mercoledì 8 dicembre 2010

Un manuale per la sopravvivenza

L'insurrezione erotica
(Autocritica della corporeità metaforica)
da Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974
Giorgio Cesarano


A chi si lascia spegnere non resta che il suo piagnucolare. Io, io, io. “... Il solo fatto che noi seguitiamo a proclamare... io, tu... con le nostre bocche screanzate... con la nostra avarizia di stitici predestinati alla putrescenza... io, tu... questo solo fatto... io, tu... denuncia la bassezza della comune dialettica... e ne certifica della nostra impotenza a predicar nulla di nulla,... dacché ignoriamo... il soggetto di ogni proposizione possibile...” (C.E. Gadda, op. cit., p. 124) Il cazzo piccolo, la fica frigida, il pene-clitoride, la famiglia assassina, gli amici bastardi: fosse andata altrimenti, si fosse potuto avere! E potessero riuscire a parlarsi: come vedrebbe quanto nessuno ha, come si è tutti identici nella deprivazione e nella “sventura”, come a ciascuno accade lo stesso mortificante gioco di tarocchi truccati, grazie al quale non uno riesce più a scorgere ciò che realmente vive, o potrebbe vivere non appena sorreggessero passione incarnata, desiderio concreto, volontà di realizzarsi. Contempla invece affamato le illustrazioni dello splendido Altro, immensamente profuso di tutto ciò che gli manca. A questo almeno, ed è molto, gli amanti sanno brevemente scampare. Essi si guardano, dunque sanno vedersi. Si desiderano, dunque si riconoscono. Si deludono, dunque sanno che cosa cercano. Si odiano, dunque sanno di non bastarsi.

Il capitale ha creduto di liquidare facilmente la resistenza millenaria dei contenuti radicali manifesti nella sacralità delle situazioni topiche. Non ha potuto che saccheggiarne l’iconografia. Sorprendentemente, neppure questo gli è riuscito senza danno. Schiacciata sotto i rulli delle macchine da stampa, l’immagine dell’uomo futuro, racchiusa nella corporeità di ogni essere, è sempre capace di resuscitarsi. In un brivido, per un istante, come per equivoco, in un colpo d’occhio distratto, a tradimento, tra una trivialità e uno sbadiglio, tra l’una e l’altra parola del vuoto, un occhio improvvisamente ti fissa, un seno respira, una mano pulsa, un ventre trasale. Un secondo sguardo non troverà che la patina della carta, la lattescenza dello schermo; uno slogan si precipiterà a suturare la fêlure minima aperta nella corteccia del cinismo d’obbligo. Non è accaduto niente, e il lutto si rassicura: sei morto come sempre, in uno sterminato campionario di illustrazioni ferali. Ma non è mai vero del tutto, e lo è sempre meno. È tempo di invertire la prospettiva, di saper vedere l’estrema fragilità della catalessi imposta dal capitale. È tempo di capire che l’ineroe nihilista, questo egotista dell’autodistruzione e dell’annientamento, ha i nervi a pezzi, e che persiste con crescente difficoltà. Nessun ottimismo è lecito sulla facilità dell’impresa, ma è tempo di non lasciare accidiosamente ingrassarsi il verme del pessimismo.



Se due “persone” non possono mai veramente congiungersi, ma soltanto vieppiù separarsi, è dunque vero un altro proverbio della “realpolitik”, secondo il quale l’estasi dell’uno comprende necessariamente la disillusione dell’altro? Si tratta ancora una volta della consumazione di un sacrificio? Da quando la schizofrenia è una condizione del sociale, ciascuno si guarda vivere sentendosi morire. Innanzitutto, chi è il soggetto reale: l’io che guarda? L’io che “agisce”? Alla soglia dell’estasi, uno dei due deve morire. È questo, il sacrificio necessario. Ogni sortita dal sé, è un’uccisione di sé.

martedì 23 novembre 2010

23 Novembre 1980


Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine
dopo aver percorso le scale a due a due
aggrappandoci alla ringhiera quasi divelta saltando
gli scalini spaccati. Dopo nelle piazze e nei parcheggi
abbiamo sentito il gelo riempire il vuoto e il silenzio
il mormorio di coperte avvolte sulle spalle
dei falò sulle scalinate di chiese e fontane.
Non avevamo capito che il terremoto era appena
iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore
di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato
di lavori in corso e doppi turni. Checco o’ cecov
mi chiamavamo alle elementari, per gli occhiali,
alcuni scherzavano altri picchiavano, io
mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle.
Ci prendevamo a mazzate all’uscita della scuola
rubavamo qualcosa nei negozi evitando i calci
in culo e i chitemmuort, tornavamo urlando
o tacendo mentre nei vicoli teste affioravano
dai muretti di contenimento, come alieni, armati
di lacci emostatici e siringhe. Altri sparavano
qualcuno moriva qualcuno si arricchiva.
Abbiamo imparato di nuovo a contare da zero
ad avere un nuovo prima e dopo come fosse
un’altra nascita di cristo come lo era stato prima
il colera o la guerra, per chi se la ricordava. Ma
da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella
domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente.

