lunedì 31 ottobre 2011

XI Quaderno di Poesia Contemporanea da Franco Buffoni (Nazione Indiana)

NUOVI INQUADERNATI 1.
AZZURRA D’AGOSTINO

Questo inverno indifendibile
questo lungo inverno e chi lo abita
si confondono nel niente della neve
o sui segni che il tronco della betulla
mostra nella luce più corta dell’anno.

È l’estrema notte, l’aspra notte impronunciabile
impigliata nei ricami del gelo che decifriamo
a stento. Il sambuco e l’agrifoglio, vedili, come sfondano
di verde il vetro della nebbia il segreto del sopportare
anzi: del portare l’austerità del freddo a linfe morbide
trasformando quel poco d’alba in frutti carnosi.

Quanta sete tra i nostri simili, che lunga malattia
ci affligge – questo è chiaro nel vedere come sta
composta la zolla riversa, il passero arruffato annodato
al ramo spoglio, il vaglio delle ore che fa il gatto alla finestra.

*

Come molto più grande sembra la montagna
con l’accenno di neve che appena, sulle coste,
la rivela. Uno scoglio immenso solo di poco
invecchiato, un broglio di nuvole intorno, l’inverno
che scivola nel buco della bocca fino al cuore
ma non lo gela. Non si è al sicuro lo stesso qui
da noi, anche se resta casa la casa e albero l’albero
anche se distinguiamo ancora i confini delle cose
il secco delle rose dal ginepro aspro e dal fango.
A pensarci, niente è un sollievo: non lo è il bianco
né la luce, né il cielo che rispunta chiaro e poi s’allunga.
Quanta bellezza in questo silenzio, che solitudine
immensa nella distanza, nella remotissima presenza
che fa di noi un altro qualunque e non lo consola.

*

Si sposta l’ombra che dev’esserci di luna che l’albero torto sembra
che la insegua mentre di notte sento le ghiande
cadere sul tetto di lamiera quasi uno sgocciolare
dei suoi pensieri, un lasciarsi andare nel mondo così
in un silenzio che non lo sente nessuno ed è bello
credere di entrare io nel buio della sua solitudine
o lui nel segreto della mia, tre rimbalzi e via,
dall’albero il frutto è in terra passando per le pieghe
del mio orecchio fino al cuore, essere in due
e sapersi come uno, il volo breve che parla di stagioni,
tempi, conoscere il seccarsi nell’umido della linfa,
l’indovinare il destino, essere vivi quando essere vivi
è capirsi.



*

L’Appennino e la primavera

Ora che ha smesso di piovere
anche noi siamo soli. Il temporale
lascia resti potenti: frane, piene,
alberi divelti, crolli, fango, gemme.
Ha sede nel sistema nervoso centrale,
dicono, l’odore dei boschi e le rondini
così distinguono la salsedine dai pini
dalle polveri africane. Diecimila chilometri
per tornare qui, ancora, gruppi piccoli
su cui buttare uno sguardo distratto.
Più sotto si inciampa in qualche albero
in fiore, in animali che alla luce dei fari
pestano cogli zoccoli l’asfalto solo un salto
e via, risucchiati da campi che sappiamo
appena misurare. Aironi che vanno o restano,
e anche i pesci che muoiono o vivono, istrici,
lupi, le malattie delle querce, delle api.
Dall’altra valle un cane abbaia
la nebbia scopre i sassi, un grumo di case
un campanile, una curva, un’erba rampicante
una goccia sulle foglie che scivola e poi cade.

*

Sta per arrivare la stagione dei canti notturni.
Di là, dietro, c’è un pino dove si nascondono gli uccelli
e nel buio costruiscono cattedrali nell’aria. Quasi
non lo si crede vero. Avevamo anche pensato cose
irreali, l’idea dei nemici, una rivolta confusa, astratta.
Uniformi che non conosciamo, parole d’ordine
irrequiete, calcoli. Ma questo non ci riguarda davvero.
La foglia descrive l’aria, un peso enorme che leggi
spiegano con esattezza. L’aria parla del buio
dove sta la radice, un nero di terra che fa con la luce
boschi, spianate d’ossigeno che crediamo per noi.
Sempre amavamo l’idea di avere tutto. Di saperlo.
Ma sulla terra frana un cielo di polveri, i dispersi
non li amiamo per davvero, ci punge la colpa, ma solo
davanti al cane che ci chiama, a volte, ci pieghiamo.



