ad ogni forma. Questa operazione di De Vivo è radicale ma agita con consapevolezza. Non sono di certo estranei all’artista campano tutti i discorsi della sociologia dell’arte sul ruolo che quest’ultima ricopre nella società di massa. Qui sembra che il pittore agisca a partire dalla fine di questa stessa società. Il sacro, l’espressionismo lo dimostra, non è qualcosa di presente in un tempo addietro irrecuperabile: il sacro è nelle forme stesse. Proprio quando queste forme si storicizzano e poi mostrano la loro decadenza s’intravede la luce che le ha sempre sorrette. Come tutti gli artisti radicali, De Vivo vede a partire dalla fine. Nell’ipersemiosi dello sguardo pittorico dell’uomo del XXI secolo si devono riconoscere i caratteri della verità primitiva. In questo non c’è l’evoluzionismo razionalista di un Frazer; in questo De Vivo è più vicino al Wittgenstein critico di Frazer (penso al libro Note sul “Ramo d’oro” di Frazer). Sintetizzando quindi quanto finora detto, la volontà del pittore è quella di dare risalto alle scene periferiche della composizione visiva annullando il corpo della passione: l’essenzialità primigenia del ramo deve illuminare le vergini moderne. Sono le donne in bianco le protagoniste di un mondo che ha bisogno di essere nuovamente fertilizzato dal sacro. Così due delle donne in bianco sono ricoperte da una luce albale ma hanno sulla stoffa del vestito una macchia dell’oro che caratterizza il ramo posta al centro del quadro; le altre due donne invece sono per lo più coperte dall’oro del ramoscello e poi presentano una macchia di bianco sul busto. Si può scorgere in questo una ciclicità dell’alternanza di fine e resurrezione. Nell’operazione pittorica di De Vivo persiste un ultimo richiamo che riguarda la scelta del soggetto iconico: le spose. L’artista in una conversazione recente ha fatto cadere la mia attenzione sulla produzione di Marcel Duchamp degli anni ’10. Nel 1912, Duchamp era a Monaco dove inizia a studiare il simbolismo alchemico che lo porterà oltre il naturalismo, pur tenendosi distante dall’espressionismo o dal futurismo. Ma nonostante la distanza stilistica di Duchamp da De Vivo, c’è qualcosa nei soggetti del pittore francese che colpisce quest’ultimo. Il simbolismo alchemico, scoperto dal grande artista francese, attrae a distanza d’anni De Vivo. Duchamp disegna l’acquerello La Sposa messa a nudo dagli scapoli (1912), poi eseguirà due disegni “meccanistici” della Vergine e due dipinti, Il passaggio da Vergine a sposa e Sposa. . La sposa è ritratta in simbiosi con un’automobile, anzi segna il momento d’arresto del suo dinamismo: si potrebbe dire alla Bataille che la sposa di Duchamp simboleggia una dialettica in fase d’arresto. Le spose, le dame bianche, che compaiono in varie opere del pittore De Vivo sono le vergini che celebrano il sodalizio tra razionalismo estremo e primitivismo, tra l’alta modernità (postmodernità, contemporaneità, come dir si voglia) e l’epoca antica. Le spose sono il simbolo dell’irruzione del sacro nell’era del razionalismo compiuto e segnano, per l’occhio di chi osserva, il chiudersi di un cerchio.


Jesi Furio, Pavese, il mito e la scienza del mito, in Letteratura e mito, p. 142, Torino, 2002. Già Jesi aveva intuito l’intento filantropico (di salvazione del mondo dalla decadenza razionalistica) dell’espressionismo legato indissolubilmente alla stessa esigenza sorta nell’entonologia del tempo (ad esempio Frobenius o Kerényi).

Duchamp non dirà molto della scelta di quel soggetto, affermerà semplicemente: "Mi preoccupava l’idea della sposa". Cfr. Pierre Carbonne, Marcel Duchamp. Artista del ‘900, Milano, 2004, per questi riferimenti e per visionare le opere di Duchamp sopra citate.

Si tratta in effetti di un vero ciclo pittorico che De Vivo ha composto tra il 2003 e il 2004 al quale appartengono anche i quadri La croce della dark-lady, Esmeralda la piccola sposa, Erika la sposa.