lunedì 8 novembre 2010


La divisione della gioia

di Italo Testa



In un’atmosfera conturbante, sospesa tra le note dissonanti dei Joy Division e la metafisica silenziosa dei quadri di Hopper, questa raccolta si sviluppa come un poema d’amore di lacerante intensità, in cui voci maschili e femminili si richiamano, si scontrano, si cancellano, si confondono.
Un dialogo incessante, in cui si alternano tenerezza e abbandono, rapimento e paura della perdita, e che si dirama come il delta del fiume su cui i personaggi si muovono, si lasciano, si ritrovano, tra sfondi naturali e paesaggi post-industriali che ricordano il Deserto rosso di Antonioni.
Dialogo teatrale o romanzo in versi? A qualunque luogo appartenga, questo libro batte e ribatte senza sosta, con un ritmo fermo e implacabile, la materia dei giorni, la storia di uno e l’ansia di tutti, il canto che silenziosamente accompagna la divisione del dolore e della gioia.







estratti dal testo


da: Cantieri (sezione I)


romea, mattina

qui ho appreso la luce sciolta sugli scafi al mattino
il bordo incandescente e l'anima buia dei rami,

qui ho imparato a dissipare gli occhi, la bocca, il fiato,
a calarmi all'alba dentro a un vestito di brina,

qui ho vegliato sui fossi le canne inanimate nel bianco
la frontalità ignara di pioppi eretti come ceri,

qui ho imparato a distinguere nel manto uniforme del giorno
l'intonaco di case insaponate nella nebbia,

qui ho perduto nell'acqua il tuo pegno raschiato dal cuore
e in un pomeriggio ignaro ho confuso i corpi e i volti,

qui ho consumato gli occhi sul volto lucente del mondo,
qui sull'argine alto mi sono inumato nel freddo.

(da: Cantieri)


*****************


Da: La divisione della gioia (sezione II)

Un luogo qualunque


…o nella luce artificiale
di un neon credere che la notte
non sia notte, il verde non scintilli
immune da ogni nostro sguardo,
le merci esposte nel silenzio
di una vetrina siano lo sfondo
del nostro tranquillo sovrastare,
del dominio saldo della specie:


e quando nelle insegne luminose
che ritmano i grani dell’asfalto
hai visto il segno certo, il richiamo
ribattuto da ogni nostro passo,

o in una vetrina, controluce
hai scorto sul ripiano le pose,
le ossa spigolose del suo corpo
segnarti senza più un riparo,

come il giorno che stesa sul letto
ti sei girata, tranquilla, e hai visto
le grate che spartivano il vetro,
e alzandoti di scatto hai detto
che non sarebbe successo niente,
che tutto era ancora intatto
e mentre ti guardavo in silenzio
sei sparita nell’angolo cieco:

allora ho visto che nulla torna,
che la fragilità ci insidia
dall’interno, dentro le giunture,
s’insinua nelle vene, riveste
la piega opaca dei discorsi,

allora, chiamandoti in disparte
a fianco del letto avrei atteso,
la pelle a toccare il marmo freddo,
che tutto fosse tornato a posto,
il braccio nascosto tra le gambe,
la luce sulle mie cosce nude,
la mano a coprirti il pube:»


*****************

da: Delta (sezione III)


lo stacco

saltavo, ancora
inarcavo la schiena
d’un soffio mi levavo
sull’asta tesa
rovesciando la testa
nella luce affondavo
fermo a mezz’aria
con un colpo di ciglia
recidevo i contorni
la pista, i blocchi
dallo sfondo acceso
riversato sugli occhi
nell’aria tersa
eri ferma, tra tanti
sulla terra battuta
le tue cosce lucenti
e tornite dal sole
nel mattino di vita
che il mondo ci offriva
tu mi guardavi scendere
cadere sul tappeto
riaprire gli occhi
volgerli in alto, al cielo
senza vedere niente
per un momento
poi, a poco a poco i tigli
gli spalti in penombra
i tuoi fermagli
brillanti nei capelli
gli altri alle tue spalle
così lontani
dove eravate stati
in quell’istante cieco
dopo lo stacco
e la torsione in volo
dove sarete quando
cadrò senza arrestarmi
sul telo verde
dove mi attenderai
con il tuo sguardo aperto
saprai aspettarmi?




