domenica 30 dicembre 2012

La fuga e la morte


«
 Essere uno con il tutto, questo è il vivere degli dei; questo è il cielo per l'uomo [...] Essere uno con tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua austera corazza, lo spirito umano lo scettro e tutti i pensieri si disperdono innanzi all'immagine del mondo eternamente uno [...] e la ferrea fatalità rinuncia al suo potere e la morte scompare dalla società delle creature e l'indissolubilità e l'eterna giovinezza rendono felice e bello il mondo [...] un dio è l'uomo quando sogna, un mendicante quando riflette [...] »
(Friedrich Hölderlin, Iperione)


"(...) la filosofia non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale soltanto per la filosofia, ma anche per tutto ciò che è mera intrapresa umana. Ormai solo un dio ci può salvare. Ci resta come unica possibilità, quella di preparare nel pensare e nel poetare, una disponibilità all'apparizione del Dio o all'assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo)". Martin Heidegger - Ormai solo un dio ci può salvare

"Tutto è nulla al mondo, anche la mia disperazione, della quale ogni uomo anche savio, ma più tranquillo, e io stesso certamente in un'ora più quieta conoscerò la vanità e l'irragionevolezza e l'immaginario. Misero me, è vano, è un nulla anche questo mio dolore, che in un certo tempo passerà e si annullerà, lasciandomi in vòto universale e in un'indolenza terribile che mi farà capace anche di dolermi". Giacomo Leopardi - Pensieri


"Si continua oggi a parlare del "pensiero poetante" di Hölderlin e di Heidegger. Anche Hölderlin, come Leopardi, dialoga in grande con i Greci; ma anche lui guarda al passato, spera che gli Dèi fuggiti abbiano a tornare. Leopardi, mezzo secolo prima di Nietzsche, sa che gli Dèi non sono dei fuggitivi ma dei morti. Il contenuto del suo pensiero poetante è essenzialmente diverso e l'intreccio di poesia e filosofia apre l'ultima possibilità dell'uomo, alla fine dell'età della tecnica". Emanuele Severino - Il nulla e la poesia

sabato 29 dicembre 2012

Gloria del meriggio


Meriggio

di Gabriele D'Annunzio

A mezzo il giorno
sul Mare etrusco
pallido verdicante
come il dissepolto
bronzo dagli ipogei, grava
la bonaccia. Non bava
di vento intorno
alita. Non trema canna
su la solitaria
spiaggia aspra di rusco,
di ginepri arsi. Non suona
voce, se acolto.
Riga di vele in panna
verso Livorno
biancica. Pel chiaro
silenzio il Capo Corvo
l'isola del Faro
scorgo; e più lontane,
forme d'aria nell'aria,
l'isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona.
Marmorea corona
di minaccevoli punte,
le grandi Alpi Apuane
regnano il regno amaro,
dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salso
stagno. Del marin colore,
per mezzo alle capanne,
per entro alle reti
che pendono dalla croce
degli staggi, si tace.
Come il bronzo sepolcrale
pallida verdica in pace
quella che sorridea.
Quasi letèa,
obliviosa, eguale,
segno non mostra
di corrente, non ruga
d'aura.La fuga
delle due rive
si chiude come in un cerchio
di canne, che circonscrive
l'oblío silente; e le canne
non han susurri. Più foschi
i boschi di San Rossore
fan di sé cupa chiostra;
ma i più lontani,
verso il Gombo, verso il Serchio,
son quasi azzurri.
Dormono i Monti Pisani
coperti da inerti
cumuli di vapore.

Bonaccia, calura,
per ovunque silenzio.
L'Estate si matura
sul mio capo come un pomo
che promesso mi sia,
che cogliere io debba
con la mia mano,
che suggere io debba
con le mie labbra solo.
Perduta è ogni traccia
dell'uomo. Voce non suona,
se ascolto. Ogni duolo
umano m'abbandona.
Non ho più nome.
E sento che il mio vólto
s'indora dell'oro
meridiano,
e che la mia bionda
barba riluce
come la paglia marina;
sento che il lido rigato
con sì delicato
lavoro dell'onda
e dal vento è come
il mio palato, è come
il cavo della mia mano
ove il tatto s'affina.

E la mia forza supina
si stampa nell'arena,
diffondesi nel mare;
e il fiume è la mia vena,
il monte è la mia fronte,
la selva è la mia pube,
la nube è il mio sudore.
E io sono nel fiore
della stiancia, nella scaglia
della pina, nella bacca,
del ginepro: io son nel fuco,
nella paglia marina,
in ogni cosa esigua,
in ogni cosa immane,
nella sabbia contigua,
nelle vette lontane.
Ardo, riluco.
E non ho più nome.
E l'alpi e l'isole e i golfi
e i capi e i fari e i boschi
e le foci ch'io nomai
non han più l'usato nome
che suona in labbra umane.
Non ho più nome nè sorte
tra gli uomini; ma il mio nome
è Meriggio. In tutto io vivo
tacito come la Morte.

E la mia vita è divina.



L'ora del meriggio è l'ora della massima manifestazione degli Dèi nella natura (Medios cum sol accenderit aestus... Numina tum videntur), l'ora assolata e totale. L'ora in cui si esperisce il numinoso, il sentimento del numens praesens, dell'esperienza panica della natura. Ma è anche l'attimo, rovescio della stessa medaglia, in cui si percepisce l'assenza, la fuga degli Dèi e l'eco che ne resta è "una reliquia di vita".


