venerdì 30 dicembre 2011

Almanacco di un professore



Un atto d’amore. Questo ho pensato leggendo il bel libro del Prof. Gennaro Lubrano Di Diego, Almanacco di un professore – Delizie e nequizie della scuola (Guida Edizioni, 2009),corredato da un’interessante prefazione di Paolo Mazzocchini. Un atto d’amore verso l’insegnamento, verso gli alunni, verso la filosofia, disciplina insegnata dall’autore. Un atto d’amore dunque, ma un amore a volte amaro, venato da una malinconia profonda verso il disgregarsi dell’istituzione scolastica e del ruolo centrale dell’insegnante. Le riflessioni che punteggiano le pagine di diario, dell’almanacco appunto, di un anno scolastico, non sono mai banali e tantomeno consolatorie o auto assolutorie per la categoria dei docenti. Nelle annotazioni di Lubrano Di Diego c’è il coinvolgimento di chi è in medias res, ma anche la lucidità di chi non perde mai il senso del lavoro e della vocazione che porta un uomo a decidere di educare adolescenti, ossia persone gettate in quella fase della vita dove prevale la negazione, la negazione dell’autorità e il suo inconsapevole assumerla a modello polemico, negazione dovuta al non essere più bambini, con il caldo rassicurante della famiglia, e il non essere ancora adulti, con le sue forme ormai definite. Estremamente significativa a tal proposito la pagina dell’almanacco in cui il Prof. sottolinea come da una lezione sulla Fenomenologia dello spirito, proprio attraverso la negazione e il riconoscimento delle autocoscienze si possa entrare in relazione con il vissuto e la percezione di sé che gli adolescenti hanno: “mi sembra, se riesco ancora a leggere la grammatica delle espressioni dei miei studenti, che essi vadano via contenti di aver capito qualcosa e non tanto di Hegel ma, attraverso Hegel, dell’uomo e di se stessi”. È su quest’attrito esistenziale, che i ragazzi esprimono, che il docente interviene e lo deve fare con la massima preparazione possibile e soprattutto con la massima sincerità e onestà intellettuale; quella che manca a molti che si occupano di scuola o di coloro che parlano di scuola e addirittura pretendono di riformarla senza coglierne il senso esistenziale e civile profondo, ma la concepiscono come un apparato amministrativo e burocratico qualsiasi, da aggravare con formule  e procedure che l’autore sintetizza bene nell’espressione “didatticume”, a cui fa da contraltare speculare il tentativo di trasformare la scuola con modelli aziendalisti del tutto fuori contesto, per rispondere, con un rimedio peggiore del male, alla palese inadeguatezza della scuola pubblica rispetto ai compiti che le sono assegnati dalla Costituzione. Altro punto critico che l’autore ha sempre ben presente è il guasto procurato, a suo dire, dalla cosiddetta ideologia sessantottina (da cui Lubrano Di Diego pur riconosce di provenire) e dal mal inteso senso della democrazia (assemblearisitca) ad esso legata, che di fatto ha causato una confusione di ruoli, in cui il discente non vede nel docente un polo dialettico, ma una punto inconsistente svuotato di qualsiasi autorevolezza, di cui si può in fondo fare a meno, perché le priorità della vita sono altre. Naturalmente tutto ciò non può non essere anche legato allo sfaldarsi del ruolo genitoriale e al proliferare di agenzie informative e mass mediatiche che di fatto sostituiscono la scuola come agenzia formativa. A tal proposito sono particolarmente significative le osservazioni che l’autore fa circa le tesi del Professor Giorgio Israel e quelle di Don Giussani, discutibili, ma che hanno il pregio di fornire un' “ipotesi di senso” su quello che dovrebbe essere la scuola; “ipotesi di senso” che è poi quella che gli insegnanti dovrebbero offrire agli allievi nella loro formazione.E questa “ipotesi di senso” ha come caposaldo che lo studio è un mestiere che ha le sue regole, le sue durezze e la sua disciplina e che ciò non può essere evitato se si vuole che gli allievi divengano ciò che ancora non sono: formati, liberi e maturi. In una parola: cittadini. Queste riflessioni sono inserite nella narrazione, ma meglio sarebbe dire intrecciate,  accanto ad episodi di vita scolastica - in questo la città di Napoli, in cui l’autore vive e insegna, con i suoi drammi e la sua “commedia umana”, funge da acceleratore narrativo - a volte leggeri, a volte drammatici, dove l’autore mostra al lettore, con una scrittura colta ma al tempo stesso estremamente coinvolgente, la “meraviglia” dell’insegnare le sue delizie e nequizie, come recita il sottotitolo. E forse l’amore è la chiave per interpretare il bel libro di Lubrano Di Diego, ossia, per riprendere il concetto platonico di Eros, il filo rosso delle annotazioni del libro è che si impara principalmente per via erotica e non per via intellettuale e questa verità elementare e sconvolgente non può essere rimossa o sostituita da nessun ideale dell’insegnamento neopositivistico o tecnocratico. Insomma traducendo in chiave laica, secondo l’ipotesi formulata da Umberto Galimberti, il monito paolino “Non intratur in veritatem nisi per charitatem”, nessuno può entrare nella verità se non attraverso l’amore, se non attraverso quella seduzione per il sapere, che passa attraverso la persona del docente stesso, che ogni insegnante deve offrire ai propri allievi.

                                                                                                                                  Francesco Filia

giovedì 22 dicembre 2011

Poesia e Teoria



Il greco "theorίa"  significa "riflessione"  ma anche "solenne ambasciata", "spettacolo". E forse non ci può essere grande poeta che non abbia intuizioni teoriche su altri grandi poeti, che non li rappresenti sul palcoscenico di una potenza concettuale. D’altronde è patetica la mitologia del poeta che – privo di questa potenza – sa tuttavia "raccontare" o "sognare", come se il sogno fosse il paese dove si annebbia la spina intelligente. Accade che devi versi svenino il proprio pensiero fino al punto di non riconoscerlo. Ma questo serrante pensiero deve esserci stato: proprio allora i versi entreranno nella ragione che esso non conosce! Se quei versi dubiteranno, se avranno il cruccio di non aver pensato abbastanza… quanta ignobile poesie di idee è nata da questo cruccio.. quanti inginocchiamenti ai filosofi… o quanti accantucciamenti nella poesia d’impressioni. Nessuna sottomissione della teoria alla poesia, se sono sorelle greche. E nessun confronto, perché queste due estranee si devono essere amate.

Da “Poesia e destino”, Milo De Angelis, Cappelli editore, 1982.

lunedì 19 dicembre 2011

La scrittura


L’unico modo per restare fedeli a sé stessi, all’altro, allo sconosciuto che ci abita, è scrivere solo sotto l’impeto glaciale della necessità. Quando non c’è, non bisogna mettere penna su carta, pena l’insipienza.
Se non si ha chiaro quest’elemento essenziale, anche tutto il resto, tutto quello che si può dire sulla scrittura e in particolare sulla scrittura poetica, rischia di essere distorto.
Cosa si deve intendere con necessità? Ciò che non può essere diverso da ciò che è, secondo la definizione classica. Ma per chi scrive cosa significa? Significa far emergere il nucleo originario, mitico dell’esistenza che ci abita. È evidente che in quest’ottica non tutto ciò che scriviamo è necessario.
La necessità nell’uomo ha, però, un carattere paradossale, perché essa si dà come possibilità, cioè come qualcosa che potrebbe anche non essere, la vita stessa dell’uomo in quanto possibilità potrebbe non essere, il senso potrebbe essere definitivamente nascosto. Qui il poeta, come uomo che cerca l’origine,  gioca la sua scommessa disperata: dire il necessario che, però, potrebbe anche non essere. In fondo nessuno che scrive è convinto in maniera certa e indubitabile di essere un poeta, perché altrimenti non scriverebbe più, c’è sempre la possibilità dell’inganno, senza un qualcosa, un ente un logos che ci rassicuri definitivamente. Siamo sempre sotto la spada di Damocle della nostra possibile idiozia, delle nostre parole al vento. E’ questa la condizione di chi scrive.

giovedì 15 dicembre 2011

Vincenzo Frungillo da Nazione Indiana per XI Quaderno di poesia contemporanea


La fine di Lucrezio

“Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo”.

Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.

La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere;
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione;
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.

Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen!
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.

Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera
in una fusione che non s’avvera.

Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.

Adesso sento crescere la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega mortale del clinamen.

Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.

Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende…
(il gallo nasce non dall’uovo
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.

Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto.
Resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.


Una
è la regola,
ma varia la misura,
tornano i corpi verso la fonte,
poi se ne allontanano per repulsione,
così gli astri, così la luce, così il sole
ripetono la rivoluzione, la regola prima della generazione
e anche se alla fine il vulcano mi darà ragione,
tutto intorno sarà solo cenere e distruzione,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna d’Iperione.
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda, Memmio,
il sole.


Vincenzo Frungillo nasce nel 1973 a Napoli. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo libro di versi Fanciulli sulla via maestra (Palomar, Bari). Nel 2007 è stato finalista del Premio Delfini con Ogni cinque bracciate. Un estratto. Nel 2009 pubblica Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, (Le Lettere, collana Fuori Formato, con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis). Un piccolo estratto del libro è stato tradotto in Germania, una parte più ampia è in corso di traduzione negli Stati Uniti. Nel 2011 è tra gli autori di La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone). Parte del primo capitolo del romanzo inedito Il genio degli avanzi verrà pubblicato in dicembre per La Libellula. Rivista di italianistica. E’ redattore di Puntocritico e Absoluteville.

martedì 13 dicembre 2011

venerdì 9 dicembre 2011

Marco Simonelli da Nazione Indiana per XI Quaderno di Poesia Contemporanea













NUOVI INQUADERNATI 6.
MARCO SIMONELLI

Pretty Picture

Si sciolsero i Soft Cell nel millenovecentottantaquattro
e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero
come è vero che il synth-pop negli anni ‘80 contendeva
le vette d’ hit-parade ad internazionali megalomani melodici
ed è vero come è vera la tequila, il lemon soda, il tuo bicchiere
uno schermo di ghiaccio, di bottiglia da cui mi vedi a tratti
come dietro al vetro zigrinato di una doccia con qualcuno –
ed è vero come è vero che accendo una sigaretta dietro l’altra
solamente quando percepisco nell’ambiente un’insolita tensione.

Ed è vero come è vero che Marc Almond si chiede con Sex Dwarf
se non sia carino veramente, con zuccherini e poi con spezie varie
attirare un bambolotto, un tipo truzzo, un tizio danzereccio
in una vita scandalosamente piena di vizio abbacinato
come è vero che nell’ottantaquattro avevo solamente cinque anni
e davvero pensavo che da grande in una discoteca succedessero
le cose che un bambino non dovrebbe certamente mai vedere
ma ero un tipo attento e interessato, divoravo conoscenze
e inoltre ballare mi piaceva, soprattutto poi davanti ai grandi.