Note sintetiche al volume


* Pagine 88
* Prezzo 9.50
* Isbn 9788875801052
* Collana Collana Nuova poetica
* Collocazione Poesia


http://www.transeuropaedizioni.it/?Page=volume.php&id_collana=22

Italo Testa
Italo Testa è poeta, saggista e traduttore. Ha pubblicato la silloge Luce d’ailanto (in Decimo quaderno di poesia italiana, Marcos y Marcos, 2010), l’e-book Non ero io (gammm.org, 2010), il concept canti ostili (Lietocolle, 2007), la raccolta Biometrie (Manni, 2005) e il poemetto Gli aspri inganni (Lietocolle, 2004).
Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e tedesco. Autore di saggi sul pensiero contemporaneo, è co-direttore della rivista di poesia, arti e scritture «L’Ulisse».

venerdì 5 novembre 2010

Nell’esattezza di una meraviglia


"Se il sentiero tra vegetazione e desideri ti porta/ dove non sai, nominare/ non riesci la pianta della luce di lei// o se il filo dall’abito da sposa/ rinvieni sul lago del sagrato per caso o meraviglia/ senza biancore di freddo/ (piove lo stesso la neve nell’anima...". La poesia di Raffaele Piazza è attraversata da una tensione erotica inesauribile, che assume le forme di un verso lirico, liquido e sensuale, ma di una sensualità controllata nel dettato e che si trasfigura in immagini d’amore e stupore, precise e, al tempo stesso, delicate come un fiore appena sbocciato o come le altre vite vegetali presenti in molti dei versi del poeta, emblemi di quella meraviglia che da sempre accompagna lo stare al mondo dell’uomo.
Del Sognato - l’ultimo libro di Piazza, edizioni La vita felice, 2009, con nota critica di Gabriela Fantato - porta al suo nucleo originario la fonte d’ispirazione che da anni contraddistingue i testi dell’autore e, questo nucleo, è rappresentato dal desiderio, che è la sorgente e la materia dei sogni, il sognato per l’appunto. La poesia dà parola a quanto di più profondo e inconscio c’è nel cuore di ogni uomo e sotto questo aspetto la poesia di Piazza appare nella sua unicità e bellezza perché attinge al sacro, presente come apertura originaria in ognuno di noi, basandosi su una vocazione squisitamente lirica, nella sua accezione più pura e alta.
Il libro è diviso in due sezioni, la prima Mediterranea, che, come si evince dal titolo, è pervasa da un lucore meridiano e solare, dove, come sottolinea la Fantato nella sua nota critica, “ è ancora possibile cercare e talvolta, forse, incontrare nei testi di questo poeta l’espressione della gioia “semplice” del corpo esposto al sole, alla bellezza del paesaggio”, ma che in controluce fa emergere una malinconia lunare, quasi che anche la dimora mediterranea fosse vissuta come un esilio, come appare evidente dalla bellissima Messaggio dall’esilio (Tornano, giocano con parole di abete/ e rondini gli amici: distanze abbreviate/ di treno se ti aveva portata e non il tuo/ pensiero nell’intessersi il ritmo/ del Mediterraneo a voci fuori campo:/ vita ritrovata in esili stelle in lune/ aranciate senza profeti sull’ordine/ dei tuoi petali disposti ad angolo dell’anima a fare scudo all’avvicinarsi/ di atomi di giorni su questa carta...).
L’altra sezione è quella che dà il titolo all’opera e qui sembra che il lettore, seguendo la parola del poeta, si possa abbandonare definitivamente al naufragio delle sensazioni, quasi come un Odisseo il cui destino è, però, nell’eterno presente della contemporaneità, quello di perdersi in un oceano di camere e pareti, di Internet, molto presente e grande intuizione di queste poesie, e dell’inconscio che ci parla per apparizioni, miraggi, enigmi, ninfe e fate, queste ultime riassunte dal nome di Alessia (Ora dietro al nido delle/ ore dorme/ nell’esattezza di una meraviglia/ Alessia...), quasi una novella Calipso o sirena che avvince a sé l’io lirico del poeta e, con la malia di parole sussurrate e di gesti accennati, appare e scompare dal mare immateriale della rete. In questo viaggio in un mare invisibile l’unica possibile Itaca per il poeta, come mostrano la prima e l’ultima poesia del libro, è il tavolo da lavoro, da cui si parte scrivendo e a cui si ritorna sempre, dimora che ci attende ma anche luogo dei nostri fantasmi da combattere e nominare, "Aprile in verde esce di scena ci lascia/ il tavolo di lavoro con le copie dell’anima/ una mela addentata a dare una gioia rimasta/ nel trasmigrare dei pensieri".

Francesco Filia

sabato 23 ottobre 2010

Parole in circuito


Fresca di stampa la nuova Antologia dell’Editrice Fermenti di Roma, dal titolo “Parole in circuito” (sottotitolo “Fatti non parole”).
Si tratta di un volume antologico che raccoglie le voci poetiche di dieci noti poeti, appartenenti a diverse generazioni: Domenico Cipriano, Stelvio Di Spigno, Francesco Filia, Antonio Fiori, Lucetta Frisa, Anton Pasterius, Raffaele Piazza, Raffaele Urraro, Giuseppe Vetromile e Giuseppe Vigilante.
Gli autori che in questa sede sono stati selezionati – precisa Raffaele Piazza, curatore dell’antologia, – presentano poetiche tra loro molto eterogenee. Ci troviamo infatti di fronte ad un campione di significativi versificatori che, sviluppando vari discorsi, avendo stili completamente diversi l’uno dall’altro, raggiungono tutti esiti alti.
Ciascun autore è introdotto con una breve ma approfondita analisi della sua poetica e, oltre a un’ampia selezione di testi, è presente una esauriente nota bio–bibliografica che aiuta a meglio individuare il percorso di ogni autore.
E’ senz’altro un volume che offre ampi spunti di riflessione sui alcuni interessanti percorsi poetici attuali, bene indicati nell’ottima introduzione del curatore, il poeta Raffaele Piazza.