                                                 Gloria del disteso mezzogiorno

                                                         Eugenio Montale


Gloria del disteso mezzogiorno
quand'ombra non rendono gli alberi,
e piú e piú si mostrano d'attorno
per troppa luce, le parvenze, falbe.

Il sole, in alto, - e un secco greto.
Il mio giorno non è dunque passato:
l'ora piú bella è di là dal muretto
che rinchiude in un occaso scialbato.

L'arsura, in giro; un martin pescatore
volteggia s'una reliquia di vita.
La buona pioggia è di là dallo squallore,
ma in attendere è gioia piú compita.

domenica 23 dicembre 2012

Le api migratori - Andrea Raos



«La terra è scossa da vene invisibili/ di materia vuota e di solida/ aria. Massa/ che fibra per fibra. Le sento/ pulsare, che trema, terra mai così solida, mai così ferma/ come quando completamente vibra». Le api migratori (Oèdipus, 2007) siamo noi, non c’è maggior catastrofe e pericolo nella natura dell’uomo (Saremo un solo incubo, uno strazio/ che strega insieme lo stare e l’andare./ Riguarderà l’uomo, /l’amore, l’apertura alare.). Dietro la metafora dello sciame killer, prodotto dall’uomo con un esperimento di laboratorio fuori controllo, c’è il fascino e il terrore che l’umanità prova per se stessa e per la sua hybris e qui sembra risuonare il verso del primo coro dell’Antigone di Sofocle “Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia/ di più inquietante dell’uomo s’aderge”. E come i bambini che hanno gli incubi e sognano i mostri, che sono nient’altro che la proiezione di angosce interiori, così l’umanità adulta, per rispondere all’angoscia che alberga nel suo intimo, la attribuisce a qualcosa di esterno, di elementare e minaccioso. In questo contesto Le api mi hanno portato ad un altro libro, a quel capolavoro della letteratura horror che è The stand (L’ombra dello scorpione) di Stephen King, in cui da un esperimento in laboratorio è prodotto un virus che stermina la quasi totalità della popolazione mondiale. In questi due libri, e in tanta arte del secondo ‘900 e di inizio secolo, c’è l’intuizione che il progresso tecnologico è ciò che, paradossalmente, permette l’irruzione dell’elementare, dell’inquietante, rimossi dalla civiltà, nella nostra esistenza e nella storia e, grazie a questo ritorno dell’elementare - dove la distinzione tra umano tecnologico e animale diventa confusa - tutto si ridetermina, tutto diventa minaccioso e terribile, anche l’amore. Queste sono le prime considerazioni che mi sono venute da fare dopo la lettura dell’opera - libro totale, opera mondo - di Andrea Raos, in cui la hybris, la sproporzione, è resa anche dal dettato poetico: sovrabbondante,  con un‘apertura che va dall'onomatopea passando per l’anacoluto per volgere, in un movimento del testo esso stesso aereo come le api, ad acutezze e bellezze tipicamente liriche che danno estrema intensità al dettato. Un dettato spasmodico doloroso e franto, oggetto esso stesso di una mutazione.
Il vortice delle api, che rimanda ai vortici di atomi di epicurea e lucreziana memoria, è il vortice impazzito dell’umanità alla fine della storia, in cui, in un assurdo equilibrio, pur divorandosi l’un l’altro, i singoli individui della società, si tengono insieme. Ma per quanto tempo ancora? Per quale scopo o fine se non quello di espandersi e distruggere ancora? Le api impazzite, anche nella confusione dei generi espressa nel titolo stesso, sono il frutto di una manipolazione, di un esperimento genetico e sociale, sono la conseguenza della logica della natura vista come qualcosa di sperimentabile e manipolabile, della trasformazione e del consumo di ogni cosa senza pietà. Sono il risultato di un errore e scoprirsi errore significa scoprirsi un caso, ciò che sarebbe anche potuto non essere, un niente. Ma di questo niente bisogna pur parlare (ma che fatica tenerlo a mente/ tutto questo niente). E se non si è niente bisogna disperatamente essere qualcosa e per esserlo bisogna assimilare e distruggere l’altro o l’intero mondo, perché ciò che l’altro è, nutra, riempia la voragine che ci abita e che ci divora dall’interno (Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente./ Finirà per niente, per noia, per male, per pena, per fame.). Il tema dell’amore, che è strettamente connesso a quello della fame attraverso il desiderio e il dolore, è presente sin dall’inizio del poema; anche lo scienziato, esso stesso artefice e vittima delle api, ha scritto lettere d’amore, di un amore evidentemente disperato e violento che non riesce ad opporsi alla violenza della società (Non è l’amore individuale/ il contrario della violenza collettiva, non la annulla;/non l’assenza di violenza/ atto d’amore.). E le api sono il frutto di questa disperazione, perché non trovando niente che soddisfi definitivamente quella mancanza che l’amore è, finiscono per rivolgere il pungiglione contro loro stesse, in ultimo gesto di assimilazione violenta o di disperazione nel tentativo di ricostruire un eden (C’era l’amore, ma era con l’amore./ C’era l’amore, ma non era altrove.). Eden cercato dalle due api che si staccano dalle sciame assassino e cercano di regredire, anche attraverso un viaggio ctonio nella bocca di un vulcano e con un colloquio con il poeta Lucano, fino a quel paradiso originario (Stelle cadenti che cadono,/e cadono,/Non conta niente il come,/conta solo lo starti accanto.), che risulta però perduto e che si converte in una spietata naturalità. Di nuovo, non si esce dalla violenza (arnia, arma). E qui emergono i due modelli, non i soli ma predominanti, di scrittura con cui Raos si confronta e che in parte rovescia: la favola e l’epica. In cui si manifesta un gioco di specchi tra l’uomo e le api, in quanto l’uomo nel suo tentativo titanico di antropizzare la natura si trova a sua volta disantropizzato, fenomeno tra i fenomeni, senza più una scala gerarchica naturale che lo garantisca. Le api sono, al tempo stesso, favola crudele o anti favola ed epos del furor sanguinario, che oscilla fino al patetico ( E io rimango, era, nera,/ vana, viva,/ e qui per te, per come non si chiude questa specie/ per un battito, ma resta./ Ti prego, resta./Che io sono. E sono te. ), secondo il modello lucaneo, espressamente richiamato nell’ultima sezione dell’opera. Modello che ha in sé anche una componente fortemente apocalittica (Un unico e soltanto rogo soverchia l’universo: mischierà le ossa,/ e gli astri.”), stemperata appena da un’ironia raffinata (Il tempo scorre per annunci indistinguibili/ che accada infine quella cosa, una qualunque cosa,/ vita dopo vita invano attesa/ da ognuno in propria vita. Mai sciolte, strette bene/ catene, crolli, disfasie: questo pianeta in cenere,/annuncio impercettibile di chissà che). E, per concludere queste note, se il primo modello dell’antifavola è valido, in quest’opera, e nella sua non nascosta attitudine sapienziale, troviamo anche una morale implicita, che si esprime nel tentativo, che anche la poesia e questo libro sono, di porre un argine, almeno mostrandola e dicendola, alla hybris; perché il poeta sa, per il suo stesso mestiere, che chi non conosce il proprio limite, per dirla con Aristotele, deve temere il destino (…la morte è tragica, ma la vita è oscena…).