Vincenzo Frungillo

mercoledì 24 ottobre 2012

farapoesia: Su La neve di Francesco Filia

farapoesia: Su La neve di Francesco Filia: Fara Editore, 2012 recensione di Vincenzo D'Alessio Francesco Filia è un poeta meridionale, nato a Napoli dove attualmente vive. Ha pubb...

domenica 14 ottobre 2012

La neve di Francesco Filia, Fara Editore, 2012


            Con la raccolta poetica La neve, Francesco Filia, ha vinto la sez. B del concorso Faraexcelsior 2012

«Una silloge compatta, costituita da trenta frammenti che compongono un “poema dell’assurdo”. Mi si perdoni la formula d’impatto; mi spiego meglio: la neve a Napoli. Ecco il presupposto (presunto o reale) di chi “attraversa la città” e in essa la storia (del proprio vissuto e della città stessa) con competenza stilistica e capacità “lirica” (nonostante la struttura del testo tenda di frequente verso una “quasi prosa poetica”), proponendo un versificare disteso ma attento al dettaglio: «Intuire quel che non può essere colmato sedersi / affondare la mani nella terra sperare nelle nuvole / che piova, sentire l’odore di zolle bagnate alzarsi/camminare fino alla cresta, vedere il cielo allontanarsi / voltargli le spalle, lasciarsi cadere, sapere / crollare.» (Giuseppe Carracchia)

«A Napoli nevica quasi mai, così, se accade, sembra compiersi un evento, un segno benigno, quella promessa bianca che ha la forma della manna: “Abbiamo confuso la minaccia di neve con / la sempre promessa e mai caduta manna, lo stesso / candore lo stesso deserto ma altro nutrimento altre / rovine, nessuna terra promessa, se non questo / catalogo / di cose da dire di strade di cristalli che si sciolgono / prima di toccar terra per diventare fango, poltiglia. / Ci sorprendemmo a guardarla come un incanto / appena accennato, un disegno appena abbozzato.” (da XXII frammento, Napoli 2007). Eppure, da quel “abbiamo confuso”, appare chiarissimo che l’evento atmosferico non è mai una semplice registrazione di grazia: attraverso trenta “frammenti” l’autore ricrea una genesi profonda e insieme una genealogia (nel senso dei suoi legami ancestrali non solo con le sue origini pure ma anche col rovescio della [loro] medaglia: cerchi sciolti, fanghi e scale di grigi…) della neve in una terra che non la trattiene e che piuttosto si sveglia nel gelo di fanghi e pozzanghere, una realtà che brucia sin dal primo movimento reale appena dopo lo stupore. È un libro di contraddizione e per questo di un fascino misterioso e doloroso, in una ciclicità stagionale che mantiene (solo e soltanto, guardando bene) l’accecamento di un nero fitto. Ogni gesto è il suo contrario come / un mai e un sempre”(XXIII frammento, Napoli 2007): e tutti i mai e tutti i sempre convivono come fanno il bianco e il nero, il desiderio di volgere gli occhi al cielo e la forza di gravità che li spinge sempre a terra.» (Anna Ruotolo)

La neve e la sua caducità. La vita e la sua possibilità di conservarla. Il verso lungo della prosa tengono il passo del mare, del vento, e nulla concedono alle rarità del tempo: le pause. Passaggi e ripetizioni da cui si cerca di sottrarre la differenza capace di trasformare la vita in ricordo. (Sebastiano Adernò)



La neve


Qualcuno ci ha promesso qualcosa?
E allora perché attendiamo?
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere)


(I frammento, Napoli 2007)
… noi siamo già quel che voi
sarete domani.

La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal nostro esitare.
E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate
lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre
il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi
si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso
vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri
incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo
tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia
e cielo non c’è più tempo per esitare. L’assedio
è dentro le case. E’ tra la mano e il buio di stanze abbandonate
e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo
scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire
ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze
e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti
gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età
come chi dovrà morire sul serio.

giovedì 11 ottobre 2012

Alessia di Raffaele Piazza


Alessia e Roma
Aria meridiana di Roma, Alessia
Campita nella resistenza dell’ossigeno,
tenta la nuova vita. Verde nel Tevere
intravisto da Castel Sant’Angelo,
tra parole non dette nella certezza
del risvolto dell’incontro con Giovanni
in Piazza Navona, detersa dal ritmo
delle fragole che crescono. Roma a tessere
della sera l’incanto a poco a poco
disadorna via serale, un passante
una zingara una ragazza.
Alessia in forma di donna nuova
Ragazza en plein-air,
gioca alla vita. E’ il 1984
volano i colombi sul cielo di Roma
vista la densità del tessuto sulla pelle
per resistere.