E questa non è altro che una prova schiacciante e non so bene
se per l’accusa oppure la difesa ma rimane comunque un fatto vero,
una foto sfocata che ti ritorna in mente come alla radio un ritornello –
e se adesso so con sicurezza ciò che si dice in giro degli uomini bassini
è solo perché anch’io sbiadendo m’ingiallisco e poi passo di moda
come Marc Almond che adesso canta le canzoni di Jacques Brel
e tuttavia rimane un fascinoso cinquantenne, e la tequila è lì
che mi separa da te, da qualcun altro, in una discoteca di vaniglia
dove conta solamente la presenza, qualunque cosa accada.

Leptocephalus brevirostris

Quando, venendo dal capoluogo sfrecci lungo la Firenze-Mare
lo vedi chiaramente azzurro nella valle dal cavalcavia;
dopo la galleria ti salta addosso al parabrezza
e per un attimo ci credi, che sia davvero il mare.
Sul lago, Puccini passò la sua vecchiaia.

Accadde quando ancora l’epoca rampante riscopriva
i piatti regionali con la degustazione d’un gourmet,
cibo povero di quando la famiglia non poteva
permettersi la carne ad ogni pasto.
Dice l’Artusi che i cuccioli d’anguilla
sono foglie d’oleandro trasparenti come il vetro:
la borsa spermatica del maschio è simile all’ovario della femmina
e migrano nei laghi per una metamorfosi.
Aspirano l’h anche quaggiù, le chiamano le ciehe.

Da giorni ne parlavano, gli adulti,
scambiandosi al telefono un codice segreto;
ce l’avrebbe fatta, dunque, il pesciaiolo – quel pirata -
a procurare l’illegale bottino d’ambizione
e poco male se quel fiero pasto costava allora
poco meno d’un milione: le anguille appena nate
sono prelibate.

Mio padre sul cancello coi contanti
aspettava il pusher pesciaiolo
con l’ansia d’un drogato in astinenza.
In un sacchetto d’acqua, brulicanti,
molli e trasparenti s’agitavano a migliaia – girini ancora vivi -
guidate da un interno istinto inutile oramai,
proprio come spermatiche creature che già sanno
dove andare per trasformarsi in altro.

Sul setaccio schizzarono frenetiche,
inquieti murenoidi all’oscuro della situazione.
Mia madre versò una goccia d’acqua
sull’enorme padella prestata da un’amica:
sfrigolando evaporò dopo un momento.

Sui crostini fatte pappa, nella pasta lunga come condimento
insieme a poca scorza dell’arancia e poi limone:
durante la cottura quell’agonia dell’olio caldo le tramuta,
sbiancandole le allunga e a colpo d’occhio non sapresti
distinguere le larve da un piatto di bavette.
Tranne forse per quegli occhi, minuscoli puntini
ad un’ estremità dello spaghetto, neri come
se la luce in un istante fosse implosa.

Non era pepe ma uno sguardo
che non implora più.

Spiaggia libera

Viale dei Tigli, la variante Aurelia srotola la strada: siamo nello sciame,
magliette, ciabatte, stampate fantasie multicolori, un fluorescente
succhiare di Calippo per la strada; domenica, c’è il sole, tutti quanti
quantificano all’aria la pelle nuda ancora da ustionare.

Passeremo svoltando la pineta, sicuri di trovarti ancora lì.
Il tuo tipo è uno che respira: una faccia da schiaffi, tatuato,
efebico oppure ipertricotico, lo strepitoso fascino
dell’ultracinquantenne in piena forma. E dopo le dune l’orizzonte.

Sei fissa in una fascia Gucci bianca intera, sei Liz Taylor,
la Circe più abbronzata e bionda tinta della costa.
Anna, minaccia ancora la nostra ingenuità. Hai quarant’anni.
Distesa sul tuo telo rosa fuxia circòndati di giovani,

più giovane tu di quella giovane che vinse l’anno scorso
lo sponsorizzato concorso di Miss Trans.
Stenderemo intorno al tuo gli asciugamani, riprenderai la storia
di un autunno che chirurgicamente tu non senti:

ricevi a casa adesso, eppure nei dintorni ci passi volentieri,
saluti le tue amiche, ci racconti di un’età lontana quando eri
a Livorno ragazzino e non ancora Towanda la Guerriera.
E poi siliconati impianti e mai avvenute evirazioni.

Quando dalla base americana sfrecciavano le reclute
i rangers, per te tutti marines: tutta salute all’epoca del dollaro!
Limpidi guanti: l’Aurelia a Migliarino, Marina di Vecchiano.
Avevi una roulotte. Passavi avanti a tutte per un salario serio.

Adesso puoi permetterti di scegliere: estrogeni, lunga transizione –
l’hai letto sul tuo corpo che l’uomo da solo si spaventa.
I tuoi contanti dentro al portafoglio proteggono il domani
dall’incerto precariato. L’hai sudato, questo apprendistato.

Gli uomini sono come dei gattini, non devi accarezzarli contropelo
si rischia il graffio, un taglio involontario e curati di te
e solo dopo curati di loro: passa i polpastrelli dietro al collo,
le loro fusa spasmi, un lamentarsi al caldo del sudore.

A mezzogiorno pranzi col ghiacciolo, dagli ambulanti compri
braccialetti di filo colorato, ad ogni nodo un desiderio:
gli amici, dimagrire, i conoscenti: pochi ma leali.
Verrai da noi a cena. Arriverai col sugo per la pasta.

All’una un’altra lucky strike, assisti alla sfilata:
abbronzàti si scrutano bagnandosi i piedi alla battigia,
l’incendio dei costumi. Sono mimmi
nei giorni di vacanza, non sai se in salvo o in saldo.

Da quando l’hai rivisto non fai che ripensarci.
Ricordi come pianse quando seppe; il suo corpo tremava,
scoraggiato ti disse che eri bella come una regina.
Si guardava peloso il ventre piatto. Gli estrogeni erano impossibili.

La resina s’appiccica sui corpi, è stato come un pianto.
Li vedi ritornare, riconsideri il sorriso, il pomeriggio
scroscia in chiacchiericcio, sei raggiante, la tua socialità
dimentica imprevisti e probabili armatori vedovi da poco.

L’amore equo e solidale lo impareremo dopo.
Diana cacciatrice: sei come Salomè con il battista,
l’esperienza ti ha insegnato a fischiare agli stalloni
come fossi un camionista.

Adesso ti slanci, una corsa di cerbiatto e spruzzi il mare
le onde che affronti in pieno petto ti spostano il costume,
mostri il seno e per pudore abbassiamo tutti gli occhi,
e tu ci guardi come quelli che restano all’asciutto.

MARCO SIMONELLI è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Lavora come traduttore. Ha pubblicato Memorie di un casamento ferroviere del ‘66 (Florence Art, 1998), Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste (Lietocolle, 2004), Palinsesti (Zona, 2007) e Will – 24 sonetti (d’If, 2009). Per Black Sun Productions ha scritto i testi di Hotel Oriente (anarcocks.com, 2011)

giovedì 24 novembre 2011

Il privato, l’adolescenza infinita e il monetarismo







eri bella come il pareggio di bilancio e la scuola di chicago
come il lining dello slam eri un quilt stretto e scioccavi l’outer
dicevi pazzesco e chiedevi conferma delle marche
eri monetarista e antinflazionista
per nulla persuasa dal pensiero sociale e dalla spesa

io mangiavo wurstel crudi su una fetta di pane raffermo come una bestia
ma dentro di me c’era lo smooth verde e la sommatoria dei natali

tu sapevi governare il conflitto sociale e anticipavi il prezzo di mercato
il prezzo è sempre giusto dicevi, cioè non è mai sbagliato

e io chiedevo l’aiuto dello stato



Sergio Soda Star

lunedì 14 novembre 2011

Il vortice dell'essere. Recensione a "La fisica delle cose"