Francesco Filia

lunedì 17 dicembre 2012

Appunti d’amore, gioia e disperazione. Una lettura di Pastorale di Giorgio Cesarano.




Mi spaccherei le mani per passarti/ un grano verosimile d’amore. In questi versi di Due, una delle poesie di Pastorale [1], c’è tutta la straziante tensione dell’esperienza poetica e intellettuale di Giorgio Cesarano (Milano, 1928 – 1975). Un’esperienza che lega in modo inestricabile amore, disperazione e sforzo spasmodico di comprensione intellettuale della realtà. La disperazione - che è la cifra ultima delle poesie di Cesarano - non è nel sentimento soggettivo, ma nelle cose stesse, nella loro radice, perché la radice di ogni cosa, di ogni amore, di ogni bene è l’incombere del niente (tu bene della terra/ inguaribile e noi di tanto niente// gli eroi vivi, le anime del niente). Solo sotto la minaccia di tale incombere avviene autenticamente qualcosa, soprattutto, se questo evento si presenta nella dimensione che più mette a nudo la nostra inermità: l’amore come desiderio di ciò che già da sempre manca. In questo tendersi verso l’altro consiste l’epicità dei romanzi naturali di Cesarano. Essa sta nel relazionarsi tragico di due o più individualità che si scoprono unite in una lontananza incolmabile, confermata, in maniera ancora più lancinante, dal compimento del rapporto amoroso: il contatto dei corpi e la penetrazione sessuale (Fermo qui vicinissimo/ amandoti con molto mio,/ mentre tuo, tutto il tuo/ -ferma qui vicinissima - / diminuire, rimpicciolirti, / con strazio non so (piccolo?) / mi sgorga per te via.). Ecco il paradosso tragico: più i rapporti, le relazioni, diventano intensi, più c’è un coinvolgimento che mette in gioco tutto l’essere che siamo (al di là, o, meglio, al di qua, della posticcia distinzione mente/corpo), più si sperimenta l’impossibilità di afferrarsi, tanto più si scopre la propria strutturale solitudine ontologica. Solitudine estrema, perché è la persona amata che ce la rimanda in maniera irrefutabile (debole come ora e tradito/ da tanta mia spesa dolcezza/ non sapevo vedere di te/ che il nero, la cupa forma che mi assorbe). E come dire questo in versi che siano veri? Senza cadere nel trabocchetto lirico dell’anima a nudo, che non fa altro che isolare un’interiorità che non può, senza cadere nella deiezione del luogo comune, essere isolata dal mondo a cui appartiene? La verità del nostro stare al mondo emerge, nei versi di Pastorale, nell’orizzonte insuperabile del desiderare. La strategia poetica adottata da Cesarano è quella del “romanzo naturale”, ossia, nel superare qualsiasi lirismo attraverso un racconto espressionistico, dialogato e a volte ruvido[2]. Dove l’affidarsi al racconto è dovuto, però, a un controllatissimo uso del verso e del periodare, in cui sintassi e metro quasi mai si incontrano e il ritmo è un alternarsi vertiginoso d’improvvise accelerazioni e frenate, di movimenti ellittici, spesso spezzati nel dettato metrico, e discese a precipizio nel vortice del verso, in cui il sovrapporsi dei piani narrativi, descrittivi, dialogati è tutto teso e convergente in una rivelazione che ha quasi sempre, però, la luce accecante del negativo. Negativo insito nel nostro stare al mondo e dato da quel muro invalicabile, anche per l’incessante desiderare, che è la morte come possibilità ultima e irredenta; desiderare, che proprio per questo, non risulta mai veramente nostro, a nostra disposizione, ma si mostra in un’alterità radicale che si concretizza in noi nell’inesauribilità del desiderare stesso che nessun essere, nessun altro, nessun momentaneo soddisfacimento potrà mai colmare del tutto (Tu alzi uno sguardo/ di cuoio e “amore tu mi hai dato tanto”/ dici e “caro non sono capace di dare niente”). In questo impatto tra il desiderare incessante, di cui l’amore è l’aspetto centrale, e il morire, della vita e nella vita, consiste la dimensione strutturalmente disperata della condizione umana (mi vedi partire/ “non sono capace di vivere” immobile a un palmo/ mi vedi che taglio la corda che me ne vado/ “non sono capace di vivere senza di te”/ filando seduto morto a un palmo da te). L’unità di parola che dice e cosa detta, nei versi di Pastorale, è il tentativo di rimarcare fino in fondo la disperazione della logica del possesso amoroso e di qualsiasi logica di possesso. Più ci si sprofonda nell’autenticità del rapporto amoroso, come possibile compimento del desiderio, tanto più ci si scopre nudi, inermi, distanti - anni luce o solo un millimetro - dalla persona o dal fantasma amati (tutto perché/ hai quella tremenda/ faccia della mia// (anima) perché mi spacchi/ il ventre e mi/ (anima) il ventre e mi/ nuda ridi e tu/ sprofondo dentro il