Alessia al lago
Attraversati momenti a poco a poco
nello scorrere del cielo su Alessia,
in quelle nuvole grandiose a forma
di pesce o di cavallo a trarre nutrimento
gli occhi dal cielo, scorto da una zattera
sul lago, a dare vittorie ad ogni passo,
meravigliosa attesa sull’incresparsi
di acque profane a dare un risvolto
di anelito alla roccia azzurra che appare
e dispare nella foschia di un giorno
accaduto a caso, quasi un rigenerarsi
in cellule di Alessia nell’aggettare
del tempo oltre le lamine di gemme
e tutta traspare una vita intera intesa
in sintonia tra Alessia e i flussi
delle piante stellanti,
l’eucalipto, il mirto, il filodendro.


Alessia nel tempo
Attimi rosapesca, la vita attende,
tutto accade in un attimo di vetro
che non si rompe; ascoltami nell’aria
inazzurrata seguono le rondini
incielate. Attimi rosapesca la vita di nuovo
accade e trasale nell’aria e sta
infinitamente una duale preghiera
per noi. Attimi di brezza attimi levigati
nel mentre di una stella. Nel mentre
di un volo duale. Brezza a volare
nella nebbia nelle cose di sempre,
attimi verde acqua disanimati,
ad animarsi in scansioni esatte
oltre il vento. Bella la vita
ad iridarsi nell’acqua delle cose
di sempre che vengono a galla
come relitti o zattere disanimate
dal naufragio. Tutto si salva nell’arco
verticale di un tramonto. Attimi rosapesca
ad attendere la disadorna via serale.
Alessia nel tempo a tutto nuovo appare.

Alessia nella gioia
Alessia rosavestita in quella tinta
d’alba gioca a nascondere il senso
della vita, a poco a poco
ad entrare nelle camere segrete
della casa luogo d’amore perfetto
con Giovanni, quattro mura calcinate
e poster di paesaggi artici
e il letto. A poco a poco trasale
Alessia in quelle benedizioni
di agosto, il caldo nelle fibre
e sudore e buoni sogni da trascrivere
sul diario. Alessia fa l’amore con
grazia con Giovanni e l’esame sarà
superato in una misura di raccolto.

Alessia tra le rose
Serra nella mente di Alessia a coltivare
le rose della guarigione:
attimi vegetali per l’esatta sequenza
dalle foto delle rose ai fiori. Cielo
cobalto a nuotarlo in grazia al culmine
se dalla via serale traspare fuori
campo una voce e sta infinitamente
di grano il campo per l’amore.
Sera di Alessia tra le rose rosse
a detergere ferita e tutto pare uguale
fino all’inalvearsi nell’adolescenza
Alessia bionda di venti anni
contati come semi in una mano.
E’ il 1984 traspare un greto di gioia
e sotto la gioia delle ninfee.

Alessia nella brina
Porta una cesta di fortuna,
il rosso delle mele nella brina
Alessia rosavestita per la vita
a trarre dalla gioia sottesa
all’esistere un dono senza nome,
una conchiglia ad angolo
col mondo, rosa, intrisa
della brina nella serata
fresca dopo l’acquata a trarre
dal tempio il tempo
sera di sonno che dà luglio
in quell’essere in cima al
monte attenuarsi la fragola,
emergere del sogno dalle mani
di Giovanni. E va così tra i lieti
riti di toccare con labbra calde
brina fino al roseto o all’
estenuarsi e levigarsi in un amplesso:
è il 1984 scivola l’aria sui
sentieri di vetro e ci sarà
raccolto.


Alessia guarita
Fiorevole attimo tra prima e dopo,
la porta bianca si apre in un soffio
di brina a poco a poco. Alessia al
risveglio nel lenzuolo o veronica
a detergere l’anima. Tutto passa
nel chiarore di un giorno,
tutto accade una vita nel corpo,
a destarsi nel limbo tra terra e cielo,
deve accadere il tempo. Cellule rigenerate
sonno passato nella scia del sogno,
da trascrivere sul diario con
incerta grafia. Attimi verdeacqua
nel centro delle cose del mondo
Alessia muove di danza sconosciuta
passi sul farsi nella luce a fare le cose
in attesa di Giovanni a giungere con il
dono. Indovinare il dono sotteso
al desiderio di salute correre
scalza sul mare giocando alla California.