Dieci riletture da Lucrezio, questo è il sottotitolo dell’antologia La fisica delle cose, a cura di Gianfranco Alfano, Giulio Perrone editore, 2011. Le riletture sono state affidate a dieci poeti contemporanei, tutti nati tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta: Andrea Inglese, Letizia Leone, Laura Pugno, Giulio Marzaioli, Vincenzo Frungillo, Andrea Raos, Vito M. Bonito, Sara Davidovics, Giovanna Marmo ed Elisa Biagini.
Perché Lucrezio? Come spiega il curatore nella bella e interessantissima nota introduttiva, “per realizzare questo piccolo libro di omaggio a colui che, come ha scritto Milo De Angelis, ha fissato il suo sguardo sul vortice perenne.” Lucrezio è colui il quale, sulla scorta della filosofia greca, ha posto la poesia in dialogo essenziale con il pensiero, ossia con quell’interrogarsi originario sul principio di tutte le cose e sul rapporto che questo principio ha con la vita dei mortali. Forse il fascino del poema lucreziano è dato dalla potenza con cui i versi si mettono in rapporto con l’inquietudine originaria che conduce l’uomo, con le angosce che accompagnano il suo stare al mondo e che solo il pensiero e, in questo caso, il pensiero poetante può curare o lenire. L’inattualità, nel senso nietzschiano, di Lucrezio, ossia di porre domande che sono al fondo dei nostri interrogativi, ma che il corso ordinario dell’esistenza copre, ci parla, parla a poeti del ventunesimo secolo, che in maniera diversa approdano al De rerum natura e ne traggono frammenti di luce da declinare, oltre che secondo le personali poetiche, anche secondo le inquietudini della nostra epoca. L’ipotesi che azzardo su quest’aspetto è che da un lato Lucrezio permette un accesso al numinoso, ovvero alla percezione del divino come qualcosa di incomprensibile, estraneo, radicalmente diverso e superiore, non definibile razionalmente, e, dall’altro, sottolineando il vortice perenne della natura, affonda in una ferita aperta della nostra contemporaneità, ossia come pensare il divenire, il procedere incessante delle cose, la loro “liquidità” per riprendere la suggestione del curatore nella sua prefazione, la distruzione che sempre incombe su di noi. Tale dilemma si è fatto ancor più pressante da quando gli atomi da ipotesi mentale sono diventati ciò che può causare con la loro divisibilità la devastazione più immane, culmine estremo di quella manipolazione tecnica di tutta la realtà, che rende tutto trasformabile e quindi essenzialmente transitorio, istantaneo come i bits informatici. Per quest’ultimo aspetto si vedano, in particolare, i testi di Inglese, ma non solo, che analizzano il movimento della merce, anche umana, e le informazioni ad essa legate come l’elemento atomico della società contemporanea, che ha la sua essenza nel trasformarsi e nel muoversi incessantemente. Per quel che riguarda la prima ipotesi potremmo aggiungere che, se il rapporto con il numinoso apre la dimensione del sacro, per dirla con Rudolf Otto, ripensare poeticamente Lucrezio, poeta che cerca sulla scorta di Epicuro di liberare gli uomini dalla paura degli dèi e di aprire una dimensione del sacro come immanenza radicale, dà la possibilità di accedere a quest’esperienza originaria da un’epoca, la nostra, in cui gli dèi della tradizione sono fuggiti e i nuovi hanno già da tempo tradito le attese mostrandosi con il loro volto luciferino e di declinare tale esperienza del divino e del numinoso, non in senso religioso o mistico ma in senso poetico filosofico ossia di autentica ricerca (sképsis) razionale sull’origine delle cose, senza scorciatoie misticheggianti, ma neanche senza la rinuncia allo stupore ancestrale che appartiene all’uomo e che la civiltà della tecnica sembra aver rimosso. Questo, al fondo, è il polo magnetico che, in maniera diversamente consapevole, attrae tutti gli autori del libro, ad esempio permette di ripensare l’evidenza dei fenomeni e sperimentare l’enigma del percepire nei testi di Giovanna Marmo (Quando la mano/ schiaccia l’occhio// da sotto// tutte le cose/ mi guardano.// Da sotto.); il fuoco in rapporto al vuoto in Laura Pugno (il movimento del calore ora più denso/ ora il vuoto mescolato al fuoco/ o tutto si condensa e non è luce); il rapporto tra il caos originario e l’ordine transitorio del mondo nei testi di Letizia Leone (Tu che attraverserai il giorno in un granello.// Qualcosa non muta nella catastrofe/ ignota. Un solido nudo/ resistente all’erosione interna.); o la radice della phoné e della graphé in Sara Davidovics (ed iam cui rum dia rum/ li aint et am is tia); l’individualità in rapporto al tutto e all’eterno in Andrea Raos (Unire eterno a mortale,/ pensare che possano insieme sentire, patirsi l’un l’altro,/ è devianza.); la morte e il nulla nelle poesie di Vito M. Bonito (arrivare a domani/ è niente// foscula anime animulae/ nihil nihil/ freddissimo nihil); i limiti dell’argomentare in rapporto all’origine dei fenomeni in Giulio Marzaioli (essendo, insomma, evidente che le particelle di ciascun corpo sono prodotte dalla natura e non dalla mano di uno soltanto, puoi dubitare ancora che queste volino ognuna diversa dall’altra?); la nostalgia dell’elementare e del previtale in alcuni passi di Andrea Inglese (avrei voluto essere una parte semplice, un seme o una particella primordiale, un chiodo nel cosmo, impenetrabile e duro, una cosa elementare); il nesso tra parola e silenzio in Elisa Biagini, per quel che si può desumere dal suo esiguo contributo (corde allentate/ e la freccia non/ parte, la voce/ resta in sé,/ la punta di/ parola.); il rapporto della parola poetica e di colui che se ne fa carico con il destino individuale e il Tutto nel poemetto di Vincenzo Frungillo ispirato alla fine di Lucrezio (io non voglio la fine d’Empedocle,/ ma la vita degna d’Iperione./ Perché la regola è una,/ ed unica la fonte/ guarda, Memmio,/ il sole.). Vorrei terminare queste brevi note soffermandomi proprio su due versi di Frungillo: “Finire non è uscire dalla vita/ ma restare per sempre nella sua scena madre” ; il “per sempre” in rapporto al finire, alla morte è qui il modo in cui noi contemporanei cerchiamo di riaccostarci, per rispondere all’angoscia del nulla che ci stringe la gola, all’origine del pensiero greco di cui noi siamo lontani, ma non troppo, discendenti. In altri termini la questione di fondo è se il finire è l’annullamento radicale o è un permanere nell’essere. Rispondere a questa domanda, essenziale sia per il filosofo che pensa l’essere sia per il poeta che dice il sacro, per riprendere l’espressione heideggeriana, sia per l’uomo di tutti i giorni che anche il filosofo e il poeta sono, è ciò che ci accomuna a Lucrezio, ad Epicuro, a Democrito e risalendo ancora più su a Parmenide, Eraclito (non a caso citato in un verso della Leone) e Anassimandro, fino alla porta che apre i sentieri del giorno e della notte e che ha aperto e tutt’ora apre i sentieri del nostro destino, ossia l’origine della natura e il suo incessante manifestarsi. Nam cum suspicimus magni caelestia mundi/ templa super stellisque micantibus aethera fixum,/ et venit in mentem solis luna eque viarum,/tunc aliis oppressa malis in pectora cura/ illa quoque expergefactum caput erigere infit. De rerum natura. 1204 – 1208, libro V .

Francesco Filia


sabato 5 novembre 2011

La fisica delle cose



La Feltrinelli
Napoli, via san Tommaso d’Aquino 70/76
Mercoledì 9 novembre ore 18.00

Daniele Claudi e Gabriele Frasca

La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio
a cura di Giancarlo Alfano(Perrone editore, collana Innumeri)

Letture di Sara Davidovics, Vincenzo Frungillo,
Letizia Leone, Giovanna Marmo e Giulio Marzaioli

lunedì 31 ottobre 2011

XI Quaderno di Poesia Contemporanea da Franco Buffoni (Nazione Indiana)

NUOVI INQUADERNATI 1.
AZZURRA D’AGOSTINO

Questo inverno indifendibile
questo lungo inverno e chi lo abita
si confondono nel niente della neve
o sui segni che il tronco della betulla
mostra nella luce più corta dell’anno.

È l’estrema notte, l’aspra notte impronunciabile
impigliata nei ricami del gelo che decifriamo
a stento. Il sambuco e l’agrifoglio, vedili, come sfondano
di verde il vetro della nebbia il segreto del sopportare
anzi: del portare l’austerità del freddo a linfe morbide
trasformando quel poco d’alba in frutti carnosi.

Quanta sete tra i nostri simili, che lunga malattia
ci affligge – questo è chiaro nel vedere come sta
composta la zolla riversa, il passero arruffato annodato
al ramo spoglio, il vaglio delle ore che fa il gatto alla finestra.

*

Come molto più grande sembra la montagna
con l’accenno di neve che appena, sulle coste,
la rivela. Uno scoglio immenso solo di poco
invecchiato, un broglio di nuvole intorno, l’inverno
che scivola nel buco della bocca fino al cuore
ma non lo gela. Non si è al sicuro lo stesso qui
da noi, anche se resta casa la casa e albero l’albero
anche se distinguiamo ancora i confini delle cose
il secco delle rose dal ginepro aspro e dal fango.
A pensarci, niente è un sollievo: non lo è il bianco
né la luce, né il cielo che rispunta chiaro e poi s’allunga.
Quanta bellezza in questo silenzio, che solitudine
immensa nella distanza, nella remotissima presenza
che fa di noi un altro qualunque e non lo consola.

*

Si sposta l’ombra che dev’esserci di luna che l’albero torto sembra
che la insegua mentre di notte sento le ghiande
cadere sul tetto di lamiera quasi uno sgocciolare
dei suoi pensieri, un lasciarsi andare nel mondo così
in un silenzio che non lo sente nessuno ed è bello
credere di entrare io nel buio della sua solitudine
o lui nel segreto della mia, tre rimbalzi e via,
dall’albero il frutto è in terra passando per le pieghe
del mio orecchio fino al cuore, essere in due
e sapersi come uno, il volo breve che parla di stagioni,
tempi, conoscere il seccarsi nell’umido della linfa,
l’indovinare il destino, essere vivi quando essere vivi
è capirsi.



*

L’Appennino e la primavera

Ora che ha smesso di piovere
anche noi siamo soli. Il temporale
lascia resti potenti: frane, piene,
alberi divelti, crolli, fango, gemme.
Ha sede nel sistema nervoso centrale,
dicono, l’odore dei boschi e le rondini
così distinguono la salsedine dai pini
dalle polveri africane. Diecimila chilometri
per tornare qui, ancora, gruppi piccoli
su cui buttare uno sguardo distratto.
Più sotto si inciampa in qualche albero
in fiore, in animali che alla luce dei fari
pestano cogli zoccoli l’asfalto solo un salto
e via, risucchiati da campi che sappiamo
appena misurare. Aironi che vanno o restano,
e anche i pesci che muoiono o vivono, istrici,
lupi, le malattie delle querce, delle api.
Dall’altra valle un cane abbaia
la nebbia scopre i sassi, un grumo di case
un campanile, una curva, un’erba rampicante
una goccia sulle foglie che scivola e poi cade.

*

Sta per arrivare la stagione dei canti notturni.
Di là, dietro, c’è un pino dove si nascondono gli uccelli
e nel buio costruiscono cattedrali nell’aria. Quasi
non lo si crede vero. Avevamo anche pensato cose
irreali, l’idea dei nemici, una rivolta confusa, astratta.
Uniformi che non conosciamo, parole d’ordine
irrequiete, calcoli. Ma questo non ci riguarda davvero.
La foglia descrive l’aria, un peso enorme che leggi
spiegano con esattezza. L’aria parla del buio
dove sta la radice, un nero di terra che fa con la luce
boschi, spianate d’ossigeno che crediamo per noi.
Sempre amavamo l’idea di avere tutto. Di saperlo.
Ma sulla terra frana un cielo di polveri, i dispersi
non li amiamo per davvero, ci punge la colpa, ma solo
davanti al cane che ci chiama, a volte, ci pieghiamo.



*

Lago di Suviana

Una passeggiata poco prima di buio, fiori che non si sfanno
nella pineta scricchiolante e un bacino
d’acqua scura dove tremola il doppio del mondo.
Nei tuffi del cane, nei bastoni levati per gioco,
gente coi piedi a bagno, pescatori,
un ragazzino nel silenzio delle fronde.
Così è questo, l’altro volto del male
un tempo breve, un sollievo elementare.

*

Nota

Azzurra D’Agostino ha pubblicato le raccolte poetiche D’in nci’un là (I Quaderni del Battello Ebbro, 2003), Con ordine (Lietocolle, 2005); D’aria sottile (Transeuropa, 2011). Suoi racconti e interventi critici sono stati pubblicati su varie riviste e antologie (tra cui Nuovi Argomenti vol. 51 – Mondadori, Almanacco dello specchio 2009 – Mondadori, Bloggirls – Mondadori, Best off 2006 – minimum fax e In un gorgo di fedeltà, interviste a venti poeti italiani- Il ponte del sale). È giornalista pubblicista e scrive per il teatro.

venerdì 14 ottobre 2011

Il margine di una città






Prefazione di Raffaele Piazza a Il margine di una città (Gallarate marzo 2004 – Napoli ottobre 2007) , Il Laboratorio, 2008.


