mercoledì 30 aprile 2008

Meccanica pesante


Editi ed inediti da Meccanica pesate.
In memoriam morti bianche(28-04-2003)


Come il padre ha finito con lo sputare
ghiandole di mercurio sul lenzuolo
ha confuso la fine con l’inizio,
“tu chi sei?” ha chiesto al figlio

rinnegando al tempo il suo svolgimento,
non ha atteso risposta, è morto
gettando gli occhi indietro
cronos-soma,

latrato del polmone guasto
lastra ch’evidenzia l’escrescenza
nell’emisfero destro e in quello sinistro
un tartufo più piccolo,

il figlio
l’ha notato per primo-
“è maligno”, alligna nella corteccia,
sale lungo la schiena

“dove porta, ora, la parola?”
Aspettava una risposta,
ma il linguaggio
aveva già compiuto la sua svolta.


Costume e società.

La rubrica del Tg2, Costume e Società,
ci avverte che anche quest’estate
la zanzara tigre ci morderà
e alla solita ora mia madre piangerà

sul posto lasciato vuoto da mio padre,
sulle sue punture mancate,
sulla pelle morbida e schifiltosa
alle creme e alle pomate;

ripenserà al suo moncherino,
al suo ghigno duro,
alle forze trattenute
per una lotta comune,

chiederà ragione
all’addetto di produzione,
per lo spreco perpetrato
dall’energia di Stato,

ricorderà la lingua
di fiamma e di metano
come l’ultima Idea
che puntava verso l’alto,

allora vedrà la classe
trasformarsi in massa
e la massa assecondare
il sangue che trasloca

nel corpo parassita
di un insetto suicida,
crederà che quello sia
il suo nuovo centro,

il punto di ristoro
e quello di ritrovo
dell’organismo democratico
del corpo societario,

poi smetterà di credere persino al suo credo
e resterà immobile
ad osservare il desco paterno,
il posto lasciato deserto

dai consigli per i consumi,
dai commiati e dai saluti,
dallo spray d’ultima generazione
che non fa più sentire il prurito, il dolore.


Conciliazione nazionale.

Advocatus et non latro, res miranda populo.



“Bisogna conciliare,
non esistono prove
per una connessione di causa
tra la loro vita e loro morte.
Dovremmo ricostruire l’ambiente
la meccanica pesante,
legata alla carne
il dito mancante,
l’ingranaggio che cattura la cravatta,
la strozzatura
l’aria che manca,
dovremmo ricreare l’alta temperatura
l’inferno della tettoia,
la polvere che cola
il polmone saturo,
il carcinoma,
le metastasi lungo la schiena.
Manca un testimone
per organizzare l’accusa
nessuno vi darà ragione,
a voi la decisione,
la diretta generazione,
il ramo familiare
la prova del sangue,
voi potreste parlare,
oppure tacere,
rispondere alla miseria
con l’istinto di sopravvivenza,
rimettere in linea lo stimolo e la risposta
accontentarsi del poco che basta.
Perché dissotterrare tombe,
tentare le ombre,
pensate che all’uscita del Tribunale
c’è un rigattiere
che compra bare usate.
Il mercato non ha limiti,
si alimenta in continuazione,
persino i poeti finiranno
per eccesso di produzione
………………………….
………………………….
………………………….

Memorie di un tarallaro.


Il mio quartiere aveva una sola scuola media. Era molto fatiscente. Io ci andavo volentieri. E' stato a scuola che ho capito il mio mestiere. Facevamo ginnastica e il mio prof. ci assegnava dei compiti. Io però, preso da timidezza, restavo in disparte. Non dicevo una parola. Facevamo ginnastica con i grandi. Loro avevano sempre modi prepotenti. Fattomi coraggio gli ho chiesto: "Prof. e io cosa faccio?" e lui, ammiccando ad un ragazzo grosso e occhialuto, mi dice :"tu fai i buchi nei taralli." Il ragazzo, prendendo la palla al balzo, con risata esagerata inizia a chiamarmi "il tarallaro". Io sul momento non avevo colto. Ma poi ho iniziato a pensarci sopra. Da quel giorno nella scuola media, "santo..... e qualche cosa", tutti hanno iniziato a chimarmi "il tarallaro". Questo nomignolo mi è rimasto addosso. Ci pensavo spesso. "Io faccio i buchi nei taralli" mi ripetevo e cercavo di capirne il senso. Preso da questi pensieri sono cresciuto. I miei ricordi erano degni di estati solitarie. Infatti, contrariamente ai miei coetanei, passavo il ferragosto nel mie quartiere, ad inseguire topi stanchi e scorticati, lungo i marciapiedi e i viali. Di tanto in tanto leggevo i manifesti mortuari. Quelli freschi splendevano iridescenti con la colla che rifletteva i raggi solari. Ogni morto aveva un motto che spiegava il loro mestiere. Io mi ripetevo "..ed io cosa farò da grande, cosa sarò da morto". Proprio riflettendo su questo, un giorno d'agosto, incontro il ragazzo robusto dagli occhiali spessi. Gli sorrido timidamnete. Abbassando lo sguardo. Lui mi guarda e mi fa "Ma non sei ancora morto!?" Lo dice un po' ridendo. Quella sua schiettezza mi sembra giusta e opportuna. In fondo sapeva chi ero. "Il tarallaro, quello che fa i buchi nei taralli". Questo, è scritto, sarà il mio lavoro. Infatti ho iniziato a lavorare per Leopoldo come assistente di laboratorio. Da lì ho imparato. Sono diventato masto. Bravo a togliere il superfluo da ogni impasto.