*

Lago di Suviana

Una passeggiata poco prima di buio, fiori che non si sfanno
nella pineta scricchiolante e un bacino
d’acqua scura dove tremola il doppio del mondo.
Nei tuffi del cane, nei bastoni levati per gioco,
gente coi piedi a bagno, pescatori,
un ragazzino nel silenzio delle fronde.
Così è questo, l’altro volto del male
un tempo breve, un sollievo elementare.

*

Nota

Azzurra D’Agostino ha pubblicato le raccolte poetiche D’in nci’un là (I Quaderni del Battello Ebbro, 2003), Con ordine (Lietocolle, 2005); D’aria sottile (Transeuropa, 2011). Suoi racconti e interventi critici sono stati pubblicati su varie riviste e antologie (tra cui Nuovi Argomenti vol. 51 – Mondadori, Almanacco dello specchio 2009 – Mondadori, Bloggirls – Mondadori, Best off 2006 – minimum fax e In un gorgo di fedeltà, interviste a venti poeti italiani- Il ponte del sale). È giornalista pubblicista e scrive per il teatro.

venerdì 14 ottobre 2011

Il margine di una città






Prefazione di Raffaele Piazza a Il margine di una città (Gallarate marzo 2004 – Napoli ottobre 2007) , Il Laboratorio, 2008.


Originale a livello formale e affascinante a livello di contenuti, questo poemetto di Francesco Filia, composto da cinquantacinque brevi frammenti ed un postscriptum finale. I segmenti di cui è composto il poemetto sono caratterizzati da una forte coesione e da un grande armonia nell’insieme, e possono essere letti simili a tessere di un mosaico ben articolato e strutturato nella sua concezione e fortemente unitario. Come dice lo stesso autore l’opera ha un andamento circolare e il p.s. finale è rivolto al Francesco che apre il primo verso del primo frammento. Del resto l’insieme è caratterizzato da un’architettura complessa e curata nei minimi particolari: non a caso il poeta ha lavorato alla composizione per più di tre anni ottenendo così il massimo della compiutezza, a dimostrazione di una matura coscienza letteraria. Il genere del poemetto, nella poesia italiana contemporanea, non è molto praticato: nella miriade di opere poetiche date alle stampe dai moltissimi poeti ci si trova davanti soprattutto a raccolte di poesia più che a poemetti; tuttavia non mancano autori illustri della poesia italiana postmoderna, che hanno scritto notevoli poemi e poemetti: per esempio Mario Luzi, con Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini, Maria Luisa Spaziani con Giovanna D’Arco, Franco Loi con L’Anghèl e Ottiero Ottieri con L’infermiera di Pisa. Ciò dimostra che il genere è ancora vivo e che può essere praticato con ottimi esiti anche da giovani autori come Filia.

Il filo rosso che lega tra loro le parti dell’opera è da individuare nella ricerca di un senso della vita nel tempo e nello spazio, vissuti con estrema tensione dall’Autore. Il contesto in cui l’io poetante (del tutto antilirico) si trova è quello urbano, ambiente che Filia osserva in modo capillare, cercando in tutti i modi di armonizzarsi con esso, interiorizzando la realtà che lo circonda, spazio materiale, fatto di strade, cemento, acciaio, vicoli, silos, lampioni, mentre poco spazio viene lasciato ad elementi naturalistici, tranne qualche squarcio di cielo. Come pure sono assai rare le figure di persone che s’inseriscono nel contesto, per usare una metafora teatrale, nello spazio scenico: viene menzionato nel primo frammento un migliore amico, ma, per il resto, l’io poetante è fortemente autocentrato nelle sue riflessioni. Lo stile del tessuto linguistico è molto rarefatto, in una scrittura complessa, fortemente densa a livello metaforico e semantico. Il poeta vive la sua tensione con ciò che lo circonda con un forte senso della corporeità: “…/Ogni cosa è già accaduta e le gambe hanno messo radici/ su questo muro. Ora non posso più scendere, posso/ solo spaccarmi.//” leggiamo nel terzo frammento. Tutto è in bilico tra gioia e dolore, e c’è salvezza proprio nel pronunciare la parola poetica. La scrittura è tesa, scattante e icastica e molto ben sorvegliata e c’è una consapevolezza dei limiti del cronotopo. Dal baratro del thanatos si riesce a emergere, fino alla luce con un felice esercizio di conoscenza: “/… eppure qualcosa regge nella voragine./ Ora ricordo tutto! L’intermezzo che ci vide/ nella stanza la luce che ci illuminò/ il libro sul tavolo la disciplina/ della notte: quello sfogliare le pagine/ e guardare dalla finestra esterrefatti./ L’attimo in cui fummo mortali.//” (IX frammento). Proprio la disciplina che il poeta nomina esprime che si può mettere ordine nella vita che qui coincide, in un felice connubio, con la poesia.