Originale a livello formale e affascinante a livello di contenuti, questo poemetto di Francesco Filia, composto da cinquantacinque brevi frammenti ed un postscriptum finale. I segmenti di cui è composto il poemetto sono caratterizzati da una forte coesione e da un grande armonia nell’insieme, e possono essere letti simili a tessere di un mosaico ben articolato e strutturato nella sua concezione e fortemente unitario. Come dice lo stesso autore l’opera ha un andamento circolare e il p.s. finale è rivolto al Francesco che apre il primo verso del primo frammento. Del resto l’insieme è caratterizzato da un’architettura complessa e curata nei minimi particolari: non a caso il poeta ha lavorato alla composizione per più di tre anni ottenendo così il massimo della compiutezza, a dimostrazione di una matura coscienza letteraria. Il genere del poemetto, nella poesia italiana contemporanea, non è molto praticato: nella miriade di opere poetiche date alle stampe dai moltissimi poeti ci si trova davanti soprattutto a raccolte di poesia più che a poemetti; tuttavia non mancano autori illustri della poesia italiana postmoderna, che hanno scritto notevoli poemi e poemetti: per esempio Mario Luzi, con Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini, Maria Luisa Spaziani con Giovanna D’Arco, Franco Loi con L’Anghèl e Ottiero Ottieri con L’infermiera di Pisa. Ciò dimostra che il genere è ancora vivo e che può essere praticato con ottimi esiti anche da giovani autori come Filia.

Il filo rosso che lega tra loro le parti dell’opera è da individuare nella ricerca di un senso della vita nel tempo e nello spazio, vissuti con estrema tensione dall’Autore. Il contesto in cui l’io poetante (del tutto antilirico) si trova è quello urbano, ambiente che Filia osserva in modo capillare, cercando in tutti i modi di armonizzarsi con esso, interiorizzando la realtà che lo circonda, spazio materiale, fatto di strade, cemento, acciaio, vicoli, silos, lampioni, mentre poco spazio viene lasciato ad elementi naturalistici, tranne qualche squarcio di cielo. Come pure sono assai rare le figure di persone che s’inseriscono nel contesto, per usare una metafora teatrale, nello spazio scenico: viene menzionato nel primo frammento un migliore amico, ma, per il resto, l’io poetante è fortemente autocentrato nelle sue riflessioni. Lo stile del tessuto linguistico è molto rarefatto, in una scrittura complessa, fortemente densa a livello metaforico e semantico. Il poeta vive la sua tensione con ciò che lo circonda con un forte senso della corporeità: “…/Ogni cosa è già accaduta e le gambe hanno messo radici/ su questo muro. Ora non posso più scendere, posso/ solo spaccarmi.//” leggiamo nel terzo frammento. Tutto è in bilico tra gioia e dolore, e c’è salvezza proprio nel pronunciare la parola poetica. La scrittura è tesa, scattante e icastica e molto ben sorvegliata e c’è una consapevolezza dei limiti del cronotopo. Dal baratro del thanatos si riesce a emergere, fino alla luce con un felice esercizio di conoscenza: “/… eppure qualcosa regge nella voragine./ Ora ricordo tutto! L’intermezzo che ci vide/ nella stanza la luce che ci illuminò/ il libro sul tavolo la disciplina/ della notte: quello sfogliare le pagine/ e guardare dalla finestra esterrefatti./ L’attimo in cui fummo mortali.//” (IX frammento). Proprio la disciplina che il poeta nomina esprime che si può mettere ordine nella vita che qui coincide, in un felice connubio, con la poesia.

L’idea di margine nel poemetto è intesa come marginalità, ma anche come delimitazione, finitezza e compiutezza di un’esistenza che cerca e, talvolta, trova la sua forma; il margine è anche il territorio tra detto e non detto in uno scavo in se stesso, da parte dell’Autore, da cui sgorga la parola poetica. La salvezza si può trovare nonostante la precarietà della vita umana e il poeta, nel suo poiein, a volte riflette sulla parola stessa, in un gioco ben riuscito: “/Resta una retta che separa le parole da questo tempo/ e poi un altro tempo che le contenga. Ritorna/ come una fitta nelle tempie lo spezzarsi dei rami/ sotto la tempesta, l’esattezza di un soffio di vento/ che ci trapassa e ci rende felici/ finiti//” (XIX frammento). Il poeta interiorizza la città che è calata inevitabilmente nel tempo: “/Città perlustrata mese per mese, metro/ per metro, anno per anno/ tra sentinelle, pali della luce e orme/ disciolte al sole. S’incontrano/ pensieri e labbra, parole ripetute all’infinito./ Non avremo paura di scandire i nostri nomi.//”( XXXI frammento). E’ tutto un vagare, un viaggio percepito con i sensi ed interiorizzato dall’Autore che cerca di comunicare con se stesso e, a volte, con un tu presunto. Fondamentale e veramente alto il frammento non numerato che chiude il lavoro di Filia, il postscriptum: “/Non so se puoi ascoltarmi…/ ma la nettezza della luce su queste mura/ il respiro lento del giardino lo stacco/ del salto dopo la rincorsa danno i brividi. / E’ questo che volevo dirti da trent’anni o giù di lì/ ma poi le parole non sempre bastano a definire/ il margine di un’esistenza, il rigore/ del mio e del tuo nome pronunciato…//”. Qui il poeta si rivolge ad un “tu” non precisato in un’atmosfera di sospensione e malia e l’io poetante si chiede se il suo interlocutore potrà ascoltarlo in un’ambientazione di luci e brividi, di accensioni veramente notevoli.

Connessa con il testo è la serie a tecnica mista (collage e acrilico su carta) L’approdo del pittore Pasquale Coppola in cui, l’autore, prendendo spunto dal fenomeno delle migrazioni, esprime il senso angoscioso e irrisolto del viaggiare dell’uomo come metafora dell’esistenza. L’artista, come in precedenti opere, utilizza vari registri espressivi, arrivando a fonderli in un tutt’uno che mostra in maniera mirabile la condizione umana, il caos ad essa connaturato, con accenti di commosso lirismo.
I lavori bene s’intonano con il risultato finale dell’opera, pur essendone indipendenti. Essi muovono da una matrice espressionista e, al di là della figurazione, sono caratterizzati da un acceso cromatismo e da una costante sensibilità alla materia e al segno. L’elemento figurativo degli occhi che scrutano una realtà tragica di uomini, donne in balia degli eventi, realtà del resto guardata, contemplata anche dal poeta con la sua opera, lascia un’impronta fortemente drammatica ma nello stesso tempo esprime con forza la speranza della luce.

Raffaele Piazza

venerdì 7 ottobre 2011

Fanciulli sulla via maestra






(Ripubblico questa recensione scritta nel 2003 e comparsa per la prima volta sul sito Poiein)