Alessia nelle ali del futuro
Sera di platino lunare incanto
di ali di angeli a proteggerla,
Alessia a salvarsi la vita
Nell’asettica cameretta di ragazza:
è silenzio di nuvole grandiose
in forma di delfini e cavalli:
prende Alessia un quaderno
e scrive la poesia di guarigione:
quaranta giorni senza vederlo
né sentirlo
quaranta giorni di collana grigio
perla e ci sarà raccolto tra le
messi: ora avviene l’incanto,
in quel battere alla porta apre
Alessia in vivida mattina
Alessia in forma di stella
bella più del mare a sottenderla
in copertura di bellezza
nella mente
a proteggere l’amplesso
con Giovanni la poesia
d’amore a poco a poco
oltre il velo della nebbia a diradarsi
nelle ali del futuro.

Casa di Alessia
Casa di Alessia da proteggere con le parole
villetta di campagna con giardino,
lì tutto accade e sta infinitamente nella
stellante solitudine Alessia in termini
di gioia tutto gustando agosto nelle fibre
nell’attendere di Giovanni del telefono
lo squillo, estate ai lieti colli dell’anima
nel rivedere l’ultimo amplesso.
In quella guarigione che sembra il
Mare a crearle da dietro il vetro
Accade una vita intera nel nesso con la fabula
Di ieri Alessia-donna e bella
Alessia stella.
Siamo nel 1984 stabilisce il contatto
la disadorna via serale
oltre il bosco l’ignoto

Alessia e la vittoria
Tesse la tela Alessia in tersa tinta
di nuovo agosto nelle cellule dell’anima
ad interanimarsi col sembiante,
cielo aurorale che attende la vicenda
di continuazioni della storia dei baci
di Giovanni in esatta prospettiva
con la vita campita nel volto a
inanellarsi il biondo dei capelli.
Tesse la tela e la tinta pare emergere
in scansione in quel connaturarsi
con del tramonto l’arancio e vince
in una sera la partita con la vita
ai lieti monti in prospettiva dalle cose
del mare: tutto accade in un momento
s’invera il sogno nell’amplesso:
è l’amore fiorevole atteso ad accaduto
oltre la linea del pensiero del giardino




 Associazione Salotto Culturale Rosso Venexiano
-Direttore di Frammenti: Manuela Verbasi
-Autore di Rosso Venexiano: Raffaele Piazza ©gatto
-Disegni:©AleXiS
-Editing: Anna De Vivo [Ande]
-Ricerca dei testi: Marika Gaspari
 
-tutti i diritti riservati agli autori, vietato l'utilizzo e la riproduzione di testi e foto se non autorizzati per iscritto

