domenica 3 febbraio 2013

La terra franata dei nomi. Gabriele Gabbia


È tardi – è l’ora/ della cenere./ Origini e miserie/ disciolgono il bersaglio./ Assembrano/ elise presenze.// E’ tempo/ di subire il tempo. La bella silloge d’esordio di Gabriele Gabbia, La terra franata dei nomi (L’arcolaio, 2011) è un libro per frammenti, certo non una novità nel panorama poetico -se poi la poesia debba essere novità e nuova questo è tutto da discutere - ma qui il frammento non ha nulla di vago o di solamente lirico, ha la forza e la valenza di una scheggia che vuole e spesso riesce a rimanere conficcata nella sostanza dell’essere, nonostante l’immensa, l’immane frana dell’esistenza e della parola che tende disperatamente di dirla. Il frammento è la scheggia dell’io che prende parola e scopre il nulla che lo costituisce, la frazione, la sottrazione che la coscienza di sé comporta di fronte alla massiccia opacità dell’essere. E il viaggio destinale del dire poetico inizia dalle viscere (il tema del corpo è uno dei luoghi centrali del libro), dall'albore di ogni vita, dalle proprio ventre e da quello materno come indica la prima sezione Diatribe dal ventre. L’esistenza si presenta sin dall’origine -sconosciuta perché già da sempre prima di noi- come diatriba, lotta, polemos (Dimora negli intestini/ la terra franata dei nomi.// Là, dove nessuno sa.// Dove non c’è dove/ ogni cosa/ è radice d’abisso.//  Là fiorì il tuo nome.), ma anche come una dispersione, perché proviene da un dove in cui non c’è dove, da un silenzio che ci precede e che può offrirsi come intuizione o balbettio, mai come certezza salvifica. E qui si può cogliere anche un segreto rapporto dell’autore con alcune esperienze fondamentali del ‘900 poetico, come  Celan e soprattutto Mandel’stam, quasi riecheggiato in un frammento in particolare ( Ho sempre guardato, guardato,/dal nulla da cui vedo/ i corpi della soglia, laddove sono rimasto a fissarne/ la fissità inquieta/ d’un nulla. Invece in Mandel’stam  A tu per tu, il gelo io fisso:/ lui fissa il nulla ed io fisso dal nulla). In questo risalire alle fonti più estreme e limpide del novecento, Gabbia giunge alla soglia ultima di dove è giunta la poesia del secolo scorso: guardare le cose, il mondo, dal nulla, ecco questo è il grado zero raggiunto dal novecento come epoca e coscienza storica. Ma come ricostruire, riorganizzare un discorso che è sprofondato dall’altra parte del reale, in ciò che non è? E qui la poesia di Gabbia tenta una via – anche linguisticamente con  l’uso di parole  ricercate e desuete o con la dislocazione inusuale delle parole nel verso, che indica una volontà di reazione allo zero linguistico oltre che ontologico raggiunto dalla nostra epoca-  un sentiero che è quello della costruzione di una identità a partire dal frammento che siamo, come tessere di un puzzle che devono essere ricomposte, forse con la consapevolezza che ne mancherà sempre qualcuna, la definitiva che fa tornare i conti. Ma  una precaria, provvisoria articolazione del dire, per Gabbia, sembra possibile, proprio a partire da ciò che è diventato, forse per la sua precedente eccessiva sovresposizione, un tabù: l’io. E Io è anche il titolo dell’ultima sezione  dove emerge anche l’aspetto più originale dell’opera, ossia l’io non è solo un’identità, ma un luogo, un brano del nulla, una radura in cui si incontrano i vari elementi del mondo, in cui si accolgono le ombre, gli spettri che ci abitano (Io sarò voi-/ i morti, tutti,/ noi, voi/ dopo di me, quando/ solo, soffierò/ lo sguardo, da ciascuno/ di voi tutti/ su ognuno/ di me.), in cui si apre una relazione con la radice finita e mortale del nostro stare al mondo, che ci ricorda, nell’ascolto di un attimo, in un tempo senza tempo, che, se siamo veramente qualcosa, siamo non uno,  un semplice io irrelato, ma anche un tu e quindi tutti (Il battito della stanza/ coagulato, si fermava,/ ci assaliva, un tempo/ senza tempo, un ascolto/ in ascesa. Il rumore/ era un cerchio lontano. Tutto/era fermo, mentre tu, procedevi - / eri tutti). Da qui forse ripartire, o meglio, restare?

Francesco Filia