corpo e non ti tocco/ (anima) e non ti tocco/ per quanto è lunga una notte duro/ dentro il tuo corpo stremato e non/ e non ti tocco, anima,/ sprofondante faccia della mia/ vita (anima) mai.). E’ la struttura del desiderio stesso che ci consegna alla nostra disperazione di essere finiti, di essere gettati nell’esistenza e di non aver creato nulla e dove le parole servono sì a dare un senso, ma anche nella loro ossessiva e spesso elusiva ripetizione, ci riconsegnano all’estraneità di ciò che ci sta davanti e che non possiamo fare nostro mai definitivamente. Possedere l’altro significa sentirlo lontano radicalmente e senza speranza, perché anche l’estrema vicinanza, l’incontro dei corpi, l’unità sfiorata è la lontananza più incolmabile, in quanto quel corpo, che ci accoglie, ci dice in maniera irrefutabile che non sarà mai nostro, perché è esso stesso un centro desiderante altro da noi, che la storia che lo abita è altra da noi. Questo rifiuto oggettivo dell’essere ci porta a sprofondarci, una volta ancora, nel suo essere altro, per vivere in carne ed ossa la logica di questa esclusione, del dolore lancinante di non aver creato noi l’altro che amiamo in maniera inguaribile (d’un mio dentro di me che quanto a me t’include/ ma quanto al tuo sentirti qui di fronte/ e al mio fissarti e nominarti altra/ da me, esclusa, e con tutta la tua/ vita – ecco la fitta/ illogica che addolora i miei occhi:/ il non averti fatta/ io, non averti io generata come questa cosa/ amabilmente intima dell’aria/ buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo/ patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino/ alla pelle dentro nudo/ in un gelo lampante, irrefutabile). In questi versi lucidi e strazianti è detto poeticamente quello che poi Cesarano metterà sempre più in chiaro nel suo lavoro critico e, in particolare, nelle tesi di Insurrezione erotica. In Due, nelle due persone che si amano e si cercano e si desiderano fino allo spasimo, si apre la possibilità di scoprire la radice profonda della dimensione amorosa, in cui “l’oggetto d’amore — il feticcio dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una via, un movimento, una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua opacità d’oggetto e fascinazione di feticcio, che veramente l’amante scorge, non il fondo, ma il principio dell’essere possibile, e la sua semplicità luminosa e terribile. È in questo istante che l’amante conosce la gravità dell’impresa, è ora che vede l’amore come conquista e superamento, come comunione al di là del sé, lotta per la vita, come comunicazione concreta e pragmatica del possibile, come insurrezione”[3]. Che cos’è qui l’insurrezione? E’ il riconoscimento della libertà del desiderare umano, che insorge contro qualsiasi ingabbiamento definitivo. Libertà che però non ha nulla di rassicurante, ma è lo stare nella dimensione inquietante dell’esistenza, nel gioco serissimo del riconoscersi reciproco delle individualità, come possibilità gettate nel nulla dell’esistenza, ossia di una dimensione che è impossibile irrigidire definitivamente, come, secondo la prospettiva storica in cui si trova Cesarano, fa la logica del Capitale. E quindi l’amore è platonicamente il luogo in cui noi siamo consegnati alla nostra dimensione più propria, attraverso la contemplata e desiderata bellezza. La differenza fondamentale, tra la dimensione classica dell’amore e l’esperienza che ne ha la nostra epoca, è che il desiderio non si inserisce in una gerarchia salvifica il cui fine è il Bene, l’Agathón, ma è il luogo in cui noi scopriamo il grado zero del nostro essere, la ferita profonda che ci abita. Anzi più siamo nell’impresa dell’amore, nella sua apparente armonia, nella sua anelata armonia, più siamo consegnati alla nostra radicale imperfezione e di chi ci sta innanzi (Con educata e toscana voce e per eufemismi/ dici la tua imperfezione./Dici dei due mariti dici dei genitori.), all’angoscia della nostra impossibilità, della nuda possibilità del nostro essere e all’inadeguatezza del nostro dire. La parola, o dice troppo o non dice abbastanza, e qui il verso di Cesarano, al di là di qualsiasi abbandono espressionistico, ha il tratto disperato di una ricerca impossibile della precisione assoluta nell’esprimere il mondo come si dà nel suo divenire (emozioni, cose, idee, sensazioni, ombre, luci) e quest’accostamento alla cosa del dire che rende strazianti le poesie di Cesarano (Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia/ (e in una sua intimità con l’aria buia/ dove splende) risplende: l’armoniosa/ testa, l’armonioso viso – che mi commuove/ e mi angustia e mi frena/ nella bocca il più delle parole – troppo/ deboli, o