martedì 29 aprile 2008

Il perdente radicale

Chi è il perdente radicale? Quali le sue caratteristiche? Dove si nasconde? Se da un punto di vista metafisico siamo tutti perdenti, Napoleone come l’ultimo derelitto di Calcutta, perché tutti soggetti al tempo e alla morte, da un punto di vista politico la questione è molto più complessa.
È questo il nodo concettuale che affronta il poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger nel suo breve saggio Il perdente radicale, Einaudi 2007, trad. di Emilio Picco. Il perdente radicale non è lo sconfitto o il fallito che magari spera ancora in un riscatto è, invece, colui che ha introiettato il giudizio negativo degli altri e lo ha fatto proprio ritirandosi dal contesto sociale; è un dormiente, di solito è un maschio, che si macera e si autocommisera nel suo vittimismo e aspetta l’occasione per scaricare in maniera totalmente distruttiva il suo odio represso su qualcuno o qualcosa: la famiglia, il luogo di lavoro, i vicini di casa. E le cronache di questi ultimi anni si riempiono di episodi di violenza estrema e apparentemente immotivata, anche perché, secondo l’autore, la nostra società, a differenza di quelle del passato, promette un progresso sociale che, però, non riesce ad eliminare la precarietà della condizione umana, ma solo a modificarla. Quindi, a suo giudizio, sono aumentate a dismisura le aspettative di uguaglianza a fronte di una limitatissima possibilità di una loro effettiva realizzazione.
Ma quando è un popolo, un gruppo sociale o gli appartenenti a una religione ad essere nelle condizioni psicologiche sopra descritte cosa accade? Secondo Enzensberger si va incontro al fanatismo, come dimostra l’ideologia nazista che nasce dall’umiliazione tedesca nella prima guerra mondiale e che individua il capro espiatorio nell’ebreo, facendo di tutto per annientarlo, per poi autodistruggersi. O, per arrivare ai giorni nostri, all’integralismo degli islamisti, che non ha nessuna proposta politica costruttiva se non quella di morire annientando il presunto nemico, l’Occidente, causa dell’umiliazione dell’Islam e della caduta della sua civiltà da un passato glorioso. A tale minaccia i paesi occidentali non rispondono adeguatamente, anche per i loro interessi economici nel Medioriente, e sembrano non rendersi conto che il virus dell’odio è al loro interno. Enzensberger non offre soluzioni, se non quella di combattere queste tendenze distruttive insite nelle nostre società. Come, però, è tutto da scoprire.

lunedì 28 aprile 2008

Capro espiatorio

In uno dei suoi scritti G. Agamben spiega dove nasce il sintagma "capro espiatorio". Il capro è l'animale sacrificale che si usava nei riti antichi. L'uccisione della bestia (la capra)comportava l'espiazione dei mali di una determinata comunità. La bestia rappresentava tutti i mali e la sua uccisione, significava la sollevazione dei membri di una tribù dalle cose cattive che l'affliggevano. Nelle piccole tribù, dove la responsabilità personale basata sull'identità individuale non esisteva, l'animale fungeva da purificazione collettiva. Il capro espiatorio lo si trova sotto varie forme in diverse fasi della storia dell'umanità e della sua letteratura. Una forma moderna la troviamo nel racconto di Camus "Lo straniero" dove, nel finale, il condannato a morte gioisce tra la folla. Di fronte al patibolo colui che ha commesso il male gratuito riconosce il proprio ruolo e quello di chi gli sta intorno. Quell'uomo è il simbolo della purificazione. Quest'episodio è ambientato ad Algeri. Qui esiste la giustizia degli uomini civili ma lo scrittore ricorre a quella primitiva delle prime tribù. Wittgenstein ci ricorda che i vecchi riti resistono immutati tra le pieghe del notro mondo. Quando i riti tornano in superficie viene messa in gioco la tenuta delle conquiste umane. Quantomeno la pretesa dell'illumiinismo di dare ragione del corpo individuale e dei diritti e dei doveri che ad esso si riferiscono. Cosa regola una società moderna: il rito del sacrificio o il diritto ed il dovere individuale di ognuno di fronte alle proprie colpe?
In una recente trasmissione televisiva (quella di Santoro) un cantante napoletano canta un brano propiziatoria di morte di fronte allo scrittore Saviano, posizionato al centro dello studio. Lo scrittore è distante da tutti gli altri ospiti. Santoro alla fine dell'esibizione dichiara di aver avuto i brividi. Qualche spirito aleggia negli studi di Rai Due. Si parla tutto il tempo di sangue e terra, potremmo dire sangue e suolo, si fa riferimento alla morte.
Non sono riuscito a reperire il video ma credo che l'ultima puntata di "Anno zero" sia da analizzare in ogni suo particolare. Meriterebbe un'analisi logica a parte. Lì si può osservare la messa in atto di un ritorno ai riti primordiali, quelli incivili che spiano con occhi rossi quelli civili della responsabilità personale. Il teatro televisivo ha reso manifesto che il Paese è ridotto a tribù primordiale. L'ostaggio del sangue, il testimone dei delitti, l'uomo sotto scorta, è ora esposto sotto gli occhi di tutti, e tutti aspettano che il rito si compia. L'ha voluto lo scrittore, l'ha voluto il popolo, lo vuole chi ha commesso il male. Non c'è più distinzione. Solo la morte e la purificazione potranno restituire ad ognuno il proprio ruolo. L'indignazione del sangue creerà un confine tra i giusti e gl'ingiusti. Proprio come avviene nel finale di un grande film nel quale ancora una volta è ripreso il rito del capro espiatorio: il capitano Kurtz, abbassa la testa rasata sotto il macete del soldato che si è spinto fino alla fine del fiume per rimettere le cose a posto. La sequenza della decapitazione si alterna con quella della macellazione di una bestia sacrificale. Il film s'intitola, tradotto in italiano, l'apocalisse ora.