"Parole in circuito" (Fatti non parole), Antologia Nuovi Fermenti nr. 4, Fermenti Editrice, Roma, 2010. Pagg. 150, Euro 18.00

mercoledì 22 settembre 2010

Il tradimento di chi è felice




“Se davvero esisti, se non sei/ una stupida chimera, o un’allucinazione della notte,/ scendi, mostrati, svelaci il tuo segreto!” Leggendo Stazioni (Nuova Editrice Magenta, 2010), l’ultimo libro del poeta, saggista e traduttore Giancarlo Pontiggia, la condizione che mi è parsa subito predominante è quella dell’attesa - non a caso il libro è stato scritto negli ultimi mesi del 1999, alla vigilia del nuovo millennio - di un’attesa di qualcosa al tempo stesso imminente e impossibile. In questo testo, scritto per il teatro, sono rappresentati personaggi colti in uno stato di sospensione, di indefinitezza, ma comunque di preparazione, di tensione verso qualcosa che non si conosce, o forse che si conosce fin troppo bene, come traspare dalla quasi totalità dei frammenti di quest’opera, ossia il nulla, la morte, personificata in alcuni dei dialoghi e presenza incombente o sotterranea in tutti gli altri.
Pur essendoci sullo sfondo questa dimensione angosciosa, non emerge predominante, nelle figure tratteggiate dall’autore, la disperazione, che sicuramente c’è o c’è stata, ma si è trasformata in rassegnazione, ironia, “bizzarri umori”, antica sapienza e questa sedimentazione dà a tutta l‘opera un tono uniforme, allucinato, ma al tempo stesso domestico, intimo, come di una verità - anche quella della fine di ogni verità, al di là di ogni paradosso scettico - che non va urlata ma sussurrata, magari sotto un cielo grigio e uggioso. Ed è forse quest’ultimo aspetto il fascino maggiore del libro, nonostante passaggi bellissimi, definitivi e sapienziali, che fanno impennare il tono complessivo del discorso ( “si è soli... soli... nell’abisso del Tempo...”).
L’opera - ambientata a Milano, città che ha il ruolo di una vera e propria protagonista, motore immobile di tutti i dialoghi - è stata concepita dall’autore come composta da scene teatrali che si susseguono o su un palco ruotante o intervallate da spazi e suoni di demarcazione. Queste scene sono le stazioni del titolo e, come sottolinea lo stesso Pontiggia nella seconda di copertina, il “riferimento è alle stazioni della via Crucis, ma anche al significato etimologico del vocabolo: luoghi dove si sta spesso per caso, dove si è condannati a stare, e dunque anche gironi purgatoriali”. Ed è proprio la dimensione purgatoriale, più vicina alla condizione dell’uomo su questa terra, che rende veritieri anche i dialoghi apparentemente più violenti e “assurdi”. In fondo, nella vita non c’è né la disperazione definitiva dell’inferno, né la beatitudine dell’essere presso dio, ma uno stato intermedio - intermedio come il genere scelto, tra il dialogico e la rappresentazione scenica - tra la speranza, fosse anche solo quella legata al passaggio dell’autobus Novantaquattro, di una felicità irraggiungibile e la rassegnazione a una vita grigia, “avvilente” e anonima. E, in questo stato, quei pochi che osano dichiararsi felici, come Ottavio, il barbone della prima stazione, sono dei traditori perché rinnegano la condizione comune a tutti gli uomini: l’infelicità. Anzi se sono felici ne devono sentire tutta l’illusorietà, la colpa e lo scandalo. La felicità non è per gli uomini, semmai è un dono divino, che però l’uomo contemporaneo e metropolitano, non può che sentire come un’attesa sempre più remota e impossibile. In questo libro, se c’è consolazione, è nella parola stessa (poetica o quotidiana e triviale), anche la più crudele, ma in quanto crudele è sentita da chi scrive e da chi legge come veritiera e portatrice di un’etica autentica e dolorosa, che non rinuncia a un umorismo feroce, di chi sa che gli autori che hanno messo su quella recita senza repliche che è la vita, se ci sono, “sono alla frutta. Non hanno più idee, più niente da dire, e ci piantano qui, nella merda”.