L’idea di margine nel poemetto è intesa come marginalità, ma anche come delimitazione, finitezza e compiutezza di un’esistenza che cerca e, talvolta, trova la sua forma; il margine è anche il territorio tra detto e non detto in uno scavo in se stesso, da parte dell’Autore, da cui sgorga la parola poetica. La salvezza si può trovare nonostante la precarietà della vita umana e il poeta, nel suo poiein, a volte riflette sulla parola stessa, in un gioco ben riuscito: “/Resta una retta che separa le parole da questo tempo/ e poi un altro tempo che le contenga. Ritorna/ come una fitta nelle tempie lo spezzarsi dei rami/ sotto la tempesta, l’esattezza di un soffio di vento/ che ci trapassa e ci rende felici/ finiti//” (XIX frammento). Il poeta interiorizza la città che è calata inevitabilmente nel tempo: “/Città perlustrata mese per mese, metro/ per metro, anno per anno/ tra sentinelle, pali della luce e orme/ disciolte al sole. S’incontrano/ pensieri e labbra, parole ripetute all’infinito./ Non avremo paura di scandire i nostri nomi.//”( XXXI frammento). E’ tutto un vagare, un viaggio percepito con i sensi ed interiorizzato dall’Autore che cerca di comunicare con se stesso e, a volte, con un tu presunto. Fondamentale e veramente alto il frammento non numerato che chiude il lavoro di Filia, il postscriptum: “/Non so se puoi ascoltarmi…/ ma la nettezza della luce su queste mura/ il respiro lento del giardino lo stacco/ del salto dopo la rincorsa danno i brividi. / E’ questo che volevo dirti da trent’anni o giù di lì/ ma poi le parole non sempre bastano a definire/ il margine di un’esistenza, il rigore/ del mio e del tuo nome pronunciato…//”. Qui il poeta si rivolge ad un “tu” non precisato in un’atmosfera di sospensione e malia e l’io poetante si chiede se il suo interlocutore potrà ascoltarlo in un’ambientazione di luci e brividi, di accensioni veramente notevoli.

Connessa con il testo è la serie a tecnica mista (collage e acrilico su carta) L’approdo del pittore Pasquale Coppola in cui, l’autore, prendendo spunto dal fenomeno delle migrazioni, esprime il senso angoscioso e irrisolto del viaggiare dell’uomo come metafora dell’esistenza. L’artista, come in precedenti opere, utilizza vari registri espressivi, arrivando a fonderli in un tutt’uno che mostra in maniera mirabile la condizione umana, il caos ad essa connaturato, con accenti di commosso lirismo.
I lavori bene s’intonano con il risultato finale dell’opera, pur essendone indipendenti. Essi muovono da una matrice espressionista e, al di là della figurazione, sono caratterizzati da un acceso cromatismo e da una costante sensibilità alla materia e al segno. L’elemento figurativo degli occhi che scrutano una realtà tragica di uomini, donne in balia degli eventi, realtà del resto guardata, contemplata anche dal poeta con la sua opera, lascia un’impronta fortemente drammatica ma nello stesso tempo esprime con forza la speranza della luce.

