Un atto d’amore. Questo ho
pensato leggendo il bel libro del Prof. Gennaro
Lubrano Di Diego, Almanacco di un professore – Delizie e
nequizie della scuola (Guida Edizioni, 2009),corredato da un’interessante prefazione di Paolo Mazzocchini. Un
atto d’amore verso l’insegnamento, verso gli alunni, verso la filosofia,
disciplina insegnata dall’autore. Un atto d’amore dunque, ma un amore a volte
amaro, venato da una malinconia profonda verso il disgregarsi dell’istituzione
scolastica e del ruolo centrale dell’insegnante. Le riflessioni che punteggiano
le pagine di diario, dell’almanacco appunto, di un anno scolastico, non sono
mai banali e tantomeno consolatorie o auto assolutorie per la categoria dei
docenti. Nelle annotazioni di Lubrano Di Diego c’è il coinvolgimento di chi è in medias res, ma anche la lucidità di
chi non perde mai il senso del lavoro e della vocazione che porta un uomo a
decidere di educare adolescenti, ossia persone gettate in quella fase della
vita dove prevale la negazione, la negazione dell’autorità e il suo
inconsapevole assumerla a modello polemico, negazione dovuta al non essere più
bambini, con il caldo rassicurante della famiglia, e il non essere ancora
adulti, con le sue forme ormai definite. Estremamente significativa a tal
proposito la pagina dell’almanacco in cui il Prof. sottolinea come da una
lezione sulla Fenomenologia dello spirito,
proprio attraverso la negazione e il riconoscimento delle autocoscienze si
possa entrare in relazione con il vissuto e la percezione di sé che gli
adolescenti hanno: “mi sembra, se riesco ancora a leggere la grammatica delle
espressioni dei miei studenti, che essi vadano via contenti di aver capito
qualcosa e non tanto di Hegel ma, attraverso Hegel, dell’uomo e di se stessi”.
È su quest’attrito esistenziale, che i ragazzi esprimono, che il docente
interviene e lo deve fare con la massima preparazione possibile e soprattutto
con la massima sincerità e onestà intellettuale; quella che manca a molti che
si occupano di scuola o di coloro che parlano di scuola e addirittura pretendono
di riformarla senza coglierne il senso esistenziale e civile profondo, ma la
concepiscono come un apparato amministrativo e burocratico qualsiasi, da
aggravare con formule e procedure che
l’autore sintetizza bene nell’espressione “didatticume”, a cui fa da
contraltare speculare il tentativo di trasformare la scuola con modelli
aziendalisti del tutto fuori contesto, per rispondere, con un rimedio peggiore
del male, alla palese inadeguatezza della scuola pubblica rispetto ai compiti
che le sono assegnati dalla Costituzione. Altro punto critico che l’autore ha
sempre ben presente è il guasto procurato, a suo dire, dalla cosiddetta ideologia
sessantottina (da cui Lubrano Di Diego pur riconosce di provenire) e dal mal
inteso senso della democrazia (assemblearisitca) ad esso legata, che di fatto
ha causato una confusione di ruoli, in cui il discente non vede nel docente un
polo dialettico, ma una punto inconsistente svuotato di qualsiasi
autorevolezza, di cui si può in fondo fare a meno, perché le priorità della
vita sono altre. Naturalmente tutto ciò non può non essere anche legato allo sfaldarsi
del ruolo genitoriale e al proliferare di agenzie informative e mass mediatiche
che di fatto sostituiscono la scuola come agenzia formativa. A tal proposito
sono particolarmente significative le osservazioni che l’autore fa circa le
tesi del Professor Giorgio Israel e quelle di Don Giussani, discutibili, ma che
hanno il pregio di fornire un' “ipotesi di senso” su quello che dovrebbe essere
la scuola; “ipotesi di senso” che è poi quella che gli insegnanti dovrebbero
offrire agli allievi nella loro formazione.E questa “ipotesi di senso” ha
come caposaldo che lo studio è un mestiere che ha le sue regole, le sue durezze
e la sua disciplina e che ciò non può essere evitato se si vuole che gli
allievi divengano ciò che ancora non sono: formati, liberi e maturi. In una
parola: cittadini. Queste riflessioni sono inserite nella narrazione, ma meglio
sarebbe dire intrecciate, accanto ad
episodi di vita scolastica - in questo la città di Napoli, in cui l’autore vive
e insegna, con i suoi drammi e la sua “commedia umana”, funge da acceleratore
narrativo - a volte leggeri, a volte drammatici, dove l’autore mostra al lettore, con una scrittura
colta ma al tempo stesso estremamente coinvolgente, la “meraviglia”
dell’insegnare le sue delizie e nequizie, come recita il sottotitolo. E
forse l’amore è la chiave per interpretare il bel libro di Lubrano Di Diego,
ossia, per riprendere il concetto platonico di Eros, il filo rosso delle
annotazioni del libro è che si impara principalmente per via erotica e non per
via intellettuale e questa verità elementare e sconvolgente non può essere
rimossa o sostituita da nessun ideale dell’insegnamento neopositivistico o
tecnocratico. Insomma traducendo in chiave laica, secondo l’ipotesi formulata
da Umberto Galimberti, il monito paolino “Non
intratur in veritatem nisi per charitatem”, nessuno può entrare nella
verità se non attraverso l’amore, se non attraverso quella seduzione per il
sapere, che passa attraverso la persona del docente stesso, che ogni insegnante
deve offrire ai propri allievi.
Francesco Filia
Francesco Filia