venerdì 30 dicembre 2011

Almanacco di un professore



Un atto d’amore. Questo ho pensato leggendo il bel libro del Prof. Gennaro Lubrano Di Diego, Almanacco di un professore – Delizie e nequizie della scuola (Guida Edizioni, 2009),corredato da un’interessante prefazione di Paolo Mazzocchini. Un atto d’amore verso l’insegnamento, verso gli alunni, verso la filosofia, disciplina insegnata dall’autore. Un atto d’amore dunque, ma un amore a volte amaro, venato da una malinconia profonda verso il disgregarsi dell’istituzione scolastica e del ruolo centrale dell’insegnante. Le riflessioni che punteggiano le pagine di diario, dell’almanacco appunto, di un anno scolastico, non sono mai banali e tantomeno consolatorie o auto assolutorie per la categoria dei docenti. Nelle annotazioni di Lubrano Di Diego c’è il coinvolgimento di chi è in medias res, ma anche la lucidità di chi non perde mai il senso del lavoro e della vocazione che porta un uomo a decidere di educare adolescenti, ossia persone gettate in quella fase della vita dove prevale la negazione, la negazione dell’autorità e il suo inconsapevole assumerla a modello polemico, negazione dovuta al non essere più bambini, con il caldo rassicurante della famiglia, e il non essere ancora adulti, con le sue forme ormai definite. Estremamente significativa a tal proposito la pagina dell’almanacco in cui il Prof. sottolinea come da una lezione sulla Fenomenologia dello spirito, proprio attraverso la negazione e il riconoscimento delle autocoscienze si possa entrare in relazione con il vissuto e la percezione di sé che gli adolescenti hanno: “mi sembra, se riesco ancora a leggere la grammatica delle espressioni dei miei studenti, che essi vadano via contenti di aver capito qualcosa e non tanto di Hegel ma, attraverso Hegel, dell’uomo e di se stessi”. È su quest’attrito esistenziale, che i ragazzi esprimono, che il docente interviene e lo deve fare con la massima preparazione possibile e soprattutto con la massima sincerità e onestà intellettuale; quella che manca a molti che si occupano di scuola o di coloro che parlano di scuola e addirittura pretendono di riformarla senza coglierne il senso esistenziale e civile profondo, ma la concepiscono come un apparato amministrativo e burocratico qualsiasi, da aggravare con formule  e procedure che l’autore sintetizza bene nell’espressione “didatticume”, a cui fa da contraltare speculare il tentativo di trasformare la scuola con modelli aziendalisti del tutto fuori contesto, per rispondere, con un rimedio peggiore del male, alla palese inadeguatezza della scuola pubblica rispetto ai compiti che le sono assegnati dalla Costituzione. Altro punto critico che l’autore ha sempre ben presente è il guasto procurato, a suo dire, dalla cosiddetta ideologia sessantottina (da cui Lubrano Di Diego pur riconosce di provenire) e dal mal inteso senso della democrazia (assemblearisitca) ad esso legata, che di fatto ha causato una confusione di ruoli, in cui il discente non vede nel docente un polo dialettico, ma una punto inconsistente svuotato di qualsiasi autorevolezza, di cui si può in fondo fare a meno, perché le priorità della vita sono altre. Naturalmente tutto ciò non può non essere anche legato allo sfaldarsi del ruolo genitoriale e al proliferare di agenzie informative e mass mediatiche che di fatto sostituiscono la scuola come agenzia formativa. A tal proposito sono particolarmente significative le osservazioni che l’autore fa circa le tesi del Professor Giorgio Israel e quelle di Don Giussani, discutibili, ma che hanno il pregio di fornire un' “ipotesi di senso” su quello che dovrebbe essere la scuola; “ipotesi di senso” che è poi quella che gli insegnanti dovrebbero offrire agli allievi nella loro formazione.E questa “ipotesi di senso” ha come caposaldo che lo studio è un mestiere che ha le sue regole, le sue durezze e la sua disciplina e che ciò non può essere evitato se si vuole che gli allievi divengano ciò che ancora non sono: formati, liberi e maturi. In una parola: cittadini. Queste riflessioni sono inserite nella narrazione, ma meglio sarebbe dire intrecciate,  accanto ad episodi di vita scolastica - in questo la città di Napoli, in cui l’autore vive e insegna, con i suoi drammi e la sua “commedia umana”, funge da acceleratore narrativo - a volte leggeri, a volte drammatici, dove l’autore mostra al lettore, con una scrittura colta ma al tempo stesso estremamente coinvolgente, la “meraviglia” dell’insegnare le sue delizie e nequizie, come recita il sottotitolo. E forse l’amore è la chiave per interpretare il bel libro di Lubrano Di Diego, ossia, per riprendere il concetto platonico di Eros, il filo rosso delle annotazioni del libro è che si impara principalmente per via erotica e non per via intellettuale e questa verità elementare e sconvolgente non può essere rimossa o sostituita da nessun ideale dell’insegnamento neopositivistico o tecnocratico. Insomma traducendo in chiave laica, secondo l’ipotesi formulata da Umberto Galimberti, il monito paolino “Non intratur in veritatem nisi per charitatem”, nessuno può entrare nella verità se non attraverso l’amore, se non attraverso quella seduzione per il sapere, che passa attraverso la persona del docente stesso, che ogni insegnante deve offrire ai propri allievi.