mercoledì 23 aprile 2008

Teatro e poesia

La rivista telematica Ulisse, curata da Italo Testa, Alessandro Broggi e Salvi, ha pubblicato il numero 10, il vol.2, dedicato al rapporto tra poesia e teatro. Ci sono tra l'altro testi dedicati alla scena scritti da Ballerini Luigi, Fantato Gabriela, Pugno Laura, Frungillo Vincenzo, Luzi Mario etc.
Ci sono studi sul teatro dei poeti con interventi di Buffoni, Nacci, Montalto (su Sanguineti). Ci sono infine testi poetici di Fiori Umberto, Genti Francesca (anche autrice del testo "Dark room" per i Baustelle), Fantuzzi Matteo (di cui propongo un testo).

da
www.lietocolle.com/ulisse



Da Sala d’attesa

1.

Io che tengo il cuore in mano,
per quattro ore ogni due giorni,
che sono Dio nei turni in sala
operatoria, mentre risalgo
valvole ed arterie, che dono nuova
vita a carne che si spegne.

Io che arrivo a casa e sono niente
schiacciato da mia moglie, i figli,
il cane San Bernardo, dai debiti,
dai vizi, dalla gente che mi guarda
come se potessi risuscitare i morti
veramente, come se contassi.

2.

Io che sento il male,
un male disperato, come dei
chiodi in faccia, come il cranio
fosse preso e torto da una bestia
subdola e spietata. Io che provo
col dolore
rabbia e non so rassegnarmi, poi chino
il capo e aspetto, come non fossi,
come non provassi tutto questo, giorno
dopo giorno, notte dopo notte, sola
mano nella mano con il dramma
che mi abbraccia, mi sta accanto.

3.

Io che porto il lutto da quando
avevo 18 anni, che ho perso
mio marito in Russia e non ho
conosciuto uomo da quel giorno
per rispetto, io che ancora spero
che mi illudo che spunti dalla porta
come niente
con il volto lieve dei vent’anni,
sorridente. E intanto passo le giornate
tra ginecologi inventando quadri
clinici, per poter sentire mani d’uomo
scorrere nel ventre e immaginare
quel non è stato, mai una volta.

4.

Io che vado giorno dopo giorno
negli ipermercati e passo lì la vita
come se comprare fosse in qualche modo
rendere le cose, come una rata
a un tasso da strozzini.
Io che guardo le vetrine e scruto le commesse,
se sono tristi: perché la gente passa
e non le guarda mai negli occhi
se non per chiedere “Ma mi sta bene questa
giacca ?” Certo, è quella giusta.
Come sempre.
Come tutti quanti.

5.

Io che vorrei morire,
morire e basta
spegnermi
come la fiamma si esaurisce
quando ha finito il nutrimento,
non ha più aria.
E invece vedo questa gente
che sta bene e d’improvviso
chiude gli occhi e lascia
tutto
e penso a quanto è ingiusto.
Io che vorrei morire
e non ci riesco.

martedì 22 aprile 2008

La famiglia nucleare è una struttura morta?