La raccolta di Vincenzo M. Frungillo "Fanciulli sulla via maestra" (Palomar, 2002) fa sorgere una domanda sin dalla copertina, infatti in essa è presente la foto di un ragazzo in primo piano con il viso sporco, come di chi è appena uscito da un'avventura tipica dell'età preadolescenziale, e sullo sfondo una serie di manichini rotti gettati tutt'intorno. Perché questa foto di un solo ragazzo e non di più fanciulli come invece il titolo suggerisce? Forse la risposta a questa domanda potrà essere data solo dopo un’attenta lettura del libro, perché ne rappresenta uno dei nodi centrali.
Il libro è strutturato in due parti, la prima che comprende poesie dal 1994 al 2001, la seconda che è composta testi del 2000 e del 2001 ed è intitolata "Poesie civili per la città spaziale". La prima parte è quella che comprende la maggior parte dei testi ed è articolata a sua volta in 4 sezioni (Fanciulli sulla via maestra, Piccoli riti di Ventotene, Il giorno della nostra defezione ed Epica del bianco).
La caratteristica della maggior parte dei versi di questo libro è che non fuggono dalla pagina, anzi, con la loro cadenza epica, conferita da un dettato del verso prevalentemente lungo e disteso e dall'uso parco dell'enjambement, invitano il lettore a soffermarsi su di essi e a riconoscere lo spazio che intendono aprire. Apertura e riconoscimento sono due termini tra i quali oscillano quasi tutte le poesie di questa raccolta; e l'oscillazione è il modo in cui il movimento si manifesta in questi versi ed implica, a sua volta, una connotazione etica nella misura dell'oscillazione stessa (Riconoscere la misura delle onde…/ quelle del mare…quelle del mare…/ …del vostro oscillare…"Etica del bianco"); il senso della misura, inoltre, può essere dato, in alcune di queste poesie, da un gesto agonico che saggia le possibilità del corpo (Affonda il braccio nella vasca/ per saggiare il tutto pieno/ e il senso della misura. "La bracciata di Daniela").
L'apertura alla quale prima si è accennato può essere intesa come l'apriori dal quale parte la poesia, la sua condizione di possibilità (Ogni granello, ogni grano duro sotto il polpastrello/ è necessario per chiudere il cerchio,/ e noi lo teniamo ancora aperto. "Riverberi") ed è dalla presa di coscienza di ciò che nasce il dramma (noi siamo ciò che non abbiamo scelto! "Tutti i bersagli hanno colpito nel segno") che la poesia tenta di ricomporre (anche attraverso la figura di una donna Tutto questo è ancora da sopportare:/ il suo silenzio come un parto,/ tanta fragilità trattenuta in un solo corpo,/ questo dramma ricomposto. "Acquamorta"), ma dalla presa di coscienza nasce anche la dignità di chi sa che non si può vivere senza accettare la sfida che ogni esistenza è (Noi siamo nell'aria;/ e ogni parola è carezza/ alla serietà di queste mura./ Non importa chi di noi abbia accettato la sfida. "Non importa chi di noi ha accettato la sfida"). Proprio lo sforzo, che chi scrive compie per corrispondere all'apertura in cui ogni esistenza insiste (Che questo collasso non vi rapisca mai del tutto/ questo è ciò che sopporta il mio verso,/ come una cucitura, una molla tesa/ per lo spazio che dilata. "Riverberi"), impone un imperativo etico: il riconoscimento del luogo, anche storico, che ci è consegnato. Tale riconoscimento può avvenire solo attraverso un'opera di orientamento nello spazio, una topografia, che ordini la materia grezza di una vita (…la mia poesia è una passeggiata muta/ sottratta alle offese di questa strada;/ la mia poesia è come una danza;/ ad ogni passo indietro uno che avanza,/ e adesso che è intatta…la conservo come una mappa. "Sanguina l'ennesima fratellanza"). Questa topografia, che diventa a sua volta topologia, ha dei luoghi geografici ben precisi: Napoli ed i suoi quartieri, l'Arenaccia, il teatro delle avventure infantili e dei suoi drammi (Era la pietra netta e dura -buona per la guainella-/ ricavata dalla polvere di cenere/ ammassata nelle parti fonde del quartiere. "Non si sevizia un paperino"); il centro storico, delimitato dalle porte che racchiudevano la città antica, come luogo in cui, forse, finalmente avviene il riconoscimento tra la città e chi la abita (La città ora t'assomiglia,/ s'inscrive nel tuo corpo la collina,/ l'aria trattenuta e poi restituita,/ t'assomiglia questa salita/ e il ritmo di queste mura "La città spaziale"); i Campi Flegrei, non più città e non ancora paese, dove il passato remoto ritorna minaccioso (Che destino amaro/ abitare queste spiagge deserte/ allungate sotto il sole,/ minacciose,), ma anche luogo dove viene scandita la sintassi dell'amore (Lei è orfana degli angoli di pietra rosa/ delle anfore mai dichiarate, lei è orfana dell'anfiteatro Flavio/ che ha colto l'eco del primo bacio,/ di un amore che sperava già consumato. "Acquamorta"; L'occhio ha stretto un patto/ con l'altro occhio e qualcuno/ ne è rimasto escluso./ Tutti, proprio tutti, avrebbero giurato/ che saremmo finiti insieme,/ tutti dicevano che avevamo lo stesso sguardo. "Filiazione"). In questa topografia non manca certo lo spazio del viaggio agli estremi opposti, il nord come dimensione dell'esilio (Cerca l'esilio l'uomo a nord del mondo "In memoria di Joseph Brodsky"; Fitta la ronda del distacco in gocce di piovasco/ sui traffici del nord, "Poesie del distacco"), che però è indice di un esilio ben più ampio, quello del mondo, che ha connotazioni anche psicologiche, l'impossibilità di sperimentare il tragico (Esauriti tutti i dolori superflui/ ci resta solo quello necessario./ Sotto forma di perdono, così esiliato il mondo, sa di distico alleggerito./ "Non importa chi di noi ha accettato la sfida". morire tragicamente!, ripete tra sé e sé,/ poi s'interrompe per sentire il suo battito calare/ (l'ha già fatto altre volte)/ lei, senza eccessivo movimento,/ caccia una gomma dalla borsa e inizia a masticare. "Movimento"); il sud come luogo in cui il paesaggio si cristallizza in forme pre-vitali e il movimento ritorna da dove è venuto, all'inerte, che ha in questo caso il colore del bianco (Al centro/ del nostro sforzo inerme/ con tutto l'arco d'un movimento/ siamo uniti in cromatico ventaglio/ da me a loro da loro a questo bianco; "Chott el-Jerid"); infine il viaggio alla volta dell'isola come luogo di un impossibile Eden (ho disposto tutto, ogni singolo gesto,/ ai piedi del tuo letto/ e tu riapparivi ogni sera/ per cancellare anche me/ l'ultimo oggetto. "Piccoli riti di Ventotene").
E' tra queste coordinate geografiche che si innesta la dimensione epica della poesia di Frungillo, il far parte di un per noi, di una koinè, una delle ennesime che si ripetono ogni volta nel tempo, ma questo ripetersi non gli toglie certo drammaticità (Sanguina l'ennesima fratellanza) perché è sì uguale alle precedenti nella struttura, come anche le parole dei poeti che le hanno cantate (I poeti hanno dato voce ad altri poeti,/ si sono passati le parole di bocca in bocca/ ma lei l'hanno lasciata sola/ su chilometri e chilometri di terra morta; "Acquamorta"), ma diversa perché i nomi cambiano e ci sono altre solitudini da dire, che aprono un destino che non può essere intercambiabile, perché ogni nome chiama in causa proprio te e non un altro. E' per tale ragione che queste poesie esigono un'eticità anche dal lettore, infatti il compito di chi legge non è tentare un impossibile coinvolgimento simpatetico, ma è quello di constatare un distanza tra chi legge, appunto, e le pagine di questo libro, che non ammicca al pubblico, ma salva nomi (Daniela, Sergio, Duccio, Francesco, Massimo, Alfonso, F.P. e suo padre) ed eventi limite (Nella solita vergognosa estate,/ così esposti a questo niente,/ è ora evidente che nessuno può essere innocente. "Ogni perla ha un suo peso"; Sono poche le cose che ancora fanno paura,/ si riconoscono nell'imbarazzo delle menti/ mai disposte al dialogo con le ombre. "Si muore." "Sanguina l'ennesima fratellanza") dal tempo che devasta ogni cosa e che, però, ritorna puntualmente nella memoria di chi scrive, non per consolare, ma per ostentare un'assenza irrimediabile (La verità più spietata/ è che mai niente realmente si consuma/ e che tutto il tempo che m'allontana/ riporta i volti a flotte/ che, con la risacca del bel giorno,/ toccano con sempre maggiore precisione/ il cuore. "L'estate di San Martino"). L'assenza è data dalla mancanza di una memoria capace di riannodare il filo che tiene insieme la vita dell'individuo e dell'epoca a cui quest'ultimo appartiene (La ferita che traccia netta la gamba/ non segna l'angoscia/ ma qualcosa che, seppur nuovo,/ è privo di memoria) e al poeta, quindi, non resta che testimoniare questa condizione (-la mia testa come spia/ di un'assenza che non riposa- "La ferita") e tentare di insediarsi, attraverso un procedimento di sottrazione (Chi pensava per inni e colori forti,/ per slanci e grandi salti,/ si rimisura al richiamo che vien di notte. "Ci hanno scoperti Bianca"), in un’eticità più essenziale, simboleggiata dal colore bianco, sintesi di tutti i colori dell'iride (La solitudine ha un suo colore,/ ed è un bene, saperlo alternare/ in faccia a questo mare. "Etica del bianco"), che ha la dimensione di una solitudine essenziale ma, in quanto autenticamente esperita, salvifica (…"non farlo, Enzo, non farlo/ non puoi abbandonare/ la solitudine di una giovinezza in levare/ per seguire una solitudine ancora maggiore". "Poesie del distacco").Il compito che si propone il poeta è, quindi, quello di dire una parola che possa essere il luogo di una salvezza individuale, di chi scrive, e collettiva, la fratellanza a cui si è appartenuti (Vorrei servire questi corpi/ così simili ai loro nomi/ e sapere che se li chiamo/ con una fibra tesa di dolore/ possano un giorno rispondere:/ siamo a portata della tua voce. "Riverberi") ma ormai dispersa tra le necessità del vivere (La spoliazione della giovinezza/ è una condanna alla vita/ (…) Di cosa gioiranno ora/ nei loro uffici di plexiglas,/ e cosa racconteranno/ a chi siede accanto/ in un posto mediamente pagato/ dalla telefonia mobile di Stato. "Poesie del distacco"). Questo è il compito che tocca al superstite dell'epopea giovanile (colui che non fu avvertito in tempo che la giovinezza sarebbe finita: Sotto la cupola della mano/ si piega lo stelo di un dito./ Hai aderito./ Era solo un gioco,/ nascondersi al mondo,/ ma nessuno ti ha avvertito. "Scherzi di bambini"), che con il viso ancora sporco e le ferite sul corpo testimonia l'attimo in cui tutto è avvenuto e con i suoi versi procura spazio alla materia, lenisce le ferite con la garza delle parole che sono, le parole, la speranza di un grembo, dove possa distendersi il piano piatto di questo mondo. O, per richiamare ancora il ragazzo in copertina, la speranza che l'angelo della storia volga il suo sguardo su questa frazione di tempo irrimediabilmente già passata.

Francesco Filia

sabato 1 ottobre 2011

Novembre





Leggo con ritardo il poema di Domenico Cipriano, Novembre – Transeuropa (2010), opera ispirata dal terremoto che sconvolse l’Irpinia e altre zone del sud Italia il 23 novembre del 1980. Questi appunti non vogliono essere una recensione, già altri prima di me hanno recensito egregiamente questo libro e poi sarei fuori tempo massimo visto che la pubblicazione è avvenuta un anno fa, ma le mie vogliono essere le annotazioni di suggestioni che le poesie hanno suscitato in me, anch’io bambino, come l’autore, all’epoca del sisma che si avvertì potentemente anche nella città di Napoli dove vivo.
Dirò subito che questo è un libro che molti di noi “attendevano”, un libro che restituisse il senso di quell’evento a noi che lo subimmo da bambini. E proprio la cifra dell’infanzia mi sembra la chiave d’accesso privilegiata a questi testi. Il terremoto del novembre del 1980 - oltre a essere stato l’evento che ha sconvolto intere popolazioni del sud lasciando su di loro ferite ancora aperte e da questo punto di vista l’opera di Cipriano è epica perché “dice” il sentire di un popolo - è stato per un’intera generazione, che all’epoca era bambina o appena adolescente, un evento paradigmatico, uno spartiacque assoluto tra un prima di tranquilla bambagia familiare e un dopo che non sarebbe stato più lo stesso “stasera ceniamo con la morte, così ogni notte/ ci riuniamo e guardiamo le pietre ancora scosse/ la terra senza volto arresa”. Un evento mitico, dunque, nel senso antico del termine, al tempo stesso “cosa” e “parola” di cui continuare a narrare in maniera ossessiva e rituale (i numeri delle date, delle ore, dei minuti, di cui parla l’autore nella nota), liturgia che ci mantiene in rapporto appunto con il mito fondativo di un’intera generazione e con coloro che ne sono stati sommersi dalle macerie “..altrove erano i corpi senza vita”. E qui sta il paradosso, ciò che ha caratterizzato, fondato per sempre una generazione di campani e lucani è una catastrofe, un evento in cui la terra non fonda, non nutre, non è madre, ma distrugge e uccide con forza matrigna, inghiotte ogni cosa in una voragine abissale; come dice in maniera mirabile il nostro autore nel primo frammento di cui nel dettato si sente, anche attraverso le allitterazioni, il ritmo percussivo “…è fuoco/ la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema/ riempie memoria. Ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.” La terra qui si manifesta come un mostro ctonio che in un corpo a corpo con gli uomini stessi e i suoi manufatti li abbatte, li devasta “..si mostra così la forza/ della terra attaccando i progetti realizzati/ rendendo instabili i traguardi idealizzati”. E del bambino che ha vissuto quell’evento ( qualcuno mi diceva di dormire, ora che/ nel lampo dei miei 10 (dieci) anni affrontavo/ le paure.) è la meraviglia nel senso dell’etimologia greca, thaumázein, lo sgomento che nasce dallo thaûma, dal colpo degli elementi che si manifestano nella loro originarietà terrificante. Di quello sgomento originario Cipriano conserva lo sguardo “solo i bambini riconoscono i gesti degli affetti/ il gioco nel vivere insieme in un non-luogo.”, sguardo indagatore e attonito che si fa parola e illumina con luce vera e spietata anche i gesti del dopo, gesti a volte eroici, a volte quotidiani e compassionevoli, altre volte meschini e criminali ma comunque indelebili nella memoria di chi è rimasto e nelle pietre dei paesi devastati, dei paesi ricostruiti e traditi “sciacalli sui resti delle case, tra i morti/ e le pietre, ma nel freddo si nutrono/ aiuti improvvisati, attrezzati con la forza/ della stessa notte”.
Infine la parola non serve solo a ricordare -attraverso una memoria offesa e affaticata dal dolore che spezza il dettato (si vedano i frequenti enjambement) pur controllatissimo, per mostrarne tutta la straziante veridicità – perché la visione originaria che scaturisce dall’evento del terremoto e dà forza alla parola, fa sì che le cose non siano più quelle che sembravano essere prima, ma siano liberate dal peso del passato, da ciò che pur rimanendo incancellabile deve essere visto nella luce di un futuro, di una vita che su fondamenta diverse e più labili deve continuare ad abitare la stessa terra “la morte ha soggiornato per anni/ ora le nostre case hanno bisogno/ di respiri, abbandonate come sono/ al silenzio. Abbiamo traslocato/ i nostri corpi e lasciato solo/ le crepe nude delle rughe/ a vegliare sulla piazza”.