troppo, ancora, intense). Strazio reso ancora più lancinante dall’uso accortissimo e rivoluzionario delle figure retoriche, come nel raddoppiamento di Epitaffio, o, sempre nello stesso testo, la figura della sospensione, che rende spasmodico l’andamento dei versi, in una tensione crescente che si risolve in un finale vertiginoso (ultimo crampo di inguaribile amore). E se la poesia dice l’inguaribilità del crampo amoroso e se questo crampo, che è esso stesso il dire poetico, non può andare oltre la costatazione drammatica della nostra finitezza e imperfezione all’interno di un desiderare trascendentalmente incessante, anche la poesia deve finire, se vuole rimanere fedele alla sua dimensione veritativa e non trasformarsi in un gioco insensato che scimmiotta, ma non svela, il senso profondo dell’esistere.
In questo limite strutturale della poesia, oltre che in motivazioni personali e storiche, si può spiegare l’abbandono del poetare da parte di Cesarano, già a partire dalla fine degli anni Sessanta e, invece, il rivolgersi esclusivamente alla critica sociale del Capitale[4]. La scelta irreversibile di Cesarano dimostra, ancora una volta, l’indissolubile legame tra teoria e poesia, il dialogo inestricabile tra queste due diverse dimensioni, che però si confrontano con la stessa cosa: l’enigma dell’esistenza dell’uomo e del suo rapporto con il Mondo. E qui assume un senso la scelta del genere pastorale, come dice il titolo di queste tre poesie. Esso è il tentativo, come evidenziato in precedenza, di uscire dalla ristretta dimensione lirica e di ridefinire il rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che definiamo natura e che naturale non può mai essere fino in fondo, perché dove c’è uomo non c’è più solo natura, ma anche ciò che natura non è più o non ancora: simbolo, quel rimando continuo a qualcos’altro, quel cerchio mai definitivamente chiuso, come il desiderare ("Come tutto che è secondo natura/ e non può ferire"/ ma secondo natura feriti sediamo/ ammutoliti tenendoci per gli occhi/ con sorrisi). In questo senso il genere pastorale da Cesarano è usato in senso ironico - nel senso dell’etimologia di rovesciamento dissimulatorio, demistificante - e anti-idillico. L’evidenza di questa operazione si mostra soprattutto in Altri. Qui Cesarano, con sguardo da entomologo (che, però, proprio nel distacco che tale atteggiamento comporta, nasconde una segreta e più autentica compassione, retta dal voler cogliere le relazioni nella loro spietata verità), costruisce  vari “quadretti idillici”, in cui sono colti vari momenti amorosi: la crudezza dell’accoppiamento, il rapporto fisico e il momentaneo appagamento del desiderio o il dolore. In queste situazioni, fotografate poeticamente quasi sempre di nascosto, non c’è nessuna armonia edenica ma panico di teste/ negli interdetti calori dei grembi,/ niente di niente. La natura, il paesaggio, è erba cresciuta negli spurghi e insetti loschi e in questa natura, antropizzata e paradossalmente selvaggia, originaria e degradata, ognuno vive in quel che rimane di una logica, l’unica che l’uomo sembra conoscere, quella del potere dell’uomo sull’uomo e solo con una remota, ancestrale memoria d’un filo di passione, in chi in questa logica è sottomesso, di cui rimane soltanto una fame inesauribile e senza speranza (ma l’estate d’erbe/ cresciute negli spurghi e insetti loschi/ (ognuno della sua residua logica/ padrone interamente e servo forse/ con memoria d’un filo di passione)/ minima e tutta inferociti getti/ defunti presto per veleni, fame.). Ecco, scoprendo la nostra fame, mai nostra perché non la scegliamo, scopriamo la tensione lacerante che ci abita, si arriva alla radice del proprio essere:  un nulla che desidera ciò che non ha, ciò che non è. L’esperienza del nulla prima che valoriale è ontologica, essa è il cuore delle poesie di Cesarano, ed è la fonte della gioia, sentimento limite e necessario, come l’angoscia, del nostro stare al mondo (allora quei versi non me li seppi spiegare,/ partigiano della gioia e così sordo all’inferno./ Disceso ora con te dove brucia l’inverno). Il partigiano della gioia è colui che ha fatto esperienza della fine, della radice finita e disperata di ogni cosa, del gelo, dell’inverno definitivo, che abita ogni cosa, perché è già da sempre con un piede sul baratro della morte senza rimedio, del vero inferno del niente. La gioia è il sentire di chi scopre la natura gratuita del suo stare al mondo ed è quindi già oltre ogni pre-occupazione ed è gettato, proprio a partire da questa disperazione, in un insensato, inerme e furioso amare, sperare[5].