Il sé dell’individuo occidentale, la soggettività dell’uomo, si è da sempre formata nel chiuso delle relazioni di senso del nido domestico. Le ricerche sull’istituzione del sé all’interno della struttura familiare nucleare risalgono ad Hegel. Successivamente la critica alla famiglia nucleare è stata sviluppata all’interno della scuola di Francoforte: le ricerche di Marcuse, Horkheimer, Adorno e Fromm su questo aspetto sono state illuminanti e di grande importanze. Alle loro critiche bisogna aggiungere una prospettiva contemporanea: quando il domestico viene scoperto e viene infranto da quelli che sono i mezzi tecnologici della “società trasparente”, per dirla con G. Vattimo, o della “società fluida”, per dirla con Z. Bauman, cosa succede nell’intimo del Sé dell’uomo? Cosa succede quando la struttura di senso archetipica viene svuotata? Oppure, ci si potrebbe chiedere, è vero che questa struttura di senso viene svuotata o cambia semplicemente forma? Seguendo l’indicazione di Benjamin, quando parla di “struttura morta”, si può dire che la struttura familiare non è più produttrice di valore e quindi di potere sociale. Resta, la famiglia, nella forma larvale ed automatica del contenitore vuoto. Che cosa comporta questa ipotesi? La formazione del singolo non è più adattata secondo quelle che sono le aspettative culturali, pedagogiche, dei padri e delle madri; la struttura familiare non trova più in se stessa il proprio senso. Non regge più la gerarchia sociale e valoriale classica che parte dalla famiglia e dal suo ruolo confessionale, nel senso di luogo proprio di codificazione e di canonizzazione dei desideri e dei sentimenti del sé, per strutturare tutto l’assetto della società. O si potrebbe dire che proprio il ruolo confessionale dell’oikos ha permesso l’installarsi immediato delle tecnologie telematiche nella stessa formazione del sé, e con ciò ha portato alla canonizzazione dei rapporti relazionali? La società di massa diventa una società telematica sulla base della fusione "immediata" tra struttura familiare e mezzi informatici. L’essenza comunicativa e comunitaria dei rapporti familiari sono il terreno sul quale fa presa la spinta informatica della tecnologia contemporanea. In questo caso allora non esiste vera opposizione tra le due forme, quella oicologica e quella tecnologica, o questo rapporto è diventato altamente problematico? Il microcosmo della famiglia è assorbito da un macrocosmo che ne sfrutta la forma. La simbiosi è tra i mezzi tecnologici avanzati, che non hanno un ethos (dimora) proprio e la famiglia: nel nuovo assetto societario (nato nei primi anni cinquanta) la tecnologia offre i mezzi e la famiglia la struttura che li accoglie. La struttura morta serve allora come punto di snodo dei mezzi, è il nucleo che tiene i mezzi fermi nei loro ingranaggi. Bisognerebbe parlare di una funzionalità tecnologico-familiare del sistema. Prima della famiglia che forma il singolo in comunità, come essere responsabile di valori conviviali, c’è ora la tecnologia come produttrice di mezzi. La famiglia decade dal suo ruolo archetipico, cioè dall’essere una forma trascendentale che produce valori universali validi per tutti i componenti della società, per diventare una struttura funzionale al lavoro dei mezzi di produzione tecnologica. Ma la simbiosi della struttura e dei mezzi riesce da sola a reggere il sistema? Secondo questo modello sistemico quale è la forma del soggetto, come si forma il sé così preso in questa strettoia? E’ possibile che il sé dell’uomo si riconosca in se stesso così incluso nel modello sopraesposto; o è proprio una possibile crisi di tale modello, l’uomo aldilà della struttura familiare e quindi aldilà della stessa macchina tecnologica, che permette una riflessione nuova sul se stesso e sulla comunità? Le prime ipotesi che si possono accennare riguardo alle domande qui esposte è che il sé dell’uomo calato nella società tecnologica si trova sì oltre i valori comuni che regolano una comunità fondata sulla politica e sulla pedagogia familiare, ma non si trova con ciò nella piena crisi dell’abbandono di quei valori. Ossia il sistema informatico, che è una mutazione semantica profonda del sistema capitalistico occidentale, mantiene il soggetto in una costante situazione di "frustrazione personale". Si tratterebbe qui di ampliare il discorso sull’isteria familiare di Foucault a tutto il tessuto sociale. Per ora di questo processo vediamo la bruta violenza: omicidi domestici sempre più frequenti, da un lato, e violenza gratuita del branco (il gruppo dei pari, gli adolescenti lasciati a se stessi) dall'altro.
La mancanza dei valori condivisi non corrisponde ad un’effettiva maturazione del lutto perché la struttura familiare è in realtà mantenuta nella sua forma come un simulacro, ci si trova così nella vera e più profonda situazione media. La medietà, che è la cifra più propria della società informatica, si regge proprio sulla mancata formazione del Sé, si regge cioè sul misconoscimento del proprio dolore e quindi sulla mancata realizzazione di se stessi. Gli individui sono così presi nella società sistemica ed informatica nella loro incompletezza, nella mancata somatizzazione del dolore. La figura della dialettica hegeliana, che è alla base del soggetto moderno e della società moderna, non si realizza. Questo è stato in realtà già notato, ma in senso positivo, da Bataille quando parla di “dialettica in fase di arresto”. Di fronte a questa figura incompleta e media della contemporaneità allora la soluzione che si può pronosticare è una ricomposizione del Sé aldilà della morta struttura familiare e quindi della macchina informatica. Una situazione di questo genere, un'entrata effettiva in uno stato di eccezione, per dirla con Benjamin, sembra pronosticarlo proprio la scienza con le sue spinte assolutistiche. Nel senso che è proprio il delirio di onnipotenza delle nuove tecnologie sia in campo scientifico, che nel campo della telematica, a poter riaprire la possibilità di una seria riflessione sul sé del singolo. Quest’occasione è data proprio oggi che la scienza tecnologica pensa di poter far almeno della struttura familiare, e scardina la macchina sistemica e simbiotica che reggeva la comunità mediatica. Lo stato d’eccezione effettivo, aperto della spinta assolutistica della scienza, crea le condizioni di un scardinamento del simulacro familiare e di una conseguente liberazione di quel dolore intimo che è il presupposto di ogni serio interrogativo del sé su se stesso.