Francesco Filia

giovedì 8 settembre 2011

Presentazione di La fisica delle cose a Milano

Lucrezio riscritto
Martedì 13 settembre 2011, alle ore 21
presso la Libreria Popolare (via Tadino 18, Milano)

Presentazione di:

La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio

a cura di Giancarlo Alfano

con testi di Andrea Inglese, Letizia Leone, Laura Pugno, Giulio Marzaioli, Vincenzo Frungillo, Andrea Raos, Vito M. Bonito, Sara Davidovics

Giulio Perrone Editore (2011)

Partecipano alla serata: Giancarlo Alfano, Andrea Inglese, Vincenzo Frungillo, Italo Testa

venerdì 19 agosto 2011

Per Giuliano Mesa, scomparso il 16 agosto scorso

è come se andarsene non fosse che questo,
questo restare e fare ancora un gesto
(è come se dirlo fosse soltanto vero,
e non più vero, ancora, del non dirlo)

e poi quello che manca mancherà
e ciò che è è ciò che ormai è stato
(e parlane, mio amore, dinne ancora,
fa che sia vero ancora)

(pensa ad un giorno, pensando ancora
a chiudermi gli occhi, finché c’è luce,
a premere ancora, sulla tempia, il nervo che pulsa)

(pensa che vuoi pensare,
fino a quel buio,
fino alla luce, infine, che scompare)


8 -v3

ed è quest'ombra
sul tuo volto,
questa piega-

un segno che ti segna
come se fossi tu

(sei tu,
l'ombra di te
che sai di essere-

il tuo sapere il mai
che mai sarà)


da Quattro quaderni, Giuliano Mesa, edizioni Zona, 2000

giovedì 4 agosto 2011

Gli anni sottratti



“Racconta , con parole tue, gli eventi
Più significativi della tua vita”. Questo
È il tema da svolgere, tra il dolore
Di un’erezione e una macchia d’inchiostro
Sul maglione. “Luoghi comuni e banalità”.
Questo è stato il responso. Solo ora, però,
Sono stato sognato dai miei ricordi.

martedì 5 luglio 2011

Poesie della fame e della sete


Il rullo dello stomaco
gira a vuoto la tua assenza.
C’è un piatto nel lavello da lavare
la poca pasta del giorno prima
il sugo è una crosta buona
sul fondo del tegame.

Se prendi fiato ora
puoi sentirmi entrare
come una folata grossa
un tuorlo d’aria
che dal cielo si stacca
e a raccoglierlo
silenzioso è un fiore.







Il ciuffo che siamo
d’erba agli angoli
inerpicata
il vento indietro inviato
dai passi.

Venisse ora
la torsione di un braccio
un tocco, un riparo,
l’impugnatura
sicura d’una mano.










Alla Compagnia

Io non so
e a malapena vedo
tu mi stai a cerotto sul palmo
della mano screpolata dal vento.

Se vai giù, ancor più a fondo,
vedi che avevo sbucciati
pure i gomiti e le ginocchia.

Si cade, io so,
perché qualcuno ci prenda
ci porti a spalla e ci infili
nel sole la testa
che affetti la luna
ma senza ferirla
dolcemente, ridendo.












a R.




Non mi bastano le spighe
svettanti d’agosto
neppure il miele
colato dagli occhi
di un bimbo, mi salva.

Posso solo affidarmi al niente
al tutto di un volto
che piange il mio nome.





(da Quattro giovin/astri, Kolibris, Bologna 2010)








Francesco Iannone (1985) è nato a Salerno, dove vive. Laureato in Scienze dei beni culturali, è nella redazione di Unisound: la web radio dell’Università di Salerno DABAZ (da Bellavista a Zivago), dedicato alla poesia. Ha vinto la sezione “Giovani” dell’ottava edizione del premio poesia “Sant’Anastasia”.Suoi testi sono inclusi nell’antologia Al di là del labirinto, a cura di Antonio Spagnuolo, L’arca felice e in Quattro giovin/astri, Kolibris, Bologna 2010 a cura di Chiara De Luca. Ha pubblicato la raccolta poetica Poesie della fame e della sete, Ladolfi Editore, 2011.

martedì 28 giugno 2011

Rogo


(La neve, XII frammento, Napoli 2007)

La folla, i corpi ondeggiano nel riverbero
di questa strada. L’aria la polvere li assedia, li soffoca.
Il cielo e il mare si fondono, colano densi coprendo
ogni cosa: questi palazzi radicati nel vuoto l’acre
sentore della nostra fine imminente il suono ossessivo
di un allarme i portoni e le piazze gremiti di visi
di occhi.
Non è un gioco! È una questione di vita, di morte.
C’è il sangue che pulsa c’è il sudore che copre la pelle.
Il nostro respiro che cerca lo spiraglio per sopravvivere.
Questa è la crepa dei nostri giorni. I tempi morti
tra un gemito e l’altro, ci lasciano così, attoniti
e senz’appiglio. La luce dell’alba scopre ogni cosa
e le restituisce – queste mura i marciapiedi il tuo volto –
nude e senza protezione, inermi ed esposte all’incombere
del mondo, di questa città gettata tra il mare e un incubo
appena iniziato, il cerchio spezzato di queste colline.

venerdì 24 giugno 2011

La fisica delle cose



E' stato pubblicato in giugno, dalla casa editrice Perrone di Roma, il libro La Fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio. Si tratta di una rilettura poetica del grande poeta latino approntata a partire da singoli versi o da singoli capitoli del De rerum natura. Gli autori sono Andrea Inglese, Giovanna Marmo, Elisa Biagini, Andrea Raos, Giulio Marzaiolo, Vincenzo Frungillo, Letizia Leone, Vito Bonito, Sara Davidovics. La cura del volume è di Giancarlo Alfano.

"Il processo conoscitivo ci fa comprendere che non vi è un disegno secondo il quale tutto venga
disponendosi, e che dunque non vi è una ragione superiore, un dio; il movimento incessante delle
cose ha ragione in sé stesso, al di là anche degli individui. Vige il sistema, non la pedina; la Natura,
non la mia singola esistenza. Venere, cui il poema è dedicato, moltiplica gli esseri viventi
(animantes) per cielo, in mare e sulla terra, ma non mira al soddisfacimento del singolo.
Esattamente come Darwin. E poi come Freud. O, prima, Leopardi. Il modello naturale del mondo
diventa una teoria del piacere (si veda la fine del libro quarto), che si volge in etica. Tutto, infine, si
esprime in un’estetica che supporta lo stesso processo gnoseologico."
(Dalla prefazione di G. Alfano)

lunedì 20 giugno 2011

da Gli enervati di Jumièges, peQuod 2007 Roberta Bertozzi


(II. in utero)


«Se ti fermi devi ricominciare
dall’inizio… dai qua!»

Escoriazione – procurarsi da soli
sbrigativo per evitare arrivi
qualcosa di peggiore – forato buio popolato
di animelle cervicali
battere sul tempo e più boccettina adesso
e nicotina abboccare
per disinfettare l’orlo, per tirarlo a combacio

«mi sembra che oggi va meglio…»

poi ricominciamo – le scalfitture,
la pelle sottopelle più abrasiva
e spremere adagio dalla
l’umore spento, scuotere prima di ogni uso lisciarsi
colla lucida urina
e lento sbiancare in nuova, siberiana
sacca d’utero.



Per la safety first – assumere
i precetti per cui opera
la salubrificazione – mia, tua.
Metti il tampone, inghiotti
(la tua lingua fuoriuscire per altre dentellature vedo)

poi ad anni alterni il corpo fare duro di abbandono
e attendere pazienti, «sta fermo ti ho detto…
così…»
per la somministrazione del perdono.



L’alba, la stanza ossigenata
(cerchi un punto d’appoggio per lo sguardo
ti abbracci all’edificio): quando al blocco il contatore
ci rinumera nelle file
e il soprannumerario inciampa per la rampa
delle scale – non volendo
cosa gli va negli occhi, cosa gli fa – corpuscolo.

Poi solo lo scorrere – sostenerlo sul binario
come lievito.

Quieto panico nelle compagnie civili.
Le acque che le bagneranno
alla turnazione. Gli operosi allungano la bocca
alla dispensatrice madre ovaiola
perché essa provvede per tutti, tutti
slatta.

«Quando sognavo facevo quello che mi pare… ero
bello e fortissimo…
poi me ne sono accorto e ho avuto come paura…»
(allunghi una gamba o tenti
di scalciarla al fondo, mezzafuori).



Se al deposito precipitano fiacchi
sulla panca del lavoro, noi ne – sentiamo solo
il tonfo-morto di schianto
giù dalle scrivanie

all’assolo del marciapiede
dove qualcuno piange senza audio
e io sì, avrei dovuto
lasciare l’elemosina, un vulnerabile
sempre bisogna che qualcosa
dare che sublima la perfezione, al saldo
di una qualunque vetrina di sofferenza, quando lo sguardo
cade.

Dunque di nuovo al principio, all’innesto,
se ti fermi devi ricominciare
la tua creatura – di nuovo piegati verso
di me, di dentro noi, e più crescevamo e non
per il cappio della costola.



Sei un figlio di nuovo ficcato
nella nutrizione – il re del rock and roll
e riprendi a ovulare arrossato
dalle scosse dell’amore

un figlio, due, appesi al chiodo
trapassato della foto, da dove scappano
nella frizione generosa degli inizi e sei
chi lo svertebra questo dio minore

questo
per altra giustizia sommaria – immagino
rimettere nella cellula il suo generativo

sangue sillabico e altro nuovo
sangue e ancora procurarsi

scorte.



(IX. la notte)


È notte lirica, altissima.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno la mano placida sul membro.
Qualcosa ancora in stato di panico
ulcera la frontiera con le pinze, con
un piccolo coltello a serramanico.
Tutti i bravi borghesi di Baviera
hanno avuto il loro pane quotidiano
e il loro sangue si fa svelto – viola.
È notte lirica, danubiana.
E se il pazzo grida nel reparto è solo
per continuare il suo cantiere –
dare fiato al cadavere
del caro estinto Novecento.

È notte di grazia,
e la pastina è nel piatto del bambino
le labbra serrate della gente in pace
mentre una nuvola di borotalco
sbuffa dall’inceneritore
sottovoce.

