giovedì 26 giugno 2008

I senza terra

-Creonte : "-Chi sa se laggiù tutto questo è santo? Giammai il nemico, nemmeno morto, è un amico."
Antigone: "-Non per condividere l'odio, ma l'amore, io sono nata."

Scrive Simon Weil a proposito di questi versi dell'Antigone di Sofocle:

"Questo verso di Antigone è splendido, ma la replica di Creonte è più splendida ancora, perchè mostra che coloro che partecipano soltanto dell'amore e non dell'odio appartengono a un altro mondo e non hanno da aspettarsi da questo che la morte violenta:

Creonte (v. 525): Discendi dunque laggiù, e se hai bisogno d'amare, ama quelli laggiù."

Antigone va incontro alla morte perchè ha tentato di seppellire il corpo del fratello che ha combattuto al fianco dei nemici della patria. Ancora una volta nella tradizione classica torna il problema delle spoglie e del corpo. Se Priamo si era spinto nel campo nemico per richiedere la salma del figlio Ettore e fondare su quello la necessità del rito di sepoltura e la conseguente dignità delle nazioni, Antigone cerca di dare sepoltura al fratello-nemico nella terra amica. Di fatto se in Omero l'equilibrio delle forze opposte, quello di conservazione (il padre Priamo che richiede la salma del figlio), e di dispersione (Achille che vuole vedere il corpo di Ettore mangiato dai cani), è dato dalla restituzione finale del corpo dell'eroe troiano in seno alla propria patria, in Sofocle abbiamo un rovesciamento di questo rapporto. In Sofocle è il fratello nemico che deve essere sotterrato per rimarcare l'amore per lo straniero. La forza straniera, la dispersione del nuovo, viene accolto nel grembo della propria terra. Antigone riserva a questa forza una cura amorevole. La nazione è minacciata dal suo gesto che introduce logiche nuove. Per questo suo estremo atto d'amore è condannata a vivere sotto terra, "tra la vita e la morte" in una situazione di estranietà totale.

Antigone ": Ahimè, son derisa!
In nome degli dei aviti,
ancor morta non sono:
perchè tu già m'insulti?
O città, e voi, di questa città
uomini doviziosi;
ah, fonti dircèe
e tu, sacra terra tebana
fiorente di carri:
voi almeno prendo a testimoni
che illacrimata dai miei
per leggi inaudite
a sepolcrale carcere,
a tomba strana mi avvio.
Me infelice,
non tra i vivi,
non tra i morti,
ascolta sarò"

Antigone è colei che ha sacrificato la logica nazionale. E' lei l'emblema del nuovo corpo, è portatrice di un nuovo liguaggio. Il suo gesto dice la Weil è il gesto della "persona pura" e dell'amore assoluto. Chi pratica l'amore per lo straniero, espone la nazione al rischio. Ma è proprio il rischio la parte mobile della lingua che fonda le terre a venire. Chi nega questo elemento della storia va incontro all'annichilimento.

Antigone si toglie la vita, avendo perso la sua identità sociale e il corpo del fratello viene comunque mangiato dagli uccelli. Con grande forza poetica scrive Sofocle che i pezzi di carne del cadavere cadono dai loro becchi sul fuoco dei sacerdoti, emanando tutto intorno un forte odore, presago di tragedia.