Francesco Filia

sabato 18 settembre 2010

Chi è il carnefice



il ventre di uno squalo bianco
appena pescato in mare
squarciato
contiene resti umani

è d'obbligo il dna
per capire chi è la vittima
ma..........................
chi.........................
è...........................
il..........................
carnefice...................

sabato 11 settembre 2010

Scogliera



Corriamo nel grigio cenere della polvere e il frinire di cicale non ancora morte. Il primo scavalca il cancello, seguito dagli altri. Maglie e costumi restano impigliati tra le sbarre o si strappano, mentre la pelle è graffiata dal filo spinato. Il sangue rapprende e coagula all’aria.
Mezzogiorno è alto nel cielo, infuoca l’aria e arde la terra. Ogni cosa è conficcata nell’orizzonte. La macchia di piante e arbusti è bruciata dal sole e piegata da passi radi che creano il sentiero. L’odore pungente di rosmarino penetra le nostre narici. La nostra pelle di ragazzi è spessa e scura e i muscoli affiorano guizzanti e pronti alla prova.
Paco arriva per primo alla sommità della scogliera. Guarda in basso nel riverbero del mare, si volta nella nostra direzione e, nel silenzio del meriggio, balza in perfetto equilibrio di roccia in roccia . Noi seguiamo il percorso indicato.
Arriva nel luogo prescelto, Paco getta il telo sugli scogli e lancia le scarpe in mare, ad indicare il punto dove entrare in acqua. D’un tratto si slancia nell’aria e fende lo specchio del mare con le mani giunte e la testa e il corpo protesi. Barone lo segue e poi ogni altro respira e si tuffa nel vuoto. I corpi nuotano in apnea tra lame di luce nel blu cobalto. Risalgono e affiorano respirando a pieni polmoni. Le grida e i richiami rimbalzano tra le rocce. Inizia la conta di chi è in acqua e gli occhi si alzano su quelli rimasti sulla costa.
“Tuffati! Tuffati senza guardare!” Ora le voci della banda confondono il Piccolo. Il rito è iniziato. La banda esige la prova. Gli sguardi non confortano ma sfidano. L’impatto stordisce ma il Piccolo è in acqua. Resta solo Azzolini, esita per due volte sul ciglio da varcare e non resta che lo scherno, chi non sente la prova è fuori e si ritira nell’ombra. C’è chi rimane a fissare la propria esclusione.
I volti segnati dal sale scorgono con precisione la preda, il riccio è preso, spaccato e succhiato via. La sfida continua e l’altezza è sempre maggiore, il corpo di Paco s’inarca sicuro nel balzo più alto, un gesto descrive la traiettoria nell’aria. Un frutto di mare è sottratto al fondale e lasciato su uno scoglio a marcire. Un ultimo slancio e risaliamo gli scogli, nessuno si volta. Vivara alle nostre spalle giace nel sole.

Francesco Filia

mercoledì 8 settembre 2010

Ionica


Ionica

Se abbiamo abbattuto le loro statue
se li abbiamo scacciati dai loro templi
non per questo gli dèi sono morti. O terra
di Ionia, sei tu ch’essi amano ancora.
Quando il mattino d’agosto ti avvolge tutta
nella tua aria passa un vigore di quella loro
vita e una figura d’efebo, indecisa,
immateriale, a volte corre via veloce
sull’alto delle tue colline.

(traduzione di Margherita Dalmàti e Nelo Risi, Einaudi 1968)


Ionica

Se, frantumati i loro simulacri,
noi li scacciammo via dai loro templi,
non sono morti per ciò gli dei.
O terra della Ionia, ancora t'amano,
l'anima loro ti ricorda ancora.
come aggiorna su te l'alba d'agosto,
nell'aria varca della loro vita un èmpito,
e un'eteria parvenza d'efebo,
indefinita, con passo celere,
varca talora sulle tue colline.

(traduzione di Filppo Maria Pontani, Mondadori 1961)


Alcuni giorni di quest'ultimo agosto li ho trascorsi in Calabria (la cosa più greca che abbiamo in Italia, a mio avviso), tra Reggio, Melito, Scilla e, in un pomeriggio al mare, mi sono tornati in mente sia la poesia di Kavafis sia il discorso di Chirone a Giasone nella Medea di Pasolini,poi è affiorato alla mente un rumore particolare, o forse è il rumore che mi ha fatto ricordare la poesia e il film, che da bambino mi incantava: la risacca delle onde tra le pietre...Ecco per me gli dèi sono lì, in quel rumore in quel silenzio ad esso sotteso...ma ormai da millenni la loro voce è flebile, la natura è diventata naturale e l'ascolto è sempre più remoto e stentato, eppure, pur non tentando un ritorno impossibile, nella lontananza qualcosa può essere ancora intercettato e reso con il linguaggio che più ci è vicino, la sfida che gli dèi ci pongono è questa in fondo.

venerdì 27 agosto 2010

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950)


Non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola.

Com'è grande il pensiero che veramente nulla a noi è dovuto. Qualcuno ci ha promesso qualcosa? E allora perché attendiamo?