sabato 19 aprile 2008

La Volante Rossa





Ci sono storie che per quanto lontane nel tempo e a volte volutamente dimenticate suscitano, se riportate all’attenzione dei lettori, curiosità e inquietudine. È il caso della Volante Rossa guidata da Giulio Paggio, il “tenente Alvaro” della 118° Brigata Garibaldi, formazione di ex partigiani e operai formatasi nell’immediato dopoguerra a Milano, per la precisione a Lambrate, periferia est, nella ex Casa del Fascio, diventata Casa del Popolo a via Conte Rosso.
La storia della Volante Rossa, di Alvaro, di Balilla, di Otello, di Lino e degli altri che parteciparono a questa tragica avventura è ricostruita con attenzione e rigore storiografico dall’omonima opera scritta da Fausto Rondinelli e Carlo Guerriero (Datanews, 1996) corredata anche da un’interessante appendice fotografica. Il libro, che con impianto da romanzo giallo fa iniziare la narrazione dalla fine, ossia da i due “omicidi del taxi” avvenuti entrambi il 27 gennaio 1949, ricostruisce, con dovizia di informazioni, ricavate dalla stampa e dalla pubblicistica dell’epoca, non solo la storia della Volante ma anche la macrostoria in cui essa si inserisce. In particolare, il contesto dell’Italia, soprattutto del nord, all’indomani del 25 aprile, le aspettative dei partigiani, le lotte operaie, il complesso rapporto con il Pci e le istituzioni del ricostruendo stato italiano, nonché gli scontri con le rinascenti formazioni fasciste. Nel libro grande spazio è dato al processo che seguì gli ultimi omicidi attribuiti alla Volante, attraverso gli atti processuali vengono, non solo ricostruiti i fatti, ma anche messe in evidenza le forzature compiute dai giudici nei confronti degli imputati pur di giungere a una condanna, di chi aveva commesso gli omicidi, ma anche dell’intera formazione politica.
“Solo gli strateghi da caffè possono pensare che sia stato facile dire ai partigiani, dopo quella guerra atroce, quel cumulo di rovine, quelle torture: adesso tornate a casa e buttate via le armi che avete conquistato rischiando la vita”. In queste parole di Pietro Ingrao è riassunto il senso della vicenda della Volante rossa e con essa di altre formazioni che agirono in quegli anni. Per loro la guerra non era finita o meglio non aveva raggiunto il suo vero scopo: la rivoluzione e la presa del potere da parte degli operai e dei proletari guidati dal Pci; per questo motivo molti di essi non deposero le armi, ma continuarono a compiere azioni di rappresaglia e di vendetta contro ex fascisti o persone che si erano compromesse con la Repubblica Sociale, cercando di organizzare il malcontento nelle fabbriche per il ritorno dei vecchi padroni o per il peggioramento delle condizioni di vita dell’immediato dopoguerra.
Il pregio maggiore del libro è che attraverso un punto di vista ben preciso, partecipe ma critico, analizza l’intera vicenda senza reticenze, cercando, sin dove i documenti storici e l’irreperibilità di molti dei protagonisti (alcuni di essi riparati nei paesi dell’Est) hanno permesso, di ricostruire un pezzo della storia dell’Italia del dopoguerra, volutamente dimenticato per la sua spinosità e irriducibilità alla storia ufficiale del paese. E anche di aver fatto giustizia di giudizi affrettati o dovuti all’opportunità politica del momento che individuavano la formazione di Lambrate come mero esempio negativo, rifiutandone così la complessità, e addirittura come precursore delle Brigate Rosse.
In ultimo, proprio per i loro risvolti controversi, le azioni della Volante rossa non sono solo una vicenda storica, ma hanno in sé anche un sottofondo epico e leggendario, come colgono bene gli autori: “il ricordo della formazione di ex partigiani milanesi era destinato a riaffiorare ogni volta che mobilitazioni antifasciste ed operaie tornavano a far salire la tensione nelle aree industriali del nord: segno evidente che il valore, anche leggendario, che quella lontana esperienza di lotta aveva assunto non era stato affatto intaccato né dalle strumentalizzazioni né dalla rimozione operata nei suoi confronti da parte del Pci”. E’ questo fascino ambiguo che rende tali eventi un piccolo neo nel conformismo storico, un punto d’attrito dove la presunta linearità della storia s’incaglia ed è costretta a tornare sui propri passi per confrontarsi con ciò che, nonostante tutto, non può e non vuole essere dimenticato.

Altra Bibliografia:

Cesare Bermani: rivista Primo Maggio (aprile 1977) saggio La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) .

Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa. Prefazione di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, pp. 160 - 1997.

G. Fasanella e G.Pellegrino, La guerra civile, Rizzoli, 2005.

mercoledì 16 aprile 2008

Cronaca nera

La cronaca lasciata a se stessa non può che diventare cronaca nera. In questo non c'è niente di tragico. Assistiamo, piuttosto, alla depressione del reale. Domina l'indistinto. Ci sono solo fatti che chiamano i fatti. Non è un caso che i libri più venduti in Italia siano stati, in questi mesi, libri scritti da giornalisti (Stella, Saviano). L'editoria si conferma una versione culturale della pubblicità. Al glamour della pubblicità, sovraesposizione del dato reale, risponde la cultura, depressione del dato reale. In mezzo, il lettore: il consumatore di prosa tascabile. Bisognerebbe eliminare i generi, bisognerebbe armarsi contro la letteratura con lunghi silenzi. Niente è necessario, nei periodi di magra, figurarsi la nostra parola.