giovedì 5 giugno 2008

Staffette di luce. "Ogni cinque bracciate" di Vincenzo M. Frungillo


Sono alcuni anni che si discute sul ritorno della poesia epica, ossia di un dettato poetico che racconti fatti, eventi, gesta di uomini, di eroi. Ma ciò è stato reso poco credibile dalla mancanza, non tanto di eventi significativi e di figure che potessero essere rappresentate poeticamente, ma soprattutto dalla potenza stessa della parola, in quanto o atrofizzata nel linguaggio ordinario e dei mass-media o ripiegata su stessa alla ricerca dei più nascosti meandri dell’interiorità.
Un esempio recente di una poesia che si apre al mondo e cerca di esplorarlo è il poema in ottave Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo, finalista dell’edizione 2007 del premio Antonio Delfini, di cui è stato pubblicato un estratto, curato da Enzo Cucchi, dalla casa editrice Mazzoli di Modena, accompagnato da disegni di Paola Pezzi. Il poemetto ha come tema centrale la parabola umana e sportiva della squadra di nuoto femminile della DDR che, a cavallo degli anni settanta e ottanta, inanellò una serie di vittorie e di record che stupirono il mondo, per poi scoprire che tali vittorie erano dovute prevalentemente all’uso di sostanze dopanti. Ciò nondimeno il fascino di quella avventura umana è rimasto e l’autore ce lo ripropone, con occhio attento e partecipe - “Ecco stanno tornando in quel punto, sole, all’apice della luce.” - come simboli di un mondo, quello comunista, uscito sconfitto dallo scontro con l’occidente, ma anche come simboli di tutti gli uomini e le donne che si trovano travolti dalle vicende storiche e che loro malgrado ne assurgono a emblemi negativi. Nelle storie di Ute, Karla, Lampe e Renate, le quattro staffettiste della nazionale della Germania Est protagoniste del poemetto, possiamo riconoscere le vicende di tutti quelle donne e quegli uomini che la storia ha prima esaltato e portato alla gloria e poi lasciato ai margini, dimenticati perché o imbarazzanti o perché portatori di ricordi dolorosi. Spetta al poeta, come un novello pescatore di perle, cercarle nel mare del passato, rendere loro la voce, salvarle dall’oblio, ridare loro il respiro che avevano perso, farle nuotare di nuovo nella luce della parola poetica “Senza il pregiudizio della parte sbagliata,/ ora nuota nell’acqua della piscina/ trasparente a se stessa, ma affilata nella bracciata/ sulla superficie che brilla come di brina.”

domenica 1 giugno 2008

Gangster story. L'ultimo dei bravi ragazzi


La gangster story non è morta continua a vivere con i suoi pregi e i suoi difetti. Ne è testimone L’ultimo dei bravi ragazzi (Newton Compton, traduzione di Eleonara Bosi e Roberto Galofaro) primo romanzo di John Carbone, autore nato negli Stati Uniti, ma che vive e lavora in Europa. L’ultimo dei bravi ragazzi è un romanzo di mafia, raccontato in prima persona, come nella migliore tradizione del noir americano, basta solo ricordare i libri di Jim Thompson agghiaccianti apologhi di menti criminali che raccontano in soggettiva la loro follia omicida. Il protagonista e io narrante è Marco Bolzani, giovane di Brooklyn, che, dopo l’ennesima lite con il padre, scappa da casa e va per strada, qui sente il richiamo affascinante del crimine, dei soldi facili e del loro potere. Insieme ad altri sei amici dà vita ad una gang dedita allo spaccio di marijuana. Sono gli anni Settanta e anche la criminalità sta cambiando perché il commercio di sostanze stupefacenti si ingrandisce, sul mercato ora c’è la cocaina e il primo che se ne assicurerà lo smercio diventerà ricco e potente al di là di ogni immaginazione. I sette bravi ragazzi, quattro italiani e tre irlandesi, entrano in affari con lo zio Tony, mafioso senza scrupoli che li renderà ricchi ma che li porterà al punto di non ritorno, quando la lotta per il potere, la concorrenza spietata degli altri spacciatori, le forze oscure che si muovono dietro le quinte romperanno definitivamente gli equilibri interni alla banda. In questa storia sono presenti tutti gli ingredienti classici del genere: gioventù segnata dalla vita in strada, il patto d’amicizia e lealtà dei membri della banda, la scalata al successo criminale e la inevitabile rovina, accompagnata da omicidi, tradimenti, il tutto condito da un linguaggio asciutto, scarno, non esente però da una certa stereotipia di lessico e di immagini.
Perché leggiamo ancora queste storie? Perché, pur sapendo che ripetono trame e situazioni già note, continuano ad affascinarci? Forse perché la gangster story è l’unico genere letterario che concentra tutti insieme i temi della violenza, dell’amore, dell’amicizia, dell’ambizione, del tradimento, della nemesi e del riscatto, del destino, che può avere la forma di una pallottola alle spalle o di un incontro sbagliato; in poche parole quei temi che fondano la vita e la morte di ogni uomo, che, codificati dai tragici greci, percorrono come un fiume carsico la storia della letteratura occidentale e che in un’epoca di povertà culturale e letteraria riemergono nel romanzo di genere. In attesa di tempi migliori può bastare? Chi può dirlo!