È notte, ma torna
quel brusio, quella sgualcitura del silenzio,
la fiumana che si trascina la rotativa
nel respiro, nei muscoli che bruciano,
nel tubo di condotta che incula
un altro tubo,
quel bisogno di continuare a fabbricare – addizionare
adrenalina al laccio.

È notte ed è notte anche sui tuoi polsi,
sul tuo rimbalzo cardiovascolare
e io col compasso ti traccio la vena e coll’unghia
ti sottraggo – dai a me. E ancora. Ancora spinge
la mia pietà sulla vena
a farti più paralisi.

È notte alta, potentissima
e il mondiale infaticabile arsenale
mugola attraverso la parete carta-velina,
viene a rima.



“come un’ora del bisturi
Bambino, e questa lama è benefica”
ahi questa – lama che ti benedice
mentre ringhia notte sulle schiene flesse.
Pensi: se non spargeremo calce sul passato
i muri continueranno a sudare
la secrezione urticante dei lamenti

e l’odore dei forni
irreparabile
l’odore.

La rovina è inscritta di retro alle palpebre,
nella tenda oscurante delle palpebre
stampata la forma della carneficina

(sentinella serale io solo che lento provo
premendo bocca alla tua, io che adagio ti apro nel ventre)

mentre fa di tutto per piovere quest’acido
questa allegra amnesia
sui sopravvissuti, i – nati dopo.

Per cancellare ogni notte brancolando
l’amore digrigna contro gli spettri
il suo disgraziato caritare
come un cane.



«Togliti, lasciami stare…»
Sui fianchi addensa la via lattea dei tralicci.
Spanciare nel mezzo e non stringere il vento.
La luce che si spalma come colla,
un narcotico. La garza della luce.
Dalle rive, nelle stanze-contrafforti
hanno i corpi sgretolati di abbandono,
le teste a pioggia.

«Domani proseguiamo sulla stessa rotta
manca poco ormai…»
«Poco…»
«Pochissimo, credimi.»
«E dopo cosa facciamo?»
«Niente, dopo siamo arrivati.»

E il gas prenderà la giusta direzione.



(XIII. réponse)


Nella grande incubatrice sollevati e schiacciati
allo sterno e con punture il rilascio
è a piccole dosi – calcoli che si depositano e
circolano, impongono carcerazione ai polsi,
a tutti i più scelti arti mobili.

Nella grande incubatrice – «Non parli,
cos’hai?»
arrendiamo noi.

Noi crediamo di affaticarci all’opera
e sono solo gesta compiute
sull’almanacco dell’infanzia.

Ora per l’incavo di bocca
passa questa increspatura di petali e fogliame
che ci stende vinti alla bellezza,

«Non insistere…»

questa pestilenza di grazia
e come si svertebra tutto e tutto resta
controverso,

«Se hanno deciso così non puoi farci niente…»



Sotto il segno della costellazione di Orione
il territorio metropolitano scintilla
e libera esalazioni micidiali per i nostri sensi.
Il tempo si trascorre rasentando il bersaglio – il frontespizio
del mondo provvisorio. L’acqua, l’acqua si sfalda in ardesia!
(ti affidi all’argano, tenti di far durare, di
mirare alla punta del promontorio)
Uh, uh! Ah, ah!
L’intero delle acque miscelato,
le carte che lo duplicano sul dorso.

(fissi alla lettera una data in alto a destra,
metti in ordine la punteggiatura)
«…bisognerebbe smettere di pensarci, di pensare…»

«Bien, alors, ta rèponse?»



Sul cartello pubblicitario: picchia e fotti.
La volontà di un corpo tenuto in vita da una macchina
o dal volere di un altro corpo intercessore
che si fa corpo nel tuo. Cosa fa da leva a cosa.
Acrobazia di carni, del prendersi per ogni verso,
che la parola moltiplica.
Dove comincia il riassunto e dove cominciamo noi?
Dove si è arrotolata nella notte per fare più male,
dove – le sue larve?

Se tra terre e acque mette disarticolazione, se
rode gli argini con slogature e se smezza
non è in forza del nostro braccio se – la storia
lavora altrove le sue dune.
Luminosa la rosa del probabile – poi di nuovo un lungo coltello
e io, sì, avrei dovuto,
sempre bisogna che qualcosa
venga a recinto
equinoziale.

Il coltello della luce pratica un’escissione – scarifica
quel poco che teniamo in petto.



La tinta del mezzogiorno è un vaso
di separazione fra noi e le rive – esonerati
dalla palestra, dal farsi.

Intorno le altre zattere, la melma nella cupola
capovolta delle carene.
Alla sbarra, a sentirne i nomi
sale un armistizio in cuore
come legamento d’anima alle
loro lunghissime dita di stelo.
E forse stanno per chiedere un tocco – un sollievo
quando negli ascensori, alla luce insetticida
delle aule, dei sanatori, guardano senza guardare
chi viene, il prossimo.

Please catch them burning out of
the building. Catch them
– flying out.



Carità che dal fianco grida,
dalla costola del seme.


(XVIII. nella società dei fratelli)


Ho compreso – ti ho
(è lo stare come il cecchino
sul grilletto – immobile nell’alveo di Morfina
mentre correvano tutti
al loro destino di bersaglio.
E se fosse un imbuto, il viadotto
che all’uscita rilascia masticato il tempo
e come un cane io seguissi le tracce:

quello che perde ciascuno fra le pagine del libro
aggiunge) – allora tu:

inietta – provoca qui
appena la punta d’ago da cui attendo
la cura
oppure concedimi il nervo – per volta almeno
lo stadio dove non c’è scampo
con stampelle, mio compagno, al duello

posizionami.

«Cancella quello che non si deve dire,
prima però rileggi…» (rifai il corpo
alla statua del dovere, rialzi il capo):



Il nostro viaggio è nel fascicolo
della pietra, nella custodia della luce
dove il tempo viene meno

mentre è continuo
sfogliare durezze alla selce
ogni venatura esaminando
perché nulla vada trascurato,
padre.

Nel quaderno si spegne il gesto,
nell’album del male fanno le circostanze, ovunque
parole composte in batterie d’enunciato
si armano – in sigle si arrestano.



Hanno detto è tempo di spremitura, di rimagliare
l’archivio, di stare all’asciutto – tempo
di fare un figlio voi, un altro precipizio della carne;

in ritiro dai vostri polsi venire
al compromesso,
cambieremo i nostri discorsi, vi piegherete
come ogni Volksgenossen, vedrete sarà
bello…

Ma ogni cosa storna e
non-è-più-tempo e si resta così
di traverso,



come s’allunga l’orizzonte, come si rasserena
di luminarie, di torce elettriche a mazzi
come s’insera.
Sento un crepitio di fascette d’alloro
e di passi, di passi lo scalpitare
che pestano e s’ingrossano
come di cosa decisa, sulla pubblica, addominale
piazza s’impulsano, i passi incalzano a turni e più –
come stantuffano ora i ventricoli del mio cuore
sento
che è deciso ma non è esplicito
non riesce a fluire:

«Ci siamo quasi… sei pronto?»
«Se avessi il copione forse sì, ma così, adesso…»
«Forse basta fischiare, un richiamo…»
«… non sono sicuro che sia questo…»
«Appoggiati a me…»

L’acqua è il nostro specchio. Nella società dei fratelli
è la paura a fare carità. A fare tutto stretto in coro all’altro
nella spaventata fratellanza, nel rimedio,
padre:
io sono dell’ulivo,
raddoppio
e le radici si inarcano al fusto

e storpio.
Oh tu – abbi pietà.



«Sei pronto?»

Qui occorre spaccare, occorre
mancarla del tutto
la realtà.

lunedì 11 aprile 2011

Passaggi di ruolo

Allora mi sono chiesto, durante le mia ennesima notte insonne, se è vero tutto questo, ossia che i ragazzi sanno e vogliono, se è vero che i genitori sanno, ma ancora non vogliono del tutto, sarebbe bastato poco perché qualcosa del genere avvenisse, che il tempo si fermasse e perdesse di senso; niente più crescita, nessuna scuola, pedagogia, nessuno più sarebbe stato un adolescente, la parola adolesco, sazietà e presunta fame, avrebbe perso di senso, così come aveva detto Rosati durante la cena; allora saremmo diventati tutti noi personaggi di un enorme romanzo popolare senza un autore, o meglio l'autore sarebbe stato quel dio che abbiamo cacciato quando ci siamo scoperti razionali, fondati sul nostro uso di ragione, e che ora rievochiamo senza preghiera, quel dio sarebbe stato il gioco dei giochi, visto sotto forma di vanità, del nulla che si rispecchia; la sua idea d'assoluto ce le saremmo portati tutti addosso come una seconda pelle, confondendo il tutto con la parte, come illusione e dannazione. Perché alla fine dei giochi, c'è poco da dire, il corpo con la sua carne continua a morire.

sabato 2 aprile 2011

L'invenzione di Morel


E un giorno ci sarà un apparecchio più completo. Quel che viene pensato o sentito nella vita -o nei momenti della ripresa- sarà come un alfabeto, mediante il quale l'immagine continuerà a capire tutto (come noi, che con le lettere dell'alfabeto possiamo capire e comporre tutte le parole). La vita diventerà, così, un magazzino della morte. Ma nemmeno allora l'immagine sarà viva; oggetti essenzialmente nuovi non esisteranno per lei. Conoscerà tutto ciò che ha sentito o pensato, o le combinazioni ulteriori di ciò che ha sentito o pensato.
Il fatto che non possiamo capire nulla fuori del tempo e dello spazio, sta forse a suggerire che la nostra vita non è sostanzialmente diversa dalla sopravvivenza che si otterrebbe con un tale apparecchio.
Quando intelletti meno rozzi di quello di Morel si occuperanno dell'invenzione, l'uomo sceglierà un luogo appartato, piacevole, vi starà insieme con le persone che più ama e rimarrà perpetuamente in un intimo paradiso. Uno stesso giardino, se le scene da perpetuare sono prese in momenti diversi, alloggerà innumerevoli paradisi, le cui società, ignorandosi a vicenda, funzioneranno simultaneamente, senza urti, quasi negli stessi luoghi. Saranno, purtoppo, paradisi vulnerabili, poiché le immagini non potranno vedere gli uomini, e gli uomini, se non danno ascolto a Malthus, avranno bisogno,un giorno della terra anche del più piccolo di quei paradisi e distruggeranno i suoi inermi abitanti, oppure li rinchiuderanno nella possibilità inutile delle loro macchine disinnestate.