Perché morire? Non sono mai stato vivo come ora, mai così adolescente.

Nulla si assomma al resto, al passato. Ricominciamo sempre.

(Il mestiere di vivere, annotazioni del 22, 27 novembre 1945; 16 agosto 1950)

venerdì 20 agosto 2010

Guarda c'è un toro che vola


IL gene dice che sei impazzito
perché non è scritto
che un toro possa volare,
che una bestia possa rovesciare
il rapporto tra vittima e carnefice.
Cosa ha spaventato di più in quel salto?
La fuga, lo slancio
o la precisione con la quale
hai afferrato il punto d'appoggio,
il modo in cui il tuo zoccolo duro
ha trovato il ferro?
C'era qualcosa d'intelligente
o di disperato in quel gesto?
Sapremo imitarlo?
Che perdita per la folla,
che fallimento,
vederti prendere il volo!
Come se fossi l'essere più dignitoso
tra ragazze in bikini
speranzose
di vederti salivare sangue
nel momento della stoccata finale.
I tuoi polmoni non si sono riempiti di schiuma
ma d'aria, o magnifica bestia sovrumana.

domenica 25 aprile 2010

Gli anni sottratti


Se si potesse prendere e farne una palla
Di stracci, di quello che chiamano passato,
Lo farei. Ma è qui e stringe la gola e i polsi,
più presente di questi attimi graffiati su un foglio
di ogni distrazione, più presente di te, amore mio.
Il gesso ancora stride sulla lavagna.
Tra me e te c’è una soglia di buio,quasi una luce.

lunedì 22 marzo 2010

Epilogo


Ogni tentativo d’ordine è fallito
Vigerà un ricordo, un’attrazione
Limature di ferro polarizzate
un non luogo a procedere
il profumo di un ospite andato via.
L’inquietudine sarà un domandare
ulteriore, forse un riserbo.

mercoledì 10 marzo 2010

Tutti al sud ché qui al nord nevica

11 MARZO ORE 20,30

PER “I GIOVEDI’ DI SUD”

Incontro con Vincenzo Frungillo
In questo fine inverno che non molla, ci sta bene un autore tosto,

un poeta che scrive in ottave moderne per infilarsi in angoli scomodi della Storia, dando voce a ragazze guerriere di eroismi inutili e rimossi. Insomma, ve lo immaginate voi un poema sulle nuotatrici della DDR alle Olimpiadi del 1980? Lui sì…

Vincenzo Frungillo (Napoli 1973). Dopo Fanciulli sulla via maestra (Palomar, 2002), nel 2009 arriva il lavoro che gli dà la fama, il poema in cinque canti Ogni cinque bracciate (Le Lettere). Da qualche anno porta avanti, con ammirevole coerenza di studio e frutti, una ricerca sulle ragioni dell’epica nella poesia contemporanea.

FRANCESCA, ANNA E LUCIANO

PER INFO

LUCIANO 3407373943

ANNA: 3332876930

martedì 16 febbraio 2010

da Note Sergio Soda Star

posto da GAMMM (febbraio 2010)

UN ALTRO APPASSIONATO DI NIENTE

C’era una volta un altro appassionato di niente. Questa storia si ambienta nella città caserta in provincia di napoli dove questo personaggio andava avanti senza prospettive essendo convinto che niente poteva appassionarlo, e cioè non amando il niente ma non amando niente. Questa differenza che lui faceva aveva sempre molte difficoltà a spiegarla perché spesso non appena diceva che era appassionato di niente e soprattutto che studiava filosofia nell’università di caserta moderna tutti pensavano che era il classico filosofo che faceva quei discorsi sul nulla, sull’infinito, sul cosmo ecc. ma non era così. Comunque finalmente gli studi finirono, e arrivò alla laurea alla quale presentò una tesi con un titolo assurdo che addirittura lo fece sfottere anche da parte dei suoi professori e dei parenti mentre discuteva, si chiamava Aprimenti veritativi: come autentificare e disvelare l’ontico in provincia di napoli. Lui però essendo disoccupato voleva continuare gli studi perché aveva già inventato un progetto che si chiamava Oltre l’aprimento veritativo. Linguaggio democratico e società civile, ma il professore gli disse che adesso era meglio se cercava un lavoro anche perché era un ottimo momento soprattutto nei coll centers e purtroppo avevano tagliato i fondi per la ricerca consigliandogli di scriversi alla cgl anche perché la situazione a caserta era quello che era. Lui certamente non fu felice ma il ragionamento che fece fu questo: “per me una cosa vale l’altra, nell’estasi del linguaggio. Ma questo non vuol dire che non proverò a spendere questo titolo a napoli, o che non proporrò il mio progetto di studio nelle università di quella metropoli”.