Quindi amare, desiderare, è scoprirsi finiti, il sentimento della fine produce angoscia, disperazione ma, secondo la logica dei contrari, la disperazione si rovescia in gioia, che nell’etimo richiama al goduto a ciò che si è desiderato e che per un attimo si è fruito, senza l’illusione di averlo posseduto. In questo la gioia è accettazione incondizionata del nulla, di ciò che incombe già da sempre sull’incessante divenire di ogni cosa e, quindi, la gioia non può non essere sguardo radicale sulle cose finite. Ora da qui riparte, inizia tutto, tutto il possibile, l’alba di ogni cosa (Con la testa sul mio cuscino/ dormivi nei tuoi capelli/ sanguiformi nell’alba), senza più nessuna gabbia salvifica o logica del rimedio al nulla che ci pervade - il crampo amoroso è e resta inguaribile -, ma abbandono rabbioso d’amore, che è un  aprirsi  al desiderio nella sua dimensione di tensione[6] feroce, senza la pretesa di raggiungere un bene definitivo (Gli altri che t’amano e io/ - è finita, finita, finita -/ Gli altri che t’amano e tu e io/ giustamente per sempre feroci, noi che ci perdiamo sempre/ apparendoci in lunghi corridoi,/ noi siamo (…)/ i morti della vita). Ma insito nel desiderio vi è anche una dimensione di nostalgia verso un bene già da sempre perduto e i cui contorni sono sempre più sfumati e che, però, continua a spingerci verso un orizzonte futuro - l’origine è la meta - che redima anche il passato ormai irrimediabilmente svanito (aveva i tuoi occhi/ la ragazza che in questo stesso hotel/ d’ironico nome Victoria/ quand’ebbero gli anni principio d’amore/ venne diritta,vita.) e che nessuna contemplazione (-ora ti guardo mentre perdi luce/ piangendo nei tuoi capelli all’addio,/ sul campo è l’ora dei pipistrelli-), per quanto emotivamente coinvolta, può restituire, anzi non può che confermare, nel presente amoroso (Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi/ di me che discendendo li raggiungo.), la lancinante perdita che accompagna ogni attimo passato.
E qui può essere visto ciò che Cesarano ritiene che l’amore rievochi, cioè l’altro come possibilità, come una tendenza a fruire della realtà, cioè a godere autenticamente di essa, senza rimuoverne la dimensione intrinsecamente dolorosa, lasciandola essere ciò che è, non assimilandola a sé. In altre parole, se il desiderare, come è stato mostrato, è la struttura trascendentale, cioè tale da abbracciare e superare ogni realtà determinata, dello stare al mondo dell’uomo, esso sarà intrinsecamente inesauribile, infinito e nessun oggetto potrà soddisfarlo. Quindi, la logica del possesso come appropriazione definitiva della cosa desiderata, è uno snaturare l’intrinseca essenza del desiderare, come fa, secondo Cesarano, il Capitale, trasformando tutto in feticcio. Il desiderio non può morire nell’opacità di un oggetto, ma aprirsi alla luminosità semplice e terribile del principio amoroso, che, consegnandoci alla nostra nudità e nullità, ci proietta in una relazione possibile con altri centri desideranti, a loro volta, già da sempre decentrati perché proiettati in un altro, che al tempo stesso li accoglie e li respinge. Forse il gesto finale di Cesarano contraddice tragicamente questa possibilità o forse le dà il sigillo dell’irrevocabilità. Resta comunque una consegna nell’esperienza di Giorgio Cesarano, quella di esistere radicalmente, ossia mettendo in luce la radice autentica, finita, tragica - se tragico è ciò che, per dirla con Hegel[7], continua a finire - dell’esistenza umana, in ogni gesto politico, poetico, intellettuale, amoroso.
Infine, per tornare ai versi con cui abbiamo aperto queste considerazioni, lo spaccarsi le mani è il destino dell’uomo, che decide di affrontare la sfida di corrispondere in maniera autentica alla natura amorosa del proprio stare al mondo. Questo spaccarsi le mani non può che essere finalizzato al riconoscimento dell’altro, perché l’amore non è un sentimento singolo[8] e la condizione umana è protesa verso un compimento che non può venirle da sé stessa. Di conseguenza ogni uomo non può che essere teso a farsi riconoscere come amante dall’altro, senza il quale altro, senza il reciproco irriducibile riconoscersi - nel grano, non più Vero, ma solo verosimile, perché lo stesso vero diventerebbe un feticcio – nessuno potrebbe essere sé stesso, ossia quel crampo di inguaribile amore che continuamente chiede un senso profondo al suo stare al mondo, a questa vita che, comunque, è, ineluttabilmente e sempre, persa. (i morti della vita, e tu tersa/ faccia, che ci trattiene veri di dolore,/ della sorte, della vita che è persa,// ultimo crampo di inguaribile amore).
                                                                                                                                                   