                                                                                                                                  Francesco Filia

giovedì 22 dicembre 2011

Poesia e Teoria



Il greco "theorίa"  significa "riflessione"  ma anche "solenne ambasciata", "spettacolo". E forse non ci può essere grande poeta che non abbia intuizioni teoriche su altri grandi poeti, che non li rappresenti sul palcoscenico di una potenza concettuale. D’altronde è patetica la mitologia del poeta che – privo di questa potenza – sa tuttavia "raccontare" o "sognare", come se il sogno fosse il paese dove si annebbia la spina intelligente. Accade che devi versi svenino il proprio pensiero fino al punto di non riconoscerlo. Ma questo serrante pensiero deve esserci stato: proprio allora i versi entreranno nella ragione che esso non conosce! Se quei versi dubiteranno, se avranno il cruccio di non aver pensato abbastanza… quanta ignobile poesie di idee è nata da questo cruccio.. quanti inginocchiamenti ai filosofi… o quanti accantucciamenti nella poesia d’impressioni. Nessuna sottomissione della teoria alla poesia, se sono sorelle greche. E nessun confronto, perché queste due estranee si devono essere amate.

Da “Poesia e destino”, Milo De Angelis, Cappelli editore, 1982.

lunedì 19 dicembre 2011

La scrittura


L’unico modo per restare fedeli a sé stessi, all’altro, allo sconosciuto che ci abita, è scrivere solo sotto l’impeto glaciale della necessità. Quando non c’è, non bisogna mettere penna su carta, pena l’insipienza.
Se non si ha chiaro quest’elemento essenziale, anche tutto il resto, tutto quello che si può dire sulla scrittura e in particolare sulla scrittura poetica, rischia di essere distorto.
Cosa si deve intendere con necessità? Ciò che non può essere diverso da ciò che è, secondo la definizione classica. Ma per chi scrive cosa significa? Significa far emergere il nucleo originario, mitico dell’esistenza che ci abita. È evidente che in quest’ottica non tutto ciò che scriviamo è necessario.
La necessità nell’uomo ha, però, un carattere paradossale, perché essa si dà come possibilità, cioè come qualcosa che potrebbe anche non essere, la vita stessa dell’uomo in quanto possibilità potrebbe non essere, il senso potrebbe essere definitivamente nascosto. Qui il poeta, come uomo che cerca l’origine,  gioca la sua scommessa disperata: dire il necessario che, però, potrebbe anche non essere. In fondo nessuno che scrive è convinto in maniera certa e indubitabile di essere un poeta, perché altrimenti non scriverebbe più, c’è sempre la possibilità dell’inganno, senza un qualcosa, un ente un logos che ci rassicuri definitivamente. Siamo sempre sotto la spada di Damocle della nostra possibile idiozia, delle nostre parole al vento. E’ questa la condizione di chi scrive.

giovedì 15 dicembre 2011

Vincenzo Frungillo da Nazione Indiana per XI Quaderno di poesia contemporanea


La fine di Lucrezio

“Sed ne mens ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo”.

Finire non è uscire dalla vita,
ma è restare per sempre
nella sua scena madre,
è un difetto della vista,
che non si sceglie, si subisce,
e vede solo chi sa guardare
la nostra ferita mortale.