UN ALTRO APPASSIONATO DI PASSATO

C’era una volta un altro appassionato di passato. Lui trascorreva tutta la giornata pensando al passato non apprezzando il presente e il futuro che lui considerava delle fasi inutili infatti diceva che il presente non gli interessava e il futuro non esisteva ancora. Invece tutto il passato gli sembrava bellissimo e soprattutto la sua infanzia alla quale si era divertito moltissimo e aveva fatto delle ottime amicizie che gli erano anche rimaste, e anche dal punto di vista storico diceva che la preistoria era stata un’età eccezionale in cui anche se l’uomo doveva combattere con i dinosauri certamente viveva in un ambiente non inquinato a mangiava cibo sanissimo. Ma la cosa strana era che lui amava non solo il passato come epoca ma anche come tempo infatti usava sempre dei verbi come andai feci dissi bevei che purtroppo secondo lui stavano scomparendo e che dovevano essere conservati da tramandare ai nostri figli. Una volta però durante un viaggiò in Inghilterra conoscé due ragazze di Brescia che purtroppo lo sfotterono tutta la serata perché lui facendo dei racconti usava proprio quel passato remoto che loro consideravano una negrata ovvero roba da siciliani.

UN ALTRO APPASSIONATO DI AMORE

C’era una volta una persona molto particolare e cioè un altro appassionato d’amore. Lui aveva preso questa passione alle medie in cui non prendeva un canale che trasmetteva i film porno e quindi a differenza degli amici si toccava sui film normali come love story, napoleone, kramer contro kramer ecc. e quindi provava il piacere soprattutto sui baci, e ovviamente il passaggio dai baci all’amore era quasi automatico. Quando la mattina andava in classe mentre gli amici raccontavano di Cicciolina che veniva urinata addosso da tre uomini oppure di un porno tedesco dove c’era una comparsa per portare un secchio per contenere la masturbazione di un pony da parte di una ragazza, lui raccontava che aveva visto un bacio bellissimo oppure di una coppia che alla fine aveva fatto pace chiaramente sviluppando su di lui la rabbia dei compagni. Anche crescendo la sua passione non cambiò creandogli però molte difficoltà con gli altri e anche con le donne che dicevano che era omosessuale. Questa favola ci fa capire che molto spesso il nostro destino può dipendere anche da fatti casuali come la non presa di un canale televisivo, e che le donne spesso non sono molto sensibili nei confronti di quegli uomini che non avendo una cultura pornografica le trattano delicatamente.

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lunedì 25 gennaio 2010

Da Absolute Poetry

Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo. Appunti per la nuova epica italiana (3/3)

postato il 2010-01-22 13:26:13
da Valerio Cuccaroni





Chiudo i miei Appunti per la nuova epica italiana, tentativo di allargare alla poesia italiana contemporanea il discorso aperto sulla narrativa dal saggio New Italian Epic di Wu Ming, postando una recensione dedicata al poemetto in ottave Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo, pubblicata su «Poesia» n. 245, gennaio 2010.

Cfr. Appunti 1/3 e Appunti 2/3

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Vincenzo Frungillo, Ogni cinque bracciate, Le Lettere, Firenze, 2009, pp. 130, 20 €