martedì 15 aprile 2008

Dalla parte dei cattivi: i libri di Jim Thompson




La riscoperta di uno scrittore a distanza di anni è un’operazione che ha i suoi rischi, perché può mostrare la sua lontananza dalla sensibilità attuale dei lettori e dei critici. Questo non è il caso di Jim Thompson (1908-1977), scrittore che ha attraversato almeno un trentennio della letteratura e del cinema americani, non salendo mai alla ribalta, ma lasciando alcune tracce significative, sia come cosceneggiatore di film - basti ricordare Orizzonti di gloria e Rapina a mano armata di Stanley Kubrick - sia come autore di romanzi noir. Alcuni di essi sono ricordati più per i film che ne sono stati tratti, su tutti Getaway di Peckinpah con Steve Mcqueen, The Grifters-Rischiose abitudini di Frears e Colpo di spugna di Tavernier, che per il loro indiscutibile valore. La casa editrice Fanucci da qualche anno sta pubblicando l’intera opera di Thompson (l’ultimo in ordine di tempo è Diavoli di donne), dando la possibilità al lettore anche più giovane di conoscere alcuni capolavori del genere noir, che ci restituiscono un’America attraversata da individui alienati, senza speranza, psicopatici, reietti che consumano la loro vita nell’alcol o sperano di riscattare la loro esistenza in un unico gesto, il più delle volte criminale. La grandezza di Thompson - che dichiarava di avere come libri ispiratori Il Capitale di Karl Marx e L’Edipo Re di Sofocle - è quella di narrare la storia, usando quasi sempre la prima persona, dal punto di vista di questi disperati che non ispirano nessuna pietà, anzi apparentemente respingono il lettore, ma che in fondo gli parlano, gli entrano dentro, perché ognuno di noi, in maniera più o meno consapevole, sa che, se le cose nella vita si fossero messe davvero male, sarebbe potuto o potrebbe ancora diventare come i protagonisti dei libri di Thompson: crudeli perché senza speranza. Quel che più inquieta nei profili dei personaggi è che sono al tempo stesso vittime e carnefici, sono precipitati in un abisso di male e però aspirano a un bene e a una tenerezza che sanno di aver perso per sempre. E’ difficile trovare dei paragoni letterari a Thompson; alcuni, come Goffredo Fofi, hanno fatto i nomi di Céline e di Faulkner. Thompson, a differenza loro però, come altri grandi scrittori, usava, per parlare della condizione umana, del suo lato oscuro, sempre presente, ma quasi sempre rimosso, un genere determinato, dichiaratamente commerciale, pulp addirittura: il noir. Il paragone che a me viene in mente è, invece, extraletterario, musicale, e sono le canzoni di Iggy Pop con The Stooges, in particolare quel viaggio senza ritorno nell’abisso dell’uomo contemporaneo che è Fun house. I feel alright grida beffardo Iggy, oppure gorgheggia disperato in L.A. Blues e sembra riecheggiare quei discorsi sul filo del delirio dei personaggi-narratori dei libri di Jim Thompson, che servono a giustificare gesti e azioni ingiustificabili. In Iggy c’è la consapevolezza che è solo rock ‘n’ roll, in Jim che è solo letteratura usa e getta, da lasciare sui sediolini della metro una volta consumata. Ed è proprio questo il bello, ciò che li rende vivi e attuali.
A parere di chi scrive, per chi abbia voglia di leggere qualcuno di questi piccoli gioielli dell’orrore psichico, l’esempio migliore della condizione umana delineata dalla scrittura di Thompson è L’assassino che è in me, forse il suo capolavoro, che, per dirla con Stephen King, vi farà entrare “nelle tenebre con un vero e proprio maniaco dei lati più nascosti dell’umanità”.

lunedì 14 aprile 2008

Liberiamo l'arte(Manifesto ViceVersa).Cliccate per ingrandire

La scelta del non voto

Aumentano gli astenuti rispetto al 2006. I titoli dei giornali danno risalto alla notizia. Nel silenzio mediatico, surreale dopo l'invasione degl'imbonitori del futuro, risalta questa sola notizia circa le votazini politiche del 2008. Il 62% degli italiani ha votato. E gli altri? Sugli astenuti si sente dire: "La scelta di chi non ha scelto è qualunquismo". Così si commenta di solito: "Bisogna votare perchè c'è gente che ha dato la vita per garantirci questo diritto!" O ancora: "Bisogna votare per non permettere all'Altro di salire....!" In queste tre frasi si riscopre grottescamente l'animo civico, storico e addirittura religioso o metafisico dell'italiano. Ci si riferisce alla scelta decisiva (!!!), a quella repubblicana o risorgimentale: ma la vita dei garanti della repubblica non è stata sacrificata perchè si avesse la possibilità di scegliere? La democrazia è la libertà della scelta e non del voto. Il vero problema delle democrazia sarebbe la traduzione in termini sociali e civili del libero arbitrio. Nella democrazia c'è la traduzione di un principio cristiano preso in considerazione dal nostro Sant'Agostino. Quindi non si può confondere la formazione del sè nello spazio pubblico con questioni reiterate di amministrazione statale. Per questo motivo, in certe circostanze, il non voto può essere più utile. Può ricordare, al di fuori delle retoriche massmediatiche, il principio originario della scelta. Io non voto. Ma "Io" dove sono? "Io" ci sono?
Questa è una questione che riapre il problema della scelta. Invece no! Non bisogna pensarci. Bisogna partecipare! Ma nella partecipazione condizionata al voto, nella mobilitazione continua delle masse (una votazione ogni due anni), si è sicuri di trovare un principio democratico? Stiamo ancora parlando di democrazia? La partecipazione indotta e di massa è democrazia?
Coloro che fino ad una settimana prima dell'inizio della campagna elettorale erano impegnati nell'amministrazione dello spazio domestico o nella proiezione del proprio sè in una qualche vetrina commerciale, riscoprono il fervore politico e religioso (evitare l'Altro!! aiutare l'Altro a salire!! ma dove?!). La memoria breve è la sola che ci resta, quella lunga viene riciclata (questa sì) ogni volta che se ne sente il bisogno.