lunedì 8 ottobre 2012

La valigia del meridionale e altri viaggi di Vincenzo D'Alessio - Fara editore


Li abbiamo visti/ gli ultimi padri con le zappe/ uomini alti più dell’ombra/ disegnavano la sera nei solchi.// Eravamo con loro/ abbiamo camminato scalzi nella terra/ calda, poi tutto è finito/ nel coro spaventoso delle ruspe/ spinte al massimo.// Sono diventati nomi/ la terra un duro sasso/ inutile al nostro passo.
In questo bellissimo frammento è raccolto il senso profondo della vocazione poetica di Vincenzo D’Alessio: la testimonianza, poetica ed etica, della fine di una civiltà, quella contadina del Meridione d’Italia e in particolare dell’Irpinia. Civiltà dove, nella visione del poeta, tutto acquisiva un senso duro e determinato: il lavoro come fatica, il rapporto con la madre terra, il succedersi delle stagioni e delle generazioni, i padri che sono muto esempio per i figli. Ora tutto questo è perduto.  La terra non accoglie più nei suoi solchi i piedi scalzi, ma si è trasformata in un duro sasso, e va, però, ricordata, in un viaggio, che ridia senso al passo dell’uomo, che intraveda un ritorno insieme nello spazio, nei luoghi e nel tempo della memoria.
Quindi nella  raccolta La valigia del meridionale e altri viaggi di Vincenzo D’Alessio, con prefazione di Anna Ruotolo (Fara Editore, 2012), il tema centrale dei versi è il viaggio, come indica il titolo, ma il viaggio in particolare come necessità, oltre che sociale - destino comune di migliaia di emigranti costretti ad abbandonare le proprie terre per lavorare al Nord – anche come necessità esistenziale e poetica. Anche quello del poeta è un viaggio, reale e metaforico, intrapreso, non per diletto, ma per necessità; è un viaggio in cui ci accompagna la valigia di cartone della parola, precaria come quelle di chi è costretto a migrare, che contiene attese, delusioni, speranze, insomma, la sostanza vivente di ogni uomo. Ma in cosa consiste questo viaggio necessario del poeta? Viaggiare è al tempo stesso un allontanarsi dai luoghi natali e un ritornarvi per ricordarli e sperare di ritrovarli come ce li figuriamo nella memoria (Fumavano le colline/ nel sole di mezz’agosto/ l’uomo coi sandali sedette/ all’ombra di due rami.// Solo, nel peso dell’afa,/ guardava dal monte/ il paese del ritorno:) e anche, però, drammaticamente, per scoprirne il cambiamento, la mutazione prospettica, non solo e non tanto dovuta al mutare di chi guarda, ma dovuta  al mutamento della cosa stessa: dei luoghi, delle persone, delle relazioni sociali, causato dall’irrompere del “nuovo” che avanza, accelera e travolge le regole antiche di una terra (Terra rimasta vera/ solo nei pensieri miei). E, quindi, in queste poesie la mutazione si caratterizza sempre come una perdita, una caduta, da una condizione di autenticità a una di deiezione. Il moderno, la tecnica, il profitto, nelle terre dove vigevano regole dure ma sentite come “vere”, porta uno sradicamento totale, un mutare della terra stravolta dal coro delle ruspe o dalle logiche criminal-affaristiche, ma anche una mutazione, secondo la profezia pasoliniana, antropologica, in cui l’uomo non si riconosce più nella dura necessità della terra, nella solidarietà della comunità, nell'aspirare ad un’esistenza che abbia un senso di compiutezza, negli affetti familiari, nell’amore, nel lavoro, nella fede, ma si scopre singolo, atomo, in lotta e competizione costante per il profitto (Mio nonno amava il grande cielo,/ di questi monti i boschi senza fine/ poi è morto senza avere pretese/ e mio zio ha comprato il sogno.). In questo sta la perdita radicale, e il deteriorarsi, sembra definitivo, del rapporto tra uomo e terra;  la natura non è più ciò che dona e ciò che accoglie, ma è ciò da cui trarre, strappare tutto ciò che è possibile senza domandarsi del dopo. E quindi il senso  vero del viaggio sarà  nel ritrovare un’origine perduta per ricostruire - ma questo non tocca alla parola poetica che al massimo, ed è già tanto, può mostrare il senso dell’esistere che si è perduto e nella perdita ciò che andrebbe ritrovato - un futuro diverso, come fa notare Anna Ruotolo, in un passo della sua prefazione: “registrare come necessarie svolte imposte dalla mutazione genetica di una terra che nasconde sotto di sé, nel ventre, la potenzialità e le bellezze perdute”. Per D’Alessio il canto poetico per chi è nato al sud, se deve ancora avere un senso, è quello di ritessere la trama della specificità della cultura e del sentire delle terre di appartenenza, farsi ethos profondo che cerca di riannodare i fili spezzati di un destino comune, senza un impossibile rimpianto, ma non abdicando a tener viva la memoria di un mondo tramontato, sconfitto, forse, ma non per questo meno vero (Canto meridionale dove sei?/ bussi alle porte antiche delle/ case, scendi le scale ripide/ che vanno verso il mare/  svegli i miti/ nel verde dei lecci,/ sopra sassi puri/ reggi le armonie dei cieli.// Quali  distanze puoi coprire mentre/ lontano grida il treno?/ Amaci mentre disegni sull’oceano/ il raggio di luce estrema.).

Francesco Filia

giovedì 4 ottobre 2012

Da “Dei settantaquattro modi di chiamarti”, Anna Ruotolo (Raffaelli editore, 2012 – Pubblicazione Premio ClanDestino)