L’epica affonda le sue radici nella storia, una storia che si fa mito di fondazione. Dall’Iliade all’Eneide, dalla Chanson de Roland alla Gerusalemme liberata. Ogni popolo ha il suo grande poema epico. O meglio, lo aveva. Perché la modernità, che dal Romanticismo in poi ha identificato la poesia con la lirica, ha privilegiato prima il romanzo poi il cinema per i suoi slanci epici. È per questo che, presentando il poema in ottave di Vincenzo Frungillo Ogni cinque bracciate nel risvolto di copertina, Andrea Cortellessa esordisce domandadosi «Cosa si può immaginare di più inattuale, oggi, di un poema epico in ottave?». Cinque ottave per ogni sequenza, cinque sequenze per ogni canto, per un totale di cinque canti, più un proemio e un epilogo.
Tuttavia l’inattualità è solo apparente: innanzitutto perché, come nota giustamente lo stesso Cortellessa, «nella generazione di Frungillo – magari guardando a esempi ormai remoti come quelli di Pagliarani della Ragazza Carla e della Ballata di Rudi – significativamente si assiste a un rinnovato anelito a raccontare storie, anche in poesia, che una buona volta superino lo spazio ristretto della soffocante “cameretta lirica”», ma soprattutto perché alla tensione verso l’ordine e la misura si contrappone una dismisura tutta moderna. Dismisura evidente, a livello metrico, nella prima sequenza del quarto canto, emblematicamente intitolata La caduta, la quale non è in ottave; nella prima sequenza del canto sucessivo, incisa da spazi bianchi e puntini di sospensione; nei molti versi ipermetri e nelle frequenti rime impefette, che ora prendono la forma di assonanze («braccia / gabbia»; «lenta / allena»), ora di rime per l’occhio («parabola / gola»; «vittoria / euforia / gloria»).
La dialettica fra misura e dismisura, armonia e disarmonia è invero la cifra distintiva di tutto il poema, in cui è narrata la storia della squadra femminile di nuoto della DDR, che alle Olimpiadi di Mosca del 1980, come ricorda Frungillo, «sbalordì il mondo per i record inarrivabili e per la giovane età delle loro atlete», i cui corpi «avevano qualcosa di mitologico; erano una sintesi tra la forza maschile e l’armonia femminile; erano il volto del comunismo nel mondo, erano delle aliene».
Lungi dall’essere l’apologia delle loro imprese, Ogni cinque bracciate è, per così dire, il referto del mito, perché «il loro racconto è segnato direttamente sul corpo» e quei corpi furono drogati perché fossero imbattibili.
Alle trasformazioni del “polimorfo” Ulisse, provocate dall’intervento divino di Atena, cantate da Omero, Frungillo sostituisce le mutazioni chimiche, prodotte dal nandrolone somministrato alle nuotatrici dal dott. Starkino, soprannome affibbiato da Frungillo al vero Sportführer (“guida sportiva”) del regime, Manfred Ewald. In Ogni cinque bracciate possiamo rintracciare il mito di fondazione della nostra civiltà, costituita da corpi-chimici, alieni, governati attraverso la bio-politica da un Potere di cui la Repubblica Democratica Tedesca è stata solo una delle tante maschere.
«Il secolo l’ho costretto in una provetta di vetro. / Chi può biasimarmi, se il mio gesto / è stato lo slancio di chi resta al centro, / immobile a fissare il corpo trasformato dall’epo. / So del tempo, del suo infallibile metro, / e in fondo mi vanto di questo; / di un’effimera vittoria sulla Storia, / della soluzione chimica della memoria»: questi versi, che veicolano idee attribuibili al dott. Starkino, non sono solo centrali per comprendere l’intero poema, ma suonano anche come una dichiarazione di poetica. Frungillo stesso, sicuramente conscio del tempo (moderno) e del suo infallibile metro (anti-epico), con le ottave di Ogni cinque bracciate, vere e proprie soluzioni chimiche della memoria, ha ottenuto un’effimera vittoria sulla Storia: una vittoria tanto più importante, quanto più riesce a far emergere, attraverso la metrica trasformata dall’epos, un micro-evento, un fossile dimenticato e far acquisire a questo fossile il valore di un’allegoria epocale.

Valerio Cuccaroni

lunedì 11 gennaio 2010

Alcuni "Sonetti da terre straniere" da La Libellula

Da La Libellula di Vincenzo Frungillo
pensando ai recenti scontri di Rosarno

Emigrazioni. Milano.

Escono dai sediolini dei loro viaggi
come tanti nervi vivi dai denti guasti,
portano una piega scomposta della testa
come ruga perenne della loro stanchezza

è la loro ed è la piega straniera
di chi consce lo spostamento,
il bivio mortale da cui nasce ogni accento,
loro annotano il vento,

perché è impossibile fermarlo,
tenerlo dentro,
lo spifferano, piuttosto, in uno sbuffo di gelo,

nello spazio d’un volto,
scomparendo, ogni giorno, all’alba, di nuovo,
nello sbadiglio del mondo.

V.
Risorgimento. Magenta.

Sono Solo Sonno. Si legge sulla centralina elettrica
della stazione di Magenta e in quella scritta
di vernice nera l’energia cinetica
interrompe la sua regola, ritrova la sua etica.

Allora tutto si ferma. E la battaglia,
ricordata con una targa commemorativa
ritorna nella nebbia, così anche le grida.
L’Italia risorge questa mattina dalla poesia

d’un adolescente che finisce l’impresa
iniziata più d’un secolo prima;
resistere alla voce straniera, all’incondizionata resa

del cupio dissolvi della nuova politica,
descrivere la provincia che fagocita
e il fagocitare che fa dell’Italia provincia.

VI.
La città del popolo. Völklingen

Ora vivo dove riposano gli elefanti
lì, dietro le ciminiere, tra le balle di ferro
puoi trovare il loro cimitero,
hanno la gabbia toracica ancora gonfia nel fiato.

Ci sono carrelli che salgono piano,
portano carbonfossile al cielo,
dal loro odore si sente quant’è nero.
Un operaio mi viene incontro, mi stringe la mano,

dice che è caduto lavorando-
i fantasmi hanno le dita molli del dubbio
come di chi saluta senza volerlo-

lui di questo posto è il guardiano,
controlla che nessuno tocchi l’avorio,
quel poco rimasto, dice che adesso solo io posso vederlo.

VII.
L’onda anomala

Lasci l’istinto minimale,
le cose poco serie, i refusi sul giornale,
a chi ancora crede in una correzione
e fissi l’orizzonte,

la sua pancia gravida di onde.
Resti in piedi nella secca, una sogliola ti fissa,
resta muta la natura, tutt’intorno si ritira
con l’onda di risacca che respira.

“Torna! Torna!”
Grida qualcuno dalla riva,
ma tu sai che la marea arriva,

che è l’ultima tua sfida
risalire in superficie,
ritrovare volume, riassaporare la fine.