mercoledì 23 maggio 2012

I mondi



Tre punti:
vedere se stessi come una cosa estranea, dimenticare quello che si vede, mantenere lo sguardo.
Oppure soltanto due perché il terzo include il secondo.
                                                                         Kafka

Vivere ed essere ingiusti sono una cosa sola.
                                                                      Nietzsche                                                                                                 

La forma della costa dopo il temporale,/ l’odore della pioggia nell’aria, la mano/ di mio padre che mi porta/ in alto, sulla sabbia,/ se lo stupore nomina le cose/ e le fa essere davvero, mare e casa, darsena e spiaggia, mentre nel sole respiro la mia ansia/ quando l’infanzia cede alla memoria/ la paura, l’origine delle parole, questo squarcio/ pieno di cose che parla dal paesaggio/ di una mattina degli anni Settanta mentre guardo/ il mio volto, nel vetro ancora buio, apparire tra le nubi.  Nel bellissimo libro I mondi, di Guido Mazzoni, Donzelli, 2010,  è  lo stupore che fa le cose davvero cose, senza questo sentire fondamentale, nel senso che fonda il mondo che si apre davanti ai nostri occhi, non c’è autentica comprensione delle cose stesse; è lo stupore che nomina le cose, le mostra nel loro squarcio originario, che le apre al possibile della nostra esperienza, che non è mai nostra propriamente ma è il luogo in cui già siamo, è quella mattina degli anni Settanta che ci ha detto definitivamente chi siamo e continua a parlarci e a interrogarci e a pretendere una risposta, affinché la paura e l’ansia che ci hanno assaliti e che ormai ci costituiscono trovino, se non una risoluzione, un senso, anche se solo provvisorio,  nell’incessante accadere del divenire e di tutto ciò che lo costituisce: eventi, ricordi, sogni, speranze, rimpianti, dolore, morte, gioia. Ciò che lo stupore vede è il fluire incessante e cinicamente innocente degli eventi, il loro perenne apparire e annullarsi, senza un senso e senza un perché. L’unico perché è che non c’è nessun perché, se non l’esistere stesso, la vita che procede incessantemente e nel suo procedere crea e distrugge, dà forma e definisce anche noi, che propriamente non scegliamo, ma siamo agiti da decisioni che accadano in noi come destino e, quando la patina che copre il segreto nulla delle cose si scosta per un attimo, si mostra nella sua nudità, in un mattino allo specchio (Avevo quasi trent’anni; di lì a poco avrei avuto un destino; delle azioni irreversibili mi avrebbero guardato dallo specchio del bagno e sarebbero state me.). Noi siamo quell’errore, quell’ingiustizia che ci ha deciso, ma siamo quell’ingiustizia perché vivere ed essere ingiusti è un’unica cosa per riferirci alla frase nietzschiana in epigrafe al libro. Ma da questa verità sconvolgente non si può distogliere lo sguardo, anzi bisogna fissarla e dimenticare, perché solo dimenticando si può perpetuare quell’errore caotico che la vita è (Ora so che non ha senso rompere/ la miopia che ci fa esistere, vedo diversamente/ le monadi che ci proteggono, le loro trame nel disordine;/ seguo le macchie di luce che il sole/ getta sul paesaggio, il cielo puro e indifferente). La vita è al tempo stesso quest’ottusità che perpetua la perenne ruota delle generazioni e lo sguardo cristallino che, scostando il velo del “reale”, ne coglie l’intima bellezza e inanità. In tal senso i ricordi e i sogni, che popolano gran parte di queste poesie, lungi dall’essere una fuga malinconica o solo una compensazione allucinatoria del dolore e dei desideri mancati della vita, sono il luogo - proprio perché trasformati in parole (poetiche) -  in cui per un momento la vita viene a chiarificazione, anche se parziale, di sé e se, forse, questa chiarificazione non sempre implica un’accettazione totale della vita e del passato, trasformare il così fu in così volli che fosse, rende comunque possibile l’abbandono autentico alla costitutiva nullità dell’esistenza (il peso del tempo disperso che nasce/ di colpo fra i numeri si apre/ una pausa tra gli eventi, e sembra tutto -/ proprio allora le voci/ che chiamano dalla cucina e i soliti pensieri/ sono la realtà, se lo sguardo/ di tutti mi riassorbe/ e questa luce mi annulla col suo velo.). E’ questa la paura che agita i pensieri e  i sogni, la paura umana perché riguarda noi, inumana perché il pericolo rappresenta ciò che  umano non è, una minaccia oscura e silenziosa che ci assale e si insinua negli attimi di pausa dell’esistenza e ci chiama a sé attraverso le ombre di chi già è scomparso, ci ricorda chi siamo veramente, cosa siamo, a nostra volta un’ombra,  e che a questa condizione non c’è rimedio. In alcuni versi sembra quasi risuonare l’antica saggezza del sileno, meglio sarebbe non nascere e una volta nati tornare subito da dove si è venuti, non c’è rimedio appunto, se non quello di non ricordare più, di non essere, di annullarsi nell’incubo che ci costituisce(A volte, prima di dormire, una paura/ inumana mi attraversa e queste cose/ che non riesco a nominare/ mi riportano da voi, quando cala/ uno stupore dal soffitto e nelle mente/ cresce l’onda del sonno dove posso// non esistere mai più, non ricordare.).
Questa condizione è resa linguisticamente anche grazie al “doppio pedale” del verso e della prosa poetica. L’autore riesce ad assecondare il ritmo alterno con cui fluiscono le immagini, che possono disvelarsi nel lampo poetico di un verso o attraverso il più lento articolarsi della prosa, e tale alternarsi del dettato permette di inseguire i fantasmi che ci abitano e che abitano il mondo di cui facciamo parte, e tentare di far svelare loro gli enigmi che, dall’altra parte del reale, ci interpellano.  Il mondo, anzi i mondi, si mostrano come monadi, come centri chiusi in se stessi, delle assolute tautologie (le persone/ parlano nei vagoni in questo lato/ del reale dove tutto risplende/ nella propria tautologia, come ogni vita.), che si presentano nella loro costitutiva solitudine; non solo noi siamo monadi cieche e solitarie, ma il mondo stesso lo è, perché, per rimanere nella terminologia leibniziana, ha perso la ragion sufficiente che legava gli eventi, le cose, i mondi tra loro, in una possibile unità, per mostrarsi nudo e in preda al dissolversi delle cose che si perdono nel silenzio definitivo del tempo, che l’io lirico non può far altro che dire nella parola spietata della poesia (Ogni vita/ è solo se stessa: questa luce/ bassa sulle case, i primi treni/ che aprono il vento e ci sorprendono/ in una specie di torpore,/ la pastiglia nel bicchiere, gli adolescenti,/ nel video che cantano il dolore;/ quando sembra che la mente nasconda a se stessa il gesto di fuggire/ la mattina pura, i fatti nudi,/nel rumore di tutti il tempo che si perde/ per essere solo ciò che siamo adesso,/ per diventare solo solitudine.) .