Primo. Cielo indiviso,
cielo nevicato all’improvviso
Terzo. Mani di bandiere
nell’aria
e nella nebbia
Quattordicesimo. La notte
più lunga passata
con te –
giro di rotte
e di pianeti
***
Ventiduesimo. Quando arriva mattina,
biglia nella mano.
Quand’è notte, biglia persa
nell’oscurità del letto
Quarantaquattresimo. Autostrada di venti
e di bandiere
***
Modi
(una montagna)
Mi manca il fiato. Scalatori. La corda è tesa, corre sui pendii.
Qualcuno sale, invoca l’aria. Si avvicina al fuoco e a Dio. Sono esseri speciali, crediamo. Esseri di nervi e di coraggio, qualunque forza li attragga.
Qualunque bene.
[…]
Una montagna è un uomo. Un uomo è una montagna.
Da lì viene. Dalla sua polvere e dalla sua roccia.
Poi l’uomo si abbassa: è una collina. Si accomoda alla terra,
un poco la tocca poi si ritira. È il passaggio della sua crescita
nei primi giorni, dall’inizio di tutto.
Poi si abbassa ancora: è un altipiano. Sfiora coi piedi
il fuoco e l’accensione della crosta. Si ritira ma se si lascia
per intero nel suo spazio sente che tutto è un battere dal cratere,
dal suono e dal caldo primordiale.
Poi l’uomo si appiana: è una pianura.
Ed è il giorno della discesa. Piano piano si livella alle cose dell’acqua
e alle cose dell’erba. Non sente lo sbalzo, finito è il gradino, il pendere
dal dislivello della nascita.
Quando un uomo nasce nella materia toccabile è una pianura
di stelle e di fiorite. E pesci e mostri marini.
E mari di giorno e mari di notte. Acqua di sopra e di sotto.
È infinita distesa.
Tu sei ancora una pianura. E una pianura come te è la più gagliarda,
perché sferzata dal vento e dal sole seccante.
E una pianura come te è la più bella.
Ma quando nell’uomo è innescato il prodigio e nasce, cresce, la crescita
è infinita, fossile, stratificazione di gigantesca materia.
Dalla pianura di nuovo fino al picco: questo è il piano.
Indietro. Dalla pianura alla vetta che tocca la fine del mondo per stare là
nel momento della grandissima salita, nello spazio tutto,
nel tempo che vive di eternità.
Ma quando l’uomo cresce per il suo ultimo salto è stratificazione d’aria leggera,
acqua che vacilla e gocciola pian piano. Perdita di peso. Trasparenza di pelle.
Fiero dimenticatore di parole, fiero lasciatore di pesi, di gelate invernali,
di conti, di parenti, di amori e affetti piccoli e terrestri.
La seconda montagna è la più perfetta. E la sua perfezione è la trasparenza,
l’invisibilità, il volo.
L’uomo, in principio, è una montagna.
L’uomo nato è una pianura.
L’uomo che ritorna è, ancora, una montagna.
Per salire, tu lo sai, diventi ogni ora più leggera. E questa salita è come la discesa.
Sali che non c’è spasimo e fiato corto. Sali che non ti si può più vedere.
Lasci la tua pianura. Cresci di altipiano in collina.
Di collina in cima.
E, se alzo gli occhi, mi manca il fiato.
***
(disordine)
L’ordine dei giorni.
Il disordine dell’inciampo, della parola che pronunci
[dopo dieci giorni
di silenzio e fiato rosso.
Il disordine dell’ora legale e lunghissima sera,
il disordine della tromba sul tetto,
il disordine del matto.
Il disordine della tua storia lanciata così,
il disordine del tuo corpo di bolla e del tuo cuore forte
che se fosse più forte lo direi felice.
Il disordine delle mani battute nella notte,
il disordine dei fuochi d’artificio,
il disordine dello scampato all’onda disastrosa,
il disordine del regalo nel giorno anonimo,
il disordine del gesto gratuito.
L’ordine delle stagioni.
Il disordine del caldo d’inverno,
il disordine del camino acceso a marzo.
Il disordine di tutto il cibo comprato, il disordine del libro lasciato in fretta.
Il disordine del tuo racconto nelle mani di qualcuno.
Il disordine del vento nel sereno.
Il disordine del venditore di frutta sotto la tua finestra.
Il disordine mondiale del primo dell’anno che dormi e ti perdi quasi,se non fosse che arriviamo in fila, rotta la lentezza della tua stanza,
messi i nostri piedi e le ginocchia sul tuo letto, obbligata a bereuna cosa frizzante, obbligata all’ultima fotografia di certezza.
L’ordine delle cose.

                        Il disordine e il tumulto del tuo sorriso.
***
Sessantasettesimo. Filo tremulo
e tenero soltanto
che cade solitario – un gesto raro –
discende, fa un giro nel giardino mio
un giro nel pollaio, ritorna nella terra.
Gesto santo
Settantatreesimo. Mistero
grandioso
di mattine e oceani
invisibili

Da Poetarum Silva Pubblicato il 28 settembre 2012 da