sabato 12 aprile 2008

Rilettura inattuale



Un libro per essere attuale non deve essere necessariamente scritto da poco tempo. Anzi spesso il passare degli anni aiuta il libro stesso a mostrare sino in fondo la sua bruciante verità. È il caso delle Lettere luterane (Einaudi) di Pier Paolo Pasolini, pubblicato nel 1976, l’anno dopo la morte dell’autore, ma già progettato da Pasolini con questo titolo. Il testo è composto dagli articoli apparsi sul “Corriere della sera” e su “Il Mondo” nel corso del 1975, in cui Pasolini parla di argomenti molto diffusi nella pubblicistica di quegli anni, ma li fa entrare nel corpo vivo della vita quotidiana. L’autore legge nell’Italia che lo circonda un degrado, fisico, ambientale e morale, causato dalla furia consumistica che ha spazzato via il modo di vivere arcaico e patriarcale della società italiana, senza sostituire ad esso una nuova scala di valori, ma solo un edonismo disperato che abbrutisce il singolo e lo isola dalla comunità. Anzi egli vede nel decennio a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ‘70 una mutazione antropologica, che addirittura ha alterato i tratti somatici stessi degli italiani. Nel 1975 per Pasolini “l’Italia (…) è distrutta esattamente come l’Italia del 1945”. Ma chi sono i maggiori responsabili di questo degrado? Pasolini indica la televisione, la scuola, il Sessantotto, che hanno diffuso una violenza piccolo borghese, soprattutto tra i giovani, basandosi su modelli di “insolenza, disumanità, spietatezza” e in più hanno fatto sì che tutto questo fosse considerato normale. In ultimo denuncia la classe politica, che chiama il Potere e il Palazzo, che ha lasciato marcire il paese e ha consentito che prevalessero il sopruso, l’imbroglio, la distruzione del tessuto sociale della nazione e l’ha fatto per mero attaccamento alle poltrone e al denaro, senza che avesse un progetto, ma sfruttando, per il proprio tornaconto, di volta in volta le pressioni e le istanze della società. Per tali motivi Pasolini arriva a proporre un processo per tutti i notabili della Democrazia Cristiana.
Per dirla con Corrado Stajano “a rileggere oggi queste pagine si resta folgorati come da una profezia”. Il punto è che la profezia si è avverata, in peggio, perché il Potere ha metabolizzato anche i processi e sembra impossibile trovare quegli squarci di resistenza che Pasolini trovava, per esempio, in un certo sottoproletariato meridionale, romano e napoletano in particolare, come negli articoli della serie intitolata “Gennariello”, visto che Napoli è diventata il laboratorio più avanzato della deriva criminal-consumistica della società italiana, mentre nel resto d'Italia sono già morti e non lo sanno. Forse una prima cosa da fare è proprio rileggere questo libro, capire quanto nel profondo ci riguardi e ci parli.

Urla dal pozzo

Credo che ci siano due grandi metafore che oggi dicono il Paese: l'immondizia e l'infanzia negata. Credo anche che più della prima sia la seconda la vera metafora dei tempi. L'infante è il nuovo venuto, letteralmente. L'incapacità di curare gl'infanti è la stessa incapacità di rapportrsi ai fenomeni originari. Basta pensare come ogni fatto di cronaca riguardante i bambini (in Italia ne abbiamo visti molti) rientrino subito nella retorica giudiziaria. Anche i genitori chiamati in causa sono subito lì a difendersi con parole d'avvocato. Subito la retorica adottata è quella dell'accussa e della difesa. Come se l'epifenomeno venisse immediatamente rimosso. Si dimentica la vittima, il bambino; la parola originaria scompare sullo sfondo. Non è un caso che per la morte dei bambini non si trovi un colpevole. Ciò non avviene per limiti della giustizia ma per la mancanza di colpa nei confronti del delitto commesso. Al posto del sangue, al posto della colpa, si risentono parole imbalsamate, vecchi topoi che tanto assomigliano ad un blocco della crescita. L'infante è un uomo in potenza. No, però nel senso "che diventerà un uomo, da grande"; nel senso che nella sua formazione si mette in gioco l'uomo in quanto tale. Nel rapporto di cura verso il bambino, questo principio vale sia per l'infante che per l'adulto. L'uomo è sempre in potenza, e il rapporto con il suo bambino è il rapporto con la parola nella sua fase epifanica. La cura del bambino vale come cura della propria matrice esposta, rinnovabile. Il bambino è quindi incognita e potenza originaria. L'uomo non è tale in quanto adulto, è tale in quanto relazione esposta con la sua immagine originaria. Credere, come oggi avviene, che il bambino sia un risultato di vecchi schemi pedagogici o di vecchie retoriche (di difesa e di accusa) significa fraintedere la vera natura dell'uomo. L'uomo non è solo natura, e non lo sarà mai; l'uomo deve applicare di continuo nuove strategie di sopravvivenza. Questo è il senso orginario della "cultura", questa è la sua natura simbolica. Non accuparsi del nuovo che arriva significa dimenticare la propria natura di esseri "arrischianti". La parola non è mero segno, non è mero suono, la parola è sempre uno spazio da cui è possibile ascoltare; nell'ascolto c'è anche il rischio estremo del silenzio e del mutismo.
Li sentiamo i bambini di Gravina, che piangono dal pozzo?

venerdì 11 aprile 2008

Il coraggio

Una delle massime di La Rochefoucauld recita: "Il perfetto coraggio è fare senza testimoni ciò che si sarebbe capaci di fare davanti a tutti." Il coraggio, stando a queste parole, è oggi un valore sotteraneo che scorre nel nostro Paese come petrolio. La volontà d'apparire, d'entrare nel con-senso, rende i più privi di questo bene. Il risultato di ciò è un mondo emerso fatto di gelatina.
W Veltroni e W Berlusconi

mercoledì 9 aprile 2008

Come insomma il vivo abbia luce

E' raro sentire versi che riescano a coniugare altezza filosofica, nitidezza di stile e misura. Qualcuno ha avuto la fortuna di assistere alla lettura di versi di Biagio Cepollaro a Milano e ha ricordato che cosa è la poesia. Basterebbe poco per rigenerare la letteratura nazionale, quel cascame di narrativa per dormienti! Ma con il passar del tempo ci si rende sempre più conto che la poesia non è letteratura, che la poesia non è poesia, che il genere poesia non esiste. I versi sono necessità che chiama necessità, differenza che invoca differenza. Quanto spazio a volte! Quanta luce!