La pausa al crollo verticale
piega ogni scoperta ad una luce esterna:
la ragnatela dietro la porta,
il ragno ipnotizzato dalla preda,
rispondono ad una sola regola:
la luce, quindi la luce,
è il culmine della specie
e la luce non è fonte naturale,
anche se è l’occhio che vede
la nebulosa di cenere sul cratere,
è la parola del poeta
che ne cattura ogni particella.
Sarebbe polvere lunare
senza il suono della sua voce.
È lei che scopre l’origine,
l’atomo che esita prima di cadere;
vede il vuoto e l’elementare
formare il bivio mortale,
il dubbio d’Eracle,
la Y della decisione;
a quella fionda dona potenza,
a quella croce il dolore.
Il sublime è la precisione.

Ma adesso, cosa avrò da dire,
cosa avrò da raccontare,
come rivelare il sublime,
l’iridescenza del clinamen!
Dopo aver visto la vista,
non mi resta che tacere.
Materia prima è la stoffa
che asciuga la parola del poeta,
questo tessuto di pergamena
trattiene il canto delle cicale
dall’incavo delle loro larve,
quando ai piedi degli ulivi
tutto diventa pace; la morte
è lì presente, ma il frinire
delle loro ali già riprende.
Sapersi mutazione costante,
oltre la divisione delle caste,
anche se il mondo, orfano del sublime,
vede ogni cosa senza la sua fine.

Disegna sul foglio una sfera,
prova ad intaccarne la forma,
perde sangue la materia,
quest’atomo spera
in una fusione che non s’avvera.

Dio tace.
Saperlo assente è la prova vincente!
Niente mi costringe ad educare
questa pioggia sottile, saperla già salva
dal pantano delle strade
e la cenere che minaccia di fossilizzare
in un calco eterno il lupanare.

Adesso sento crescere la materia
sotto la punta della penna a sfera,
sento la parola graffiare la pergamena,
la semiosi concreta che ridesta.
Perché non c’è un uscire dalla vita
che non sia pure un entrare
nella piega mortale del clinamen.

Intorno è un tamburellare di strade.
C’è una sola voce che sale.
Il polipo verace pende dalle canne,
la sua ventosa sembra portare
sulla terra ferma il litorale.
La battigia tocca le case.
Un altro mercante vende uova fresche.
Il nucleo è sospeso nel suo albume.
L’analogia ci pervade.

Gallina, carne, lubrificazione
della vagina che attrae
il pene in erezione su fino alle ovaie
il seme sale, l’utero paziente attende…
(il gallo nasce non dall’uovo
non dalla gallina, ma dal piacere,
da un momento di sospensione).
Venerea influenza della specie
la ferita genera latte e urina,
infetta la nostra anima latina.
Bellezza, certezza della vita estrema,
salire di schiena al tempio della dea,
la Venere etrusca, padrona della fiera,
non regala una sola misura,
ad ogni corpo affida la sua caduta.

Memmio, mio figlio,
mio unico allievo,
mio solo consiglio,
prima degli altri l’hai capito,
solo tuo il messaggio,
nella casa del maestro
hai distrutto il peripato,
il giardino sterminato
dalla tua giovane mano.
Non vedrai le loro chiacchiere
crescerti nel petto,
come larve di mosche
invecchiare il tuo aspetto.
Resterai immutato nel tempo,
rifrazione di luce, un solo spettro.


Una
è la regola,
ma varia la misura,
tornano i corpi verso la fonte,
poi se ne allontanano per repulsione,
così gli astri, così la luce, così il sole
ripetono la rivoluzione, la regola prima della generazione
e anche se alla fine il vulcano mi darà ragione,
tutto intorno sarà solo cenere e distruzione,
io non voglio la fine d’Empedocle,
ma la vita degna d’Iperione.
Perché la regola è una,
ed unica è la fonte
guarda, Memmio,
il sole.


Vincenzo Frungillo nasce nel 1973 a Napoli. Nel 2002 ha pubblicato il suo primo libro di versi Fanciulli sulla via maestra (Palomar, Bari). Nel 2007 è stato finalista del Premio Delfini con Ogni cinque bracciate. Un estratto. Nel 2009 pubblica Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti, (Le Lettere, collana Fuori Formato, con una prefazione di Elio Pagliarani e una postfazione di Milo De Angelis). Un piccolo estratto del libro è stato tradotto in Germania, una parte più ampia è in corso di traduzione negli Stati Uniti. Nel 2011 è tra gli autori di La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (Perrone). Parte del primo capitolo del romanzo inedito Il genio degli avanzi verrà pubblicato in dicembre per La Libellula. Rivista di italianistica. E’ redattore di Puntocritico e Absoluteville.