Raffaele Piazza

venerdì 7 ottobre 2011

Fanciulli sulla via maestra






(Ripubblico questa recensione scritta nel 2003 e comparsa per la prima volta sul sito Poiein)




La raccolta di Vincenzo M. Frungillo "Fanciulli sulla via maestra" (Palomar, 2002) fa sorgere una domanda sin dalla copertina, infatti in essa è presente la foto di un ragazzo in primo piano con il viso sporco, come di chi è appena uscito da un'avventura tipica dell'età preadolescenziale, e sullo sfondo una serie di manichini rotti gettati tutt'intorno. Perché questa foto di un solo ragazzo e non di più fanciulli come invece il titolo suggerisce? Forse la risposta a questa domanda potrà essere data solo dopo un’attenta lettura del libro, perché ne rappresenta uno dei nodi centrali.
Il libro è strutturato in due parti, la prima che comprende poesie dal 1994 al 2001, la seconda che è composta testi del 2000 e del 2001 ed è intitolata "Poesie civili per la città spaziale". La prima parte è quella che comprende la maggior parte dei testi ed è articolata a sua volta in 4 sezioni (Fanciulli sulla via maestra, Piccoli riti di Ventotene, Il giorno della nostra defezione ed Epica del bianco).
La caratteristica della maggior parte dei versi di questo libro è che non fuggono dalla pagina, anzi, con la loro cadenza epica, conferita da un dettato del verso prevalentemente lungo e disteso e dall'uso parco dell'enjambement, invitano il lettore a soffermarsi su di essi e a riconoscere lo spazio che intendono aprire. Apertura e riconoscimento sono due termini tra i quali oscillano quasi tutte le poesie di questa raccolta; e l'oscillazione è il modo in cui il movimento si manifesta in questi versi ed implica, a sua volta, una connotazione etica nella misura dell'oscillazione stessa (Riconoscere la misura delle onde…/ quelle del mare…quelle del mare…/ …del vostro oscillare…"Etica del bianco"); il senso della misura, inoltre, può essere dato, in alcune di queste poesie, da un gesto agonico che saggia le possibilità del corpo (Affonda il braccio nella vasca/ per saggiare il tutto pieno/ e il senso della misura. "La bracciata di Daniela").
L'apertura alla quale prima si è accennato può essere intesa come l'apriori dal quale parte la poesia, la sua condizione di possibilità (Ogni granello, ogni grano duro sotto il polpastrello/ è necessario per chiudere il cerchio,/ e noi lo teniamo ancora aperto. "Riverberi") ed è dalla presa di coscienza di ciò che nasce il dramma (noi siamo ciò che non abbiamo scelto! "Tutti i bersagli hanno colpito nel segno") che la poesia tenta di ricomporre (anche attraverso la figura di una donna Tutto questo è ancora da sopportare:/ il suo silenzio come un parto,/ tanta fragilità trattenuta in un solo corpo,/ questo dramma ricomposto. "Acquamorta"), ma dalla presa di coscienza nasce anche la dignità di chi sa che non si può vivere senza accettare la sfida che ogni esistenza è (Noi siamo nell'aria;/ e ogni parola è carezza/ alla serietà di queste mura./ Non importa chi di noi abbia accettato la sfida. "Non importa chi di noi ha accettato la sfida"). Proprio lo sforzo, che chi scrive compie per corrispondere all'apertura in cui ogni esistenza insiste (Che questo collasso non vi rapisca mai del tutto/ questo è ciò che sopporta il mio verso,/ come una cucitura, una molla tesa/ per lo spazio che dilata. "Riverberi"), impone un imperativo etico: il riconoscimento del luogo, anche storico, che ci è consegnato. Tale riconoscimento può avvenire solo attraverso un'opera di orientamento nello spazio, una topografia, che ordini la materia grezza di una vita (…la mia poesia è una passeggiata muta/ sottratta alle offese di questa strada;/ la mia poesia è come una danza;/ ad ogni passo indietro uno che avanza,/ e adesso che è intatta…la conservo come una mappa. "Sanguina l'ennesima fratellanza"). Questa topografia, che diventa a sua volta topologia, ha dei luoghi geografici ben precisi: Napoli ed i suoi quartieri, l'Arenaccia, il teatro delle avventure infantili e dei suoi drammi (Era la pietra netta e dura -buona per la guainella-/ ricavata dalla polvere di cenere/ ammassata nelle parti fonde del quartiere. "Non si sevizia un paperino"); il centro storico, delimitato dalle porte che racchiudevano la città antica, come luogo in cui, forse, finalmente avviene il riconoscimento tra la città e chi la abita (La città ora t'assomiglia,/ s'inscrive nel tuo corpo la collina,/ l'aria trattenuta e poi restituita,/ t'assomiglia questa salita/ e il ritmo di queste mura "La città spaziale"); i Campi Flegrei, non più città e non ancora paese, dove il passato remoto ritorna minaccioso (Che destino amaro/ abitare queste spiagge deserte/ allungate sotto il sole,/ minacciose,), ma anche luogo dove viene scandita la sintassi dell'amore (Lei è orfana degli angoli di pietra rosa/ delle anfore mai dichiarate, lei è orfana dell'anfiteatro Flavio/ che ha colto l'eco del primo bacio,/ di un amore che sperava già consumato. "Acquamorta"; L'occhio ha stretto un patto/ con l'altro occhio e qualcuno/ ne è rimasto escluso./ Tutti, proprio tutti, avrebbero giurato/ che saremmo finiti insieme,/ tutti dicevano che avevamo lo stesso sguardo. "Filiazione"). In questa topografia non manca certo lo spazio del viaggio agli estremi opposti, il nord come dimensione dell'esilio (Cerca l'esilio l'uomo a nord del mondo "In memoria di Joseph Brodsky"; Fitta la ronda del distacco in gocce di piovasco/ sui traffici del nord, "Poesie del distacco"), che però è indice di un esilio ben più ampio, quello del mondo, che ha connotazioni anche psicologiche, l'impossibilità di sperimentare il tragico (Esauriti tutti i dolori superflui/ ci resta solo quello necessario./ Sotto forma di perdono, così esiliato il mondo, sa di distico alleggerito./ "Non importa chi di noi ha accettato la sfida". morire tragicamente!, ripete tra sé e sé,/ poi s'interrompe per sentire il suo battito calare/ (l'ha già fatto altre volte)/ lei, senza eccessivo movimento,/ caccia una gomma dalla borsa e inizia a masticare. "Movimento"); il sud come luogo in cui il paesaggio si cristallizza in forme pre-vitali e il movimento ritorna da dove è venuto, all'inerte, che ha in questo caso il colore del bianco (Al centro/ del nostro sforzo inerme/ con tutto l'arco d'un movimento/ siamo uniti in cromatico ventaglio/ da me a loro da loro a questo bianco; "Chott el-Jerid"); infine il viaggio alla volta dell'isola come luogo di un impossibile Eden (ho disposto tutto, ogni singolo gesto,/ ai piedi del tuo letto/ e tu riapparivi ogni sera/ per cancellare anche me/ l'ultimo oggetto. "Piccoli riti di Ventotene").
E' tra queste coordinate geografiche che si innesta la dimensione epica della poesia di Frungillo, il far parte di un per noi, di una koinè, una delle ennesime che si ripetono ogni volta nel tempo, ma questo ripetersi non gli toglie certo drammaticità (Sanguina l'ennesima fratellanza) perché è sì uguale alle precedenti nella struttura, come anche le parole dei poeti che le hanno cantate (I poeti hanno dato voce ad altri poeti,/ si sono passati le parole di bocca in bocca/ ma lei l'hanno lasciata sola/ su chilometri e chilometri di terra morta; "Acquamorta"), ma diversa perché i nomi cambiano e ci sono altre solitudini da dire, che aprono un destino che non può essere intercambiabile, perché ogni nome chiama in causa