"Maestro, e ora che devo fare di tutto
questo

vuoto?
e il maestro rispose: gettalo via
oppure
fallo.
che il vuoto
non è veramente vuoto finchè lo tieni in mano con le mani
a coppa
allora gettalo
via che non ti serve
a niente che è ancora
qualcosa
e chiesi
come questo s'illumini e che il vivido
dello scorcio in un'ora
della casa
o la confusione al bar per chi paga
si faccia vivido come insomma il vivo
abbia luce
intanto continua anche in pieno giorno a fare
buio"

Biagio Cepollaro, Versi nuovi, oèdipus, Salerno/Milano, 2004
www.cepollaro.it

martedì 8 aprile 2008

Entra il prof.

A proposito dell'iniziativa proposta dal girovago in pullman, sul far alzare i ragazzi quando entra il professore in classe, vorrei segnalare tre scritti:

Nietzsche F., Sull'avvenire delle nostre scuole, (conferenza del 1872!!!), Adelphi, Milano, 2006;

Ilich Ivan, Bisogna descolarizzare la società, (mi spiace ma non ho i riferimenti testuali);

Sergio Soda Star, Come sono diventato un professore della scuola italiana, rivista Linus, Aprile, 2007, pp.54-59.

domenica 6 aprile 2008

Errata corrige

Lapalissiana

La televisione è la scatola nera della cultura occidentale.

intellettuali e televisione

Umberto Eco, l'inventore dell'aut aut tra apocalittici ed integrati, ha detto una cosa giusta nel suo recente apparire in Tv: "non è vero che gl'intellettuali in televisione non ci vanno. Semplicemente quando ci vanno smettono di essere intellettuali." Cosa significa per i fautori dei pensieri deboli comparire in televisione? Esiste una perecezione media della realtà, che è quella televisiva. Questa percezione non ha niente di democratico come solitamente la si vuole intendere. In realtà la percezione media della realtà è l'esatta riproposizione di tutte le utopie totalitarie tradotte nei termini contemporanei. L'ideologia sottesa ai mezzi di comunicazione è che l'uomo possa essere sgravato del suo mondo. Si crede che l'uomo possa smettere di guardare il mondo.
Alla base delle società delle immagini è sottintesa proprio un'utopia della cecità. Dopo Omero, l'uomo ha iniziato a guardare il mondo; si è fatto un'idea del mondo. Le parole dell'animale uomo hanno iniziato a trattenere il mondo nella luce. Lo sforzo che ci rende umani è proprio questa persistenza nella luce. Aldilà di ogni umanesimo o umanismo, lo sforzo è di tutti e di ognuno. Oggi si crede di poter fare almeno di questo sforzo. L'immagine media (cioè immediatamente comune) esaurisce il mondo per tutti noi, indistintamente. Tutto è uguale, è come se fossimo al buio.
La controprova che questa sia un utopia sta nel fatto che noi non riusciamo a dimenticare. E' come quando si chiudono gli occhi per vedere il buoio. E' un paradosso. Noi il buoio "lo vediamo". Appunto. C'è sempre luce!
Fuori dal paradigma storicista, questo significa che noi non riusciamo a non sentire la nostra parte fallibile. La frustrazione che oggi proviamo di fronte all'accumularsi delle immagini (trasparenti) è dovuto dal premere della natura fallibile di ognuno di noi. La nostra parte mortale si fa sentire. Il bello delle parole "profonde", "quelle degli intellettuali", sta nel loro portare a fondo; sta nel loro ricordare la parte mortale di ognuno di noi. Nelle parole dei poeti (quelli seri!), dei filosofi (quelli seri!), l'uomo torna a guardare la luce.

Lapalissiana

La televisione è la scatola nera della culura occidentale.

venerdì 4 aprile 2008

assolutamente sì!!!!

Diceva Giuseppe Pontiggia "la verità è sempre lontano dagl'assoluti". Riprova che il nostro tempo è il più lontano dalla sola ricerca di cosa possa significare la verità (vi sembra che qualcuno nomini più questa parola in qualsiasi ambito, compreso quello religioso?), bisogna notare con quanta frequenza uomini e donna di tutti livelli culturali usano l'orrenda prerifrasi "assolutamente sì!"
Credo di avere contato il record per bocca di bibì, vecchio comico napoletano, durante un programma sui Rai 1. Era come in tilt. Diceva sempre assolutamente sì, assolutamente sì, assolutamente sì, assolutamente sì......come se dovesse farsi credere a da tutti e da tutto, come se il suo stesso vestito dovesse fargli credito.
L' "assolutamente sì " lo usa per lo più chi sa di mentire. Deve rimarcare il sì.
Ma "sì" e "no", la perentorietà dell'affermazione o della negazione sono belli proprio per la loro nettezza. Non hanno bisogno di altro.
Un altro uso linguistico che la dice lunga sulla natua dei nostri tempi è quella che recita: "questa è a verità vera." Forse ancora più bella della prima espressione, anche se meno diffusa. Ma perchè esiste anche la verità falsa?
Anche quest'epressione serve per convincere gli altri, su fondamenti inesistenti. Siamo all'ipertrofia del linguaggio e di noi stessi. Ci postiamo in continuazione, come gli autori dei blog. Ecco perchè queste sono riflessioni non firmate che finiscono nell'occhio del pavone.
La cosa più difficile da fare oggi è dire sì.