Francesco Filia

venerdì 11 maggio 2012

Appunti sulla gioia: La divisione della gioia di Italo Testa



La luce bacia il tuo seno pieno,/ offerto per quando aspetteremo/ un frutto a questo lungo amore,/ per quanto in una sala d’attesa/ starai ferma e in una strana luce/ dirai che è il momento, che viene/ l’ora di alzarsi, andare, dividere/la gioia e la pena, farsi altri,/ lasciare che una maschera nuova/ ci guardi, mentre noi commedianti/ ci stringiamo nell’ultima scena. Il tema della gioia è presente con discrezione - come conviene a un sentimento limite, che mostra le cose nella loro originaria gratuità - nella poesia italiana degli ultimi decenni, basti solo ricordare il “partigiano della gioia”  Giorgio Cesarano e il "noi che eravamo per la gioia" del De Angelis di Somiglianze. Forse perché essa rimanda ad un accordo segreto tra il nostro esser finiti, le nostre aspirazioni e l’ordine del mondo, accordo che, se mai c’è o c’è stato, si presenta nel lampo indelebile di un attimo. Inoltre, la presenza della gioia nella poesia, è dovuta allo statuto inquietante di questo stato, infatti ciò che sgomenta di più l’uomo e quindi anche il poeta, non è semplicemente il dolore o il dolore cieco, ma il dolore in rapporto alla possibilità della gioia o alla memoria di una gioia irrimediabilmente perduta; è questa perdita o possibilità estrema della gioia, in relazione a una realtà che puntualmente la smentisce, che rende la condizione umana il luogo del negativo, della disperazione, dell’infelicità, il luogo in cui i commedianti, privi di quella gioia che sanno esistere, si stringono nell’ultima scena.
I versi di La divisione della gioia di Italo Testa, Transeuropa, 2010, colgono quest’inquietudine, infatti,  sono al tempo stesso il luogo di un’epifania, l’attimo della gioia che fa sì che tutto ciò che si mostra non sia più coperto dalla patina del già visto, e di una perdita, perché quell’attimo è irripetibile e si mostra solo in una mancanza incolmabile. Quindi la tonalità emotiva che attraversa le poesie del libro non può che essere un pacato sgomento e, al tempo stesso, un’accettazione sofferta di scoprirsi un niente, una fibra del mondo (abbandonarsi, lasciarsi andare/ tra le erbe matte sul terreno/ essere così, per sempre accolti,/ confusi in quel brillio indistinto:), macchie nere su di un ponte tra due sponde sfocate, sentirsi, essere, quel bilico sul baratro del nulla (appoggiarsi alla balaustra/ con tutto il peso affacciarsi sul mondo/ dall’arcata di un ponte sospeso/ tra due rive, e dire che sì, è vero,/in quel punto non siamo più niente/ solo macchie nere nell’aria,/ anche se gli alberi si piegano/ al vento, solo questo, e nient’altro: ) e di condividere questo stato di creaturalità attonita con un tu, con il tu, con l’altro, la persona amata, la deuterantagonista del dramma dell’esistenza (non lasciare, così mi hai detto,/ che io sia solo mia e mai d’un altro,/ che il tuo volere mi allontani/ da quando un giorno mi hai promesso:), senza la quale le parole dette e il nostro stesso stare al mondo non avrebbero alcun senso (eppure quando ti sei seduta/ nella prima fila e hai visto/che tutto questo non è per noi, che esser due nella platea vuota/ è un caso, un giro di ruota). Per essere quel che siamo, dobbiamo poter