proprio te e non un altro. E' per tale ragione che queste poesie esigono un'eticità anche dal lettore, infatti il compito di chi legge non è tentare un impossibile coinvolgimento simpatetico, ma è quello di constatare un distanza tra chi legge, appunto, e le pagine di questo libro, che non ammicca al pubblico, ma salva nomi (Daniela, Sergio, Duccio, Francesco, Massimo, Alfonso, F.P. e suo padre) ed eventi limite (Nella solita vergognosa estate,/ così esposti a questo niente,/ è ora evidente che nessuno può essere innocente. "Ogni perla ha un suo peso"; Sono poche le cose che ancora fanno paura,/ si riconoscono nell'imbarazzo delle menti/ mai disposte al dialogo con le ombre. "Si muore." "Sanguina l'ennesima fratellanza") dal tempo che devasta ogni cosa e che, però, ritorna puntualmente nella memoria di chi scrive, non per consolare, ma per ostentare un'assenza irrimediabile (La verità più spietata/ è che mai niente realmente si consuma/ e che tutto il tempo che m'allontana/ riporta i volti a flotte/ che, con la risacca del bel giorno,/ toccano con sempre maggiore precisione/ il cuore. "L'estate di San Martino"). L'assenza è data dalla mancanza di una memoria capace di riannodare il filo che tiene insieme la vita dell'individuo e dell'epoca a cui quest'ultimo appartiene (La ferita che traccia netta la gamba/ non segna l'angoscia/ ma qualcosa che, seppur nuovo,/ è privo di memoria) e al poeta, quindi, non resta che testimoniare questa condizione (-la mia testa come spia/ di un'assenza che non riposa- "La ferita") e tentare di insediarsi, attraverso un procedimento di sottrazione (Chi pensava per inni e colori forti,/ per slanci e grandi salti,/ si rimisura al richiamo che vien di notte. "Ci hanno scoperti Bianca"), in un’eticità più essenziale, simboleggiata dal colore bianco, sintesi di tutti i colori dell'iride (La solitudine ha un suo colore,/ ed è un bene, saperlo alternare/ in faccia a questo mare. "Etica del bianco"), che ha la dimensione di una solitudine essenziale ma, in quanto autenticamente esperita, salvifica (…"non farlo, Enzo, non farlo/ non puoi abbandonare/ la solitudine di una giovinezza in levare/ per seguire una solitudine ancora maggiore". "Poesie del distacco").Il compito che si propone il poeta è, quindi, quello di dire una parola che possa essere il luogo di una salvezza individuale, di chi scrive, e collettiva, la fratellanza a cui si è appartenuti (Vorrei servire questi corpi/ così simili ai loro nomi/ e sapere che se li chiamo/ con una fibra tesa di dolore/ possano un giorno rispondere:/ siamo a portata della tua voce. "Riverberi") ma ormai dispersa tra le necessità del vivere (La spoliazione della giovinezza/ è una condanna alla vita/ (…) Di cosa gioiranno ora/ nei loro uffici di plexiglas,/ e cosa racconteranno/ a chi siede accanto/ in un posto mediamente pagato/ dalla telefonia mobile di Stato. "Poesie del distacco"). Questo è il compito che tocca al superstite dell'epopea giovanile (colui che non fu avvertito in tempo che la giovinezza sarebbe finita: Sotto la cupola della mano/ si piega lo stelo di un dito./ Hai aderito./ Era solo un gioco,/ nascondersi al mondo,/ ma nessuno ti ha avvertito. "Scherzi di bambini"), che con il viso ancora sporco e le ferite sul corpo testimonia l'attimo in cui tutto è avvenuto e con i suoi versi procura spazio alla materia, lenisce le ferite con la garza delle parole che sono, le parole, la speranza di un grembo, dove possa distendersi il piano piatto di questo mondo. O, per richiamare ancora il ragazzo in copertina, la speranza che l'angelo della storia volga il suo sguardo su questa frazione di tempo irrimediabilmente già passata.