Francesco Filia




[1] Giorgio Cesarano, La tartaruga di Jastov, Mondadori, Milano, 1966, ora in Romanzi naturaliGuanda, Milano, 1980. I tre testi che compongono la sezione Pastorale(1964-1965)  sono: Due, Altri ed Epitaffio. Il libro Romanzi naturali  inoltre nella prima sezione comprende i tre romanzi naturali:  I Centauri (1964-1966), Il sicario e l’entomologo (1968) e Ghigo vuole fare un film (1968-1969),  non oggetto della presente lettura, che si concentra sui tre testi di Pastorale .
[2] Cfr. Claudio Di Scalzo, Il poeta suicida Giorgio Cesarano. Tellustratti 9. 16 Maggio 2007. In Tellusfolio.

[3]  Giorgio Cesarano, L'insurrezione erotica (Autocritica della corporeità metaforica) da Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974.

[4] Giovanni Raboni, Corriere della Sera Pagina 35(23 dicembre 2000).Quando Cesarano, di colpo, rinunciò a tutto questo per dedicarsi interamente prima al lavoro politico con un numero sempre più esiguo di compagni e poi a una riflessione teorica severamente e dolorosamente solitaria, era convinto, credo, di compiere l' unico gesto rivoluzionario ormai consentito a un artista: sopprimere con la propria arte la sottomissione al «dominio reale del capitale» che in essa oggettivamente, inevitabilmente si incarna e si perpetua. ” Sicuramente la critica di Cesarano al Capitale -che ha prodotto oltre al già citato Manuale di sopravvivenza (1974) anche Apocalisse e rivoluzione scritto con Gianni Collu (1973) sempre edito da Dedalus e una incompiuta Critica dell’utopia capitale pubblicato postumo da Varani - resta una delle più significative tra le tantissime partorite in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, si veda, a tal proposito, il testo di Claudio D’Ettore, Giorgio Cesarano e la critica capitale, Il covile, 2011.
[5]  Vincenzo Frungillo, Fisica e poesia. Il corpo nero. Una lettura della quarta egloga di Elio Pagliarani da Lezioni di fisica e Fecaloro. “Atelier”, numero 51. Anno XII. Settembre 2008, pp. 37-45.
[6]   L’italiano “desiderio” corrisponde nel greco di Aristotele ad órexis: sostantivo che deriva dal verbo orégo (“porgo, sporgo, tendo”).
[7] E quanto del pensiero di Hegel, oltre alle citazioni e ai riferimenti espliciti (riguardo al tragico, all’origine come meta della storia, all’amore – oggetto di una citazione in esergo nelle tesi d’insurrezione erotica -e alla dialettica servo / padrone, richiamata espressamente in alcuni versi di Altri) ci sia nelle meditazioni e nella poesia di Cesarano sarebbe degno di un’indagine a parte, attraversando Marx, Nietzsche, Bataille e, soprattutto, attraverso quello snodo centrale per la ricezione di Hegel nel Novecento che  sono le lezioni di Alexandre Kojève. E, come prima traccia di questo possibile percorso, si potrebbe azzardare l’ipotesi che la lettura di Hegel, tentando di andare naturalmente oltre l’orizzonte filosofico hegeliano, permette a Cesarano di superare la dimensione del desiderio come solo appagamento di un bisogno - come invece emerge in molte riflessioni tra ‘800 e ‘900, si vedano ad esempio Nietzsche, Freud, Sartre - e di relazionarsi ad essa come apertura che tende a liberare, anziché come prigione che chiude nel possesso di un oggetto. In questa visione, la logica del Capitale sarebbe la realizzazione totale e perfetta della tendenza a concepire il desiderio come appagamento di un bisogno attraverso l’oggetto merce, che naturalmente è tale e indispensabile solo all’interno di tale logica. Forse il limite dell’orizzonte storico della lettura di Cesarano è la feticizzazione stessa del Capitale come altro dall’autenticità dell’esistenza e di non riuscire a inserirlo in una dimensione epocale, che contiene il Capitale come riferimento dialettico, ma che non si risolve esclusivamente in esso; ma tale ipotesi andrebbe suffragata dall’accesso all’opera completa di Cesarano, cosa attualmente impossibile vista l’inspiegabile assenza dei suoi testi dal mercato editoriale.
[8] Si veda la citazione di Hegel in epigrafe a L’ insurrezione erotica."Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l'uno per l'altro nel modo più completo, e per nessun lato l’uno è morto rispetto all'altro. L'amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L'amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo." G.W.F. HegelL'amore, la corporeità e la proprietà., in Scritti teologici giovanili. Guida, Napoli, 1989.

mercoledì 5 dicembre 2012

Festa dei “miosotìs” – Premio Russo Mazzacurati


Festa dei “miosotìs” – Premio Russo Mazzacurati

Nell’ambito del gemellaggio tra la Fondazione Premio Napoli e il Premio di Letteratura «i miosotìs» intitolato a Giancarlo Mazzacurati e a Vittorio Russo, si annuncia la serata di Premiazione dei vincitori della VI Edizione.
sabato 15/12/2012
Museo Hernann Nitsch
vico lungo Pontecorvo 29/d
Napoli
17:30 – 20:00
PREMIAZIONE DEI VINCITORI con nomination dei SELEZIONATI 2011/2012
PROCLAMAZIONE DEI VINCITORI con nomination dei SELEZIONATI 2012/2013
lettura dei testi
CONDUTTORI Giancarlo Alfano e Cecilia Bello
20:00 – 21:00
CENA MUSEALE a cura di TERESA CARNEVALE
21:00 – 24:00
PECCATI D’AMMORE per una Notte d’Arte (II Municipalità NA)
di Canio Loguercio con Alessandro D’Alessandro
derive sentimentali a più voci, per chitarra, organetto e ospiti a sorpresa
Una notte poetico/musicale di canzoni sussurrate e pubbliche confessioni
di peccati d’ammore