domenica 20 febbraio 2011

Riflessione del pavone

pensavo che per distogliere la frenesia dei maschilismi e dei femminismi di corte basterebbe concentrarsi su nuove forme. tutto questo fino ad elencare una casistica di gesti minimi in cui se si riesce si elimina lo spettro di se stessi ossia il doppio che ci guarda mentre guardiamo, perché mi sembra evidente che ognuno di noi è nato nella ripresa della macchina da presa. ebbene che sia questo un circo della vanità ridotto a ritornello o a spirale che si assottiglia , come l'occhio del pavone, mi sembra cosa nota e che ognuno boccheggi per cercare l'aria, la via d'uscita dalle rappresentazioni kitsch della sfera umana è cosa ancora più nota. e allora. sembra un tantino ipocrita che ci siano questuanti di destra o di sinistra a voler tirare per la bocca la nostra ultima risorsa. che Paese di capre e di caproni! Già basta il nostro doppio, l'idea che si abbarbica alla carne , per darci sufficiente controllo. E' lei che vuole essere eterna, mica la carne che imputrindisce. lei mi chiede di restare, oltre l'esaurirsi della mia funzione: pisciare, mangiare, fare all'amore...lei che permette il controllo della sfera intima che si fa esibizione di diva e diva moderna. bah:...poco cambia e che morire interessa a nessuno, l'aion che predomina e dispone la nostra misera prigione. per me se avessi tempo a sufficienza farei cose da poco: ossia mi inietterei una siringa d'insulina, l'ho sempre vista come fase di ritorno alla vita. e tu ? o, mia colombella, che fai ti specchi nelle parole che lascio qui nella bacheca?

mercoledì 2 febbraio 2011

Indice Puntocritico

Secondo google analytics, Punto critico in queste 3 settimane ha avuto già oltre 2000 visite.
Durs Grünbein e Italo Testa, Dialoghi sulla lirica: # 1 Durs Grünbein
Marco Giovenale, Fare danni (ovvero: Domande critiche / 1-2 sull’editoria)
Gian Maria Annovi, Scritture Fuori Formato
Vincenzo Frungillo, L’assenza del padre o della tradizione. Uno studio su La ragazza Carla di Elio Pagliarani
Giovanna Frene, Contatto assoluto. Note sulla poesia di Elisa Biagini
Indice de “La libellula”, n.2 (dic. 2010)
Gilda Policastro, Esordienti allo sbaraglio
Giampiero Marano, Hoda Barakat nella cruna dell’ago
Rino Genovese, Un’idea intorno a Pasolini e alla sua critica della cultura
Renata Morresi, Scritture della mobilità, intercultura e la sperimentazione poetica di Theresa Hak Kyung Cha
Gian Maria Annovi, Scuoiamenti: Sanguineti, Marsia (e Marx)
Giorgio Mascitelli, Appunti per una lettura del Beckett coprolalico
Massimiliano Manganelli, Recensione a Mariano Bàino, “L’uomo avanzato” (Le Lettere, 2008)
Marco Giovenale, Quattro categorie più una: “loose writing”
Alessandro De Francesco, Grammaires de la subversion
Alberto Casadei, Berlusconi e la letteratura
Italo Testa, "Uno sguardo di passaggio". Mimesi e desiderio in "Horae canonicae" di W.H. Auden
Giuliano Mesa, Nel camminare accanto. Piccola Fabrica per Biagio Cepollaro
Andrea Sirotti, Recensione a Mia Lecomte, Terra di risulta (La Vita Felice, Milano, 2009)
Gianluigi Simonetti, Nella galleria degli specchi. Recensione a Walter Siti, "Autopsia dell'ossessione" (Mondadori, 2010)
Marco Simonelli, Dire di sé parlando d'altro
Massimo Gezzi, Le strategie del «sottoscritto»: paragrafi per Di Ruscio narratore
Federico Federici, Recensione a Nika Turbina, “Sono pesi queste mie poesie” (Via del Vento, 2008)
Alessandro De Francesco, Su e per «Théorie des prépositions» di Claude Royet-Journoud
Antonio Loreto, La sindrome di Rorschach e la griglia dell’originalità
Paolo Zublena, Esiste (ancora) la poesia in prosa?
Giulio Marzaioli, Per...a Delo
Luca Sossella, Appunti per un dialogo
Stelvio Di Spigno, Recensione a Domenico Cipriano, "Novembre" (Transeuropa, 2010)
Isabella Mattazzi, La coazione a godere, una prassi moderna: Recensione a Slavoj Žižek, “Leggere Lacan” (Bollati Boringhieri)
Umberto Fiori, Il movente reale. Considerazioni sui “ritorni di fiamma” di Sereni

martedì 18 gennaio 2011

Ingennaiato


EINGEJÄNNERT
In der bedornten
Balme. (Betrink dich
Und nenn sie
Paris.)

Frostgesiegelt die Schulter;
stille
Schuttkäuze drauf;
Bauchstaben zwischen den Zehen;
Gewißheit.

(Paul Celan, Schneepart)


INGENNAIATO
Nella spinosa
Grotta. (Ubriacàti
e chiamala
Parigi.)

Sigillata dal gelo la spalla;
con sopra silenziose
civette;
lettere d’alfabeto
tra le dita dei piedi;
certezza.

(Parte di neve. Traduzione di Giuseppe Bevilacqua)

martedì 11 gennaio 2011

Dialoghi da Moleskine




a Chiara, Elio e Fernando
che sanno il perché.

I
Dopo il tuo lavoro passi sempre qui,
alto, alto sali tra i muri
scendi latte di montagne
rimpicciolisci per raggiungermi
dalle finestre, dai condotti sublunari.
- Ebbene, che vedi fuori
prima di entrare?
- Saranno anni che gli uccelli
fanno la loro ronda familiare
e le luci muoiono nello stomaco
grande e fumoso dei bar
- Salta il racconto, va’ avanti
- Che due o tre giovani
dalle calze brune hanno
provato a salutare.
- E poi? - dico per spazientirlo -
- E poi finisce che venga
da te per costruire questa stanza
e le risposte e la vita tutta
che ti accendono la forza di sempre,
sempre nascono sul disco del mondo.

II
Entreremo spalla a spalla
coi piedi senza rumori
nella scatola magica dell’ascensore
ti chiedo il nome, poi la dimora
cosa farai di buono prima di dormire
poi tocca a te
- Facciamo un po’ per uno - ho detto -
Mi chiedi:
- È già sera? -
poi se e quanto manca all’arrivo
(hai detto se, mi commuove l’invito
per l’eternità che viene via dal tuo viso)
e quanto ancora al momento in cui
divideremo la strada
tu a destra
io a sinistra,
tutta l’apparizione ferma
nella testa, nel miracolo
di un giorno cittadino
al numero ventisei,
rapide cascate sotto le scarpe
annunci, coleotteri per la via
l’attesa della fine, la fine dell’inizio
di fronte al Caffè della Fontana.

III
Oggi sono una prolunga di rami
alla finestra,
guardo l’Europa alla televisione,
la sua corolla d’acciaio.
È un mondo piccolo da qui,
un grumo caduto dagli anni
lanciato dall’angelo giallo
della rivelazione.
- Vuoi qualcosa? - dici
prendendo le sembianze
dei fiumi, aria terrosa
di finestre dell’est -
passo più tardi?
- Sì, voglio quel tuo sguardo,
fa così bene
non mi dice, non rimprovera
preme sui miei occhi,
sa - come l’età, come la tenerezza -
dove finire.

IV
- E se si fa sottile il suo corpo
la riviera ci sembra attraverso
non mangia ormai che pane
e origano,
dobbiamo partire
per le stanze bianche
e i corridoi verdacciaio delle sale
per provare a ricongiungerci
nel sangue.
- Così le dici? Dobbiamo partire?
- Ogni tanto succede. O, ogni tanto,
che anche a me fa male qualcosa
cosicché dopo a lei non dice niente di brutto,
tutto ciò, niente di terribile.
È la riprova che il corpo è nostro
e se siamo in due si passa meglio
dal sogno all’esistenza , dall’esistenza
al sogno, nella notte.

V
- I piani delle ricevute…
- I piani?
- I piani che hanno la costanza
di farci ricordare.
- Cosa stai guardando adesso?
- La data di quando
ho ordinato il tuo libro
e i soldi messi da parte
per quell’esame di gioia
e di zucchero,
l’azzurra avidità che ci sfinisce.
- Non c’eri che tu, nel libro
hai pagato un libro che parlasse
di te, senza aspettare
il mio ingresso nell’estate
il possibile incontro che avremmo
avuto, il mio regalo dovuto.
- Si chiama impazienza di tutto
Hai detto sì, così felice
una volta ancora.

VI
- La guerra per le intercettazioni
l’incostituzionalità delle parole…
lasciamole a loro,
io vengo per intercettare te
e il radar si fa più dolce
hai le carte, la geopolitica
della sopravvivenza.
- Non ho che questo
- Basta, credo.
Ti prendo da questa pista fumosa,
immeritatamente so le coordinate
- Non sai pilotare (sorridi)
- Si progredisce. Si fa un upgrade,
so che ti piace se lo dico, se poi
ti tengo per i capelli, ti tiro su
accelero, già volo fuori dalle nebbie
il tuo volto è una città scoccata
in aria, fuori e più fuori dal buio.

VII
Le cose che non iniziano, le cose
che finiscono soltanto e non sono
la fine dell’altro
NICOLA GARDINI

- Le cose che non ci sono vanno pensate
- Va pensata la vita e la scrittura!
- Allora, non ci sono?
- Ci sono quando la mano comincia
a finire. È tutto un salire per gradi.
- Per esempio?
- Finalmente anche la direzione
del sole, alla mattina, si ferma
ben bene sulla tua guancia
- Qual è il significato?
- Che il sole smette di far luce
non c’è, va pensato come
il grano che ti preme in bocca,
che ci fa mangiare.

(da Quattro giovin/astri, Kolibris, Bologna 2010)

Anna Ruotolo (1985) è nata e vive a Maddaloni, in provincia di Caserta. Con le sue poesie ha vinto vari premi nazionali ed internazionali giovanili (tra gli altri, il “Premio Turoldo” 2009 nella sez. under 25). Suoi testi sono apparsi nella rivista internazionale “Poesia” di Crocetti nel numero di luglio/agosto 2009, ne “Il Foglio Volante – La flugfolio” (ed. Eva), ne “Il Foglio Clandestino“, in “Capoverso”, in “Poeti e Poesia”, nel quotidiano “Il Tempo” e nella rivista italo-newyorkese “Italian Poetry Review”, anno 2009, num. 4, (Columbia University, The Italian Academy for Advanced Studies in America and Fordham University). Un testo tradotto in spagnolo da Jesús Belotto è pubblicato nel num. 4 della rivista internazionale online “Poe +”. Dal 2010 fa parte della redazione del sito e progetto “I giovin/astri di Kolibris”. È presente nelle antologie poetiche “Il Fiore” 2008 (dall’omonimo premio letterario) ,“Corale per opera prima” (LietoColle, Faloppio 2010) e “Quattro giovin/astri” (Kolibris, Bologna 2010).“Secondi luce” (Faloppio, LietoColle 2009 – premio “Silvia Raimondo” 2009) è la sua opera prima.