Francesco Filia

sabato 1 ottobre 2011

Novembre





Leggo con ritardo il poema di Domenico Cipriano, Novembre – Transeuropa (2010), opera ispirata dal terremoto che sconvolse l’Irpinia e altre zone del sud Italia il 23 novembre del 1980. Questi appunti non vogliono essere una recensione, già altri prima di me hanno recensito egregiamente questo libro e poi sarei fuori tempo massimo visto che la pubblicazione è avvenuta un anno fa, ma le mie vogliono essere le annotazioni di suggestioni che le poesie hanno suscitato in me, anch’io bambino, come l’autore, all’epoca del sisma che si avvertì potentemente anche nella città di Napoli dove vivo.
Dirò subito che questo è un libro che molti di noi “attendevano”, un libro che restituisse il senso di quell’evento a noi che lo subimmo da bambini. E proprio la cifra dell’infanzia mi sembra la chiave d’accesso privilegiata a questi testi. Il terremoto del novembre del 1980 - oltre a essere stato l’evento che ha sconvolto intere popolazioni del sud lasciando su di loro ferite ancora aperte e da questo punto di vista l’opera di Cipriano è epica perché “dice” il sentire di un popolo - è stato per un’intera generazione, che all’epoca era bambina o appena adolescente, un evento paradigmatico, uno spartiacque assoluto tra un prima di tranquilla bambagia familiare e un dopo che non sarebbe stato più lo stesso “stasera ceniamo con la morte, così ogni notte/ ci riuniamo e guardiamo le pietre ancora scosse/ la terra senza volto arresa”. Un evento mitico, dunque, nel senso antico del termine, al tempo stesso “cosa” e “parola” di cui continuare a narrare in maniera ossessiva e rituale (i numeri delle date, delle ore, dei minuti, di cui parla l’autore nella nota), liturgia che ci mantiene in rapporto appunto con il mito fondativo di un’intera generazione e con coloro che ne sono stati sommersi dalle macerie “..altrove erano i corpi senza vita”. E qui sta il paradosso, ciò che ha caratterizzato, fondato per sempre una generazione di campani e lucani è una catastrofe, un evento in cui la terra non fonda, non nutre, non è madre, ma distrugge e uccide con forza matrigna, inghiotte ogni cosa in una voragine abissale; come dice in maniera mirabile il nostro autore nel primo frammento di cui nel dettato si sente, anche attraverso le allitterazioni, il ritmo percussivo “…è fuoco/ la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema/ riempie memoria. Ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.” La terra qui si manifesta come un mostro ctonio che in un corpo a corpo con gli uomini stessi e i suoi manufatti li abbatte, li devasta “..si mostra così la forza/ della terra attaccando i progetti realizzati/ rendendo instabili i traguardi idealizzati”. E del bambino che ha vissuto quell’evento ( qualcuno mi diceva di dormire, ora che/ nel lampo dei miei 10 (dieci) anni affrontavo/ le paure.) è la meraviglia nel senso dell’etimologia greca, thaumázein, lo sgomento che nasce dallo thaûma, dal colpo degli elementi che si manifestano nella loro originarietà terrificante. Di quello sgomento originario Cipriano conserva lo sguardo “solo i bambini riconoscono i gesti degli affetti/ il gioco nel vivere insieme in un non-luogo.”, sguardo indagatore e attonito che si fa parola e illumina con luce vera e spietata anche i gesti del dopo, gesti a volte eroici, a volte quotidiani e compassionevoli, altre volte meschini e criminali ma comunque indelebili nella memoria di chi è rimasto e nelle pietre dei paesi devastati, dei paesi ricostruiti e traditi “sciacalli sui resti delle case, tra i morti/ e le pietre, ma nel freddo si nutrono/ aiuti improvvisati, attrezzati con la forza/ della stessa notte”.
Infine la parola non serve solo a ricordare -attraverso una memoria offesa e affaticata dal dolore che spezza il dettato (si vedano i frequenti enjambement) pur controllatissimo, per mostrarne tutta la straziante veridicità – perché la visione originaria che scaturisce dall’evento del terremoto e dà forza alla parola, fa sì che le cose non siano più quelle che sembravano essere prima, ma siano liberate dal peso del passato, da ciò che pur rimanendo incancellabile deve essere visto nella luce di un futuro, di una vita che su fondamenta diverse e più labili deve continuare ad abitare la stessa terra “la morte ha soggiornato per anni/ ora le nostre case hanno bisogno/ di respiri, abbandonate come sono/ al silenzio. Abbiamo traslocato/ i nostri corpi e lasciato solo/ le crepe nude delle rughe/ a vegliare sulla piazza”.

Francesco Filia