Risultati della VI Edizione 2011/2012
Vincitori del Premio con la pubblicazione nella collana «i miosotìs»:
LUCA ARIANO – CARMINE DE FALCO (Parma – Pomigliano d’Arco – NA)
ROBERTA DURANTE (Treviso)
FEDERICO ROMAGNOLI ex aequo (Siena)
DANIELE VENTRE ex aequo (Napoli)
Selezionati con la pubblicazione nel REGISTRO DI POESIA #6 – «i fuoricollana»:
VINCENZO FRUNGILLO (Milano – Napoli), ALESSANDRA CARNAROLI (Piagge – PU),
GIOVANNI CAMPI (Caserta), SARA DAVIDOVIC (Roma), CARMEN GALLO (Mugnano – NA),
OMAR GHIANI (Selargius – CA), ALESSANDRO BROGGI (Milano),
MARIA TERESA CARCANO (Frosinone), ENRICO DE LEA (Legnano – MI),
ANTONIO MAGGIO (Napoli), NATALIA PACI (Ancona), CHIARA CATAPANO (Bolzano – già edito),
ANTONIETTA D’AVASCIO (Maiori – SA), GIULIO MAFFII (Tirrenia – PI),
LUCIANO MAZZIOTTA (PALERMO), LORENZO MERCATANTI (Prato),
NICOLA PACOR (Monfalcone – GO), GINO ZANETTE (Godega di S. Urbano – TV)

L’immagine di copertina del REGISTRO DI POESIA #5, a cura di Cecilia Bello,
è dono dell’artista napoletana Monica Biancardi

Dal sito "www.premionapoli.it"

lunedì 3 dicembre 2012

Viola Amarelli su "La neve"


Francesco Filia  ci consegna con “La neve” (FaraEditore , 2012)  un viaggio nei gironi di una Napoli infera e cruda (…a questo gelo di piazze senza nome/ a un orrore di statue erette da millenni), un reportage che ambisce, sottotraccia, alla dimensione allegorica di una condizione umana quale attesa perenne di un riscatto impossibile (In attesa che i conti tornino, moriremo, lo sai).
L’ossimoro sembrerebbe una delle architravi di questo lavoro, sin dal titolo, che rinvia a una inusuale neve partenopea, nel finale vera e propria  “neve nera”, come nella scansione a frammenti  – peraltro nettamente definiti a livello spaziotemporale –   di questo che è e resta un indubitabile poemetto. La figura retorica diventa  strumento di una contraddizione,  avvertita  fenomenologicamente, in un correlato percettivo alienato alla De Angelis, tra una natura metropolitana, leopardianamente matrigna, e una sgomenta innocenza umana.
Il ricorso reiterato alla prima persona plurale testimonia della tensione civile di Filia, destinata peraltro a radicarsi solo nella fragile solidarietà di uno spalla a spalla,  non trovando sbocco per incidere significativamente nel dato endemico di questa/apocalisse quotidiana.
La versificazione prosastica consente all’autore di alternare campi lunghi e zoomate  - omaggio, anche  in esergo, alla lezione di Pavese – ma il calco ritmico  e poematico prescelto resta ancorato a un’elegia secca e calibrata  che in alcuni dei testi raggiunge esiti più che notevoli , dove si fondono istanze disparate (il cielo gremito di stelle vs l’urlo che corre tra i palazzi), le stesse che non permettono di trovar ragione allo iato tra aspettative e realtà.
Napoli funge nella parola di Filia da metafora di una quotidianità insensata, priva di salvezza che non sia il dirla, scontando l’inanità della scrittura e, insieme, la sua cogente necessità .“Se qualcosa rimarrà sarà la parola soffocata”.
————–

(X frammento, Napoli 23 novembre 1980)
Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine
dopo aver percorso le scale a due a due
aggrappandoci alla ringhiera quasi divelta saltando
gli scalini spaccati. Dopo nelle piazze e nei parcheggi
abbiamo sentito il gelo riempire il vuoto e il silenzio
il mormorio di coperte avvolte sulle spalle
dei falò sulle scalinate di chiese e fontane.
Non avevamo capito che il terremoto era appena
iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore
di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato
di lavori in corso e doppi turni. Checco o’ cecof
mi chiamavamo alle elementari, per gli occhiali,
alcuni scherzavano altri picchiavano, io
mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle.
Ci prendevamo a mazzate all’uscita della scuola
rubavamo qualcosa nei negozi evitando i calci
in culo e i chitemmuort, tornavamo urlando
o tacendo mentre nei vicoli teste affioravano
dai muretti di contenimento, come alieni, armati
di lacci emostatici e siringhe. Altri sparavano
qualcuno moriva qualcuno si arricchiva.
Abbiamo imparato di nuovo a contare da zero
ad avere un nuovo prima e dopo come fosse
un’altra nascita di cristo come lo era stato prima
il colera o la guerra, per chi se la ricordava. Ma
da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella
domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente.


http://viomarelli.wordpress.com/2012/11/14/su-la-neve-di-francesco-filia/