condividere anche la lontananza che ci separa da chi ci è vicini, l’ombra che divide in due la stanza che ci ha uniti alla donna amata e che ci divide da lei ( o l’ombra che di spalle divora/ il fianco, il vano di luce/ che ti assale e a morsi ritaglia/ nell’agone della stanza, ritta/ e in attesa, le braccia lungo il corpo,/ i piedi a contatto del suolo,/ la figura messa di traverso/ a misurare il grigio e il bianco,/ a fissare il lampo negativo/ che separa la stanza dal tempo:), che divide la stanza dell’amore dal tempo esterno, uguale e banale, divide la gioia provata con l’altro in cui noi ci rispecchiamo in un attimo irripetibile. Dove l’autenticità è data dalla condivisione della solitudine profonda e strutturale dell’esistere, il silenzio che parla nelle cose nei luoghi che ci circondano (anche così si annega l’ansia/ nello specchio marmoreo di un tavolo,/anche quando la vita si piega/ tra le imposte, sull’impiantito/ verde. O dietro la ghigliottina/ che separa il tempo dalla stanza:). È come se lo stare al mondo fosse una richiesta inesausta e inesaudita di un’origine in cui dimorare (ancora una volta non resta/ che questo aspettare a mani giunte/ farsi inquadrare senza opporre/ resistenza, disarmati/ andare incontro alla luce che viene,/ci disegna e nega, ci assorbe/ in un giorno qualunque, ci dona/un luogo, tra le cose immote,/ o un istante da abitare/ fermi sulla sponda di un balcone,/ di sbieco su una sedia, dormendo,/ pensando, facendo ogni cosa:). Non è un caso, dunque, che la prima sezione del libro sia ambientata all’alba, in un viaggio attraverso paesaggi naturali e postindustriali, un viaggio nell’alba delle cose, nel momento dell’inizio, in cui tutto ha ancora il primo smalto della creazione, per dirla con Pasternak, in cui tutto è ancora possibile e per questo è ancora più angosciante (ogni cosa dalla macchina in transito/ si mostra incomprensibile e chiara:/ la pietraia e i banchi di ghiaia,/ la tua testa assonnata, la mia vita/ guidata oltre il vetro tra le cose/ abbandonate sulle dune erbose:). E come l’alba è un tempo soglia, il Delta, che dà il titolo all’ultima sezione del libro, è un luogo soglia, reale e metaforico, il luogo in cui si incontrano due regioni dell’essere e dove ogni cosa assume una luce particolare, sospesa, sospesa in un luogo che è anche una cifra, un rimando a un che di altro, assente ed enigmatico (verso non so che cielo o sfondo bianco/ di coste smaltate nella sabbia,/ di acque distanti, gelide e infeconde,/ (…) e non avremo imparato niente/ su queste rive eterne/ la stessa onda è nuova/ e l’altra luce non ci sfiora.). L’enigmaticità  è amplificata dal suono di fondo di questi versi, che è caratterizzato da una nota costante e ossessiva, come una canzone dei Joy Division, al cui nome il titolo del libro si ispira liberamente. In ultima analisi, le poesie di quest’opera colgono il paradosso tragico della vita e di tutte le cose, che la gioia, se c’è, è intatta e indivisibile, divisa dalla pena, è una solitudine perfetta, un lampo negli occhi per chi sa comprendere il silenzio, l'unica condivisione possibile (e poi saranno gli altri a contarci, a dire/ che bastava guardarsi/ aver taciuto/ nel momento esatto, fermi a ripetere/ mentalmente il canto, l’elenco dei vivi:). 


Francesco Filia