martedì 13 dicembre 2011

venerdì 9 dicembre 2011

Marco Simonelli da Nazione Indiana per XI Quaderno di Poesia Contemporanea













NUOVI INQUADERNATI 6.
MARCO SIMONELLI

Pretty Picture

Si sciolsero i Soft Cell nel millenovecentottantaquattro
e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero
come è vero che il synth-pop negli anni ‘80 contendeva
le vette d’ hit-parade ad internazionali megalomani melodici
ed è vero come è vera la tequila, il lemon soda, il tuo bicchiere
uno schermo di ghiaccio, di bottiglia da cui mi vedi a tratti
come dietro al vetro zigrinato di una doccia con qualcuno –
ed è vero come è vero che accendo una sigaretta dietro l’altra
solamente quando percepisco nell’ambiente un’insolita tensione.

Ed è vero come è vero che Marc Almond si chiede con Sex Dwarf
se non sia carino veramente, con zuccherini e poi con spezie varie
attirare un bambolotto, un tipo truzzo, un tizio danzereccio
in una vita scandalosamente piena di vizio abbacinato
come è vero che nell’ottantaquattro avevo solamente cinque anni
e davvero pensavo che da grande in una discoteca succedessero
le cose che un bambino non dovrebbe certamente mai vedere
ma ero un tipo attento e interessato, divoravo conoscenze
e inoltre ballare mi piaceva, soprattutto poi davanti ai grandi.

E questa non è altro che una prova schiacciante e non so bene
se per l’accusa oppure la difesa ma rimane comunque un fatto vero,
una foto sfocata che ti ritorna in mente come alla radio un ritornello –
e se adesso so con sicurezza ciò che si dice in giro degli uomini bassini
è solo perché anch’io sbiadendo m’ingiallisco e poi passo di moda
come Marc Almond che adesso canta le canzoni di Jacques Brel
e tuttavia rimane un fascinoso cinquantenne, e la tequila è lì
che mi separa da te, da qualcun altro, in una discoteca di vaniglia
dove conta solamente la presenza, qualunque cosa accada.

Leptocephalus brevirostris

Quando, venendo dal capoluogo sfrecci lungo la Firenze-Mare
lo vedi chiaramente azzurro nella valle dal cavalcavia;
dopo la galleria ti salta addosso al parabrezza
e per un attimo ci credi, che sia davvero il mare.
Sul lago, Puccini passò la sua vecchiaia.

Accadde quando ancora l’epoca rampante riscopriva
i piatti regionali con la degustazione d’un gourmet,
cibo povero di quando la famiglia non poteva
permettersi la carne ad ogni pasto.
Dice l’Artusi che i cuccioli d’anguilla
sono foglie d’oleandro trasparenti come il vetro:
la borsa spermatica del maschio è simile all’ovario della femmina
e migrano nei laghi per una metamorfosi.
Aspirano l’h anche quaggiù, le chiamano le ciehe.

Da giorni ne parlavano, gli adulti,
scambiandosi al telefono un codice segreto;
ce l’avrebbe fatta, dunque, il pesciaiolo – quel pirata -
a procurare l’illegale bottino d’ambizione
e poco male se quel fiero pasto costava allora
poco meno d’un milione: le anguille appena nate
sono prelibate.

Mio padre sul cancello coi contanti
aspettava il pusher pesciaiolo
con l’ansia d’un drogato in astinenza.
In un sacchetto d’acqua, brulicanti,
molli e trasparenti s’agitavano a migliaia – girini ancora vivi -
guidate da un interno istinto inutile oramai,
proprio come spermatiche creature che già sanno
dove andare per trasformarsi in altro.

Sul setaccio schizzarono frenetiche,
inquieti murenoidi all’oscuro della situazione.
Mia madre versò una goccia d’acqua
sull’enorme padella prestata da un’amica:
sfrigolando evaporò dopo un momento.

Sui crostini fatte pappa, nella pasta lunga come condimento
insieme a poca scorza dell’arancia e poi limone:
durante la cottura quell’agonia dell’olio caldo le tramuta,
sbiancandole le allunga e a colpo d’occhio non sapresti
distinguere le larve da un piatto di bavette.
Tranne forse per quegli occhi, minuscoli puntini
ad un’ estremità dello spaghetto, neri come
se la luce in un istante fosse implosa.

Non era pepe ma uno sguardo
che non implora più.

Spiaggia libera

Viale dei Tigli, la variante Aurelia srotola la strada: siamo nello sciame,
magliette, ciabatte, stampate fantasie multicolori, un fluorescente
succhiare di Calippo per la strada; domenica, c’è il sole, tutti quanti
quantificano all’aria la pelle nuda ancora da ustionare.

Passeremo svoltando la pineta, sicuri di trovarti ancora lì.
Il tuo tipo è uno che respira: una faccia da schiaffi, tatuato,
efebico oppure ipertricotico, lo strepitoso fascino
dell’ultracinquantenne in piena forma. E dopo le dune l’orizzonte.

Sei fissa in una fascia Gucci bianca intera, sei Liz Taylor,
la Circe più abbronzata e bionda tinta della costa.
Anna, minaccia ancora la nostra ingenuità. Hai quarant’anni.
Distesa sul tuo telo rosa fuxia circòndati di giovani,

più giovane tu di quella giovane che vinse l’anno scorso
lo sponsorizzato concorso di Miss Trans.
Stenderemo intorno al tuo gli asciugamani, riprenderai la storia
di un autunno che chirurgicamente tu non senti:

ricevi a casa adesso, eppure nei dintorni ci passi volentieri,
saluti le tue amiche, ci racconti di un’età lontana quando eri
a Livorno ragazzino e non ancora Towanda la Guerriera.
E poi siliconati impianti e mai avvenute evirazioni.

Quando dalla base americana sfrecciavano le reclute
i rangers, per te tutti marines: tutta salute all’epoca del dollaro!
Limpidi guanti: l’Aurelia a Migliarino, Marina di Vecchiano.
Avevi una roulotte. Passavi avanti a tutte per un salario serio.

Adesso puoi permetterti di scegliere: estrogeni, lunga transizione –
l’hai letto sul tuo corpo che l’uomo da solo si spaventa.
I tuoi contanti dentro al portafoglio proteggono il domani
dall’incerto precariato. L’hai sudato, questo apprendistato.

Gli uomini sono come dei gattini, non devi accarezzarli contropelo
si rischia il graffio, un taglio involontario e curati di te
e solo dopo curati di loro: passa i polpastrelli dietro al collo,
le loro fusa spasmi, un lamentarsi al caldo del sudore.

A mezzogiorno pranzi col ghiacciolo, dagli ambulanti compri
braccialetti di filo colorato, ad ogni nodo un desiderio:
gli amici, dimagrire, i conoscenti: pochi ma leali.
Verrai da noi a cena. Arriverai col sugo per la pasta.

All’una un’altra lucky strike, assisti alla sfilata:
abbronzàti si scrutano bagnandosi i piedi alla battigia,
l’incendio dei costumi. Sono mimmi
nei giorni di vacanza, non sai se in salvo o in saldo.

Da quando l’hai rivisto non fai che ripensarci.
Ricordi come pianse quando seppe; il suo corpo tremava,
scoraggiato ti disse che eri bella come una regina.
Si guardava peloso il ventre piatto. Gli estrogeni erano impossibili.

La resina s’appiccica sui corpi, è stato come un pianto.
Li vedi ritornare, riconsideri il sorriso, il pomeriggio
scroscia in chiacchiericcio, sei raggiante, la tua socialità
dimentica imprevisti e probabili armatori vedovi da poco.

L’amore equo e solidale lo impareremo dopo.
Diana cacciatrice: sei come Salomè con il battista,
l’esperienza ti ha insegnato a fischiare agli stalloni
come fossi un camionista.

Adesso ti slanci, una corsa di cerbiatto e spruzzi il mare
le onde che affronti in pieno petto ti spostano il costume,
mostri il seno e per pudore abbassiamo tutti gli occhi,
e tu ci guardi come quelli che restano all’asciutto.

MARCO SIMONELLI è nato nel 1979 a Firenze, dove vive. Lavora come traduttore. Ha pubblicato Memorie di un casamento ferroviere del ‘66 (Florence Art, 1998), Sesto Sebastian – Trittico per scampata peste (Lietocolle, 2004), Palinsesti (Zona, 2007) e Will – 24 sonetti (d’If, 2009). Per Black Sun Productions ha scritto i testi di Hotel Oriente (anarcocks.com, 2011)