sabato 28 dicembre 2013

da L'ora stabilita




53
Ognuno
ricomincia
dai suoi giorni perduti
da ogni pagina strappata
ricomincia da quel “troppo tardi”
che lo divide
dal suo domani.



54
Forse
tra una smorfia
e questo marciapiede
che affonda centimetro
dopo centimetro
non mi è possibile
farti capire perché
ogni mattina
si dice
“Sì”.



55
Il sorriso dei tuoi occhi
è morto
senza un perdono, senza
alcun perché. Tutto
coincide, amore,
nel crollo di questa luce
nell’annientarsi
di questo fulgore.






Francesco Filia



giovedì 19 dicembre 2013

Le parole sulla città






Le parole sulla città
Reading con Viola Amarelli Sergio CerrutiVincenzo FrungilloGianni Montieri - Francesco Filia.  Sabato 21 Dicembre ore 18,00 – Libreria Treves (Piazza del Plebiscito 11/12 – Napoli)

martedì 3 dicembre 2013

venerdì 29 novembre 2013

Vincenzo Frungillo IL CANE DI PAVLOV (RESOCONTO DI UNA PERIZIA)

















*
Il vantaggio di studiare la scienza
è vedere tutto nella sua funzione,
prepararti all’amministrazione,
lasciare la linea d’ombra dell’adolescenza.
Una cosa è importante nelle leggi:
sabotare le costanti,
metterle alla prova,
rinvenire la variante,
ciò che resta pur se cambia.
Nelle cavie da laboratorio
si ripete il sacrificio,
l’innominato destino
di chi sorseggia il vuoto
come se fosse fonte prima.
Da lì attinge l’occhio della ragione,
come faceva Freud con i suoi malati,
come faceva Pavlov con i suoi cani.
Per millenni l’hanno fatto i maschi,
io sono stata la prima donna,
questo ha suscitato tanto scalpore,
sono Tatiana che distrugge il suo eroe.
*
L’ho portato nella mia camera da letto.
“Ecco questo è il cane di Pavlov”.
Gi ho detto, mostrandogli la gigantografia
che ho sistemato sulla testa del letto.
“Il cane di Pavlov, uno dei suoi cani,
è stato imbalsamato dopo l’esperimento del 1908,
alla bocca gli hanno applicato una fiala
in cui è contenuta la sua bava”.
“Dio, che schifo!! Non ti fa impressione,
tenerlo sul letto, come fai a dormire
con quel coso sulla testa!”
“Non dirmi che a casa tua,
tu, o tuoi genitori, non avevate un crocifisso?”
Gli ho risposto con pazienza.
“Certo, ma che c’entra!?”
“C’entra un uomo, o meglio il suo cadavere,
che prima di essere stato ucciso
è stato torturato. Diciamo che il cane
è il corrispettivo di quel corpo.
Ogni epoca ha il suo dio,
e la legge per cui si muore.
Chi era il poeta che diceva
bisogna o che la scienza
annienti il cristianesimo
o che faccia tutt’uno con esso?”
-lui mi ha guardata perplesso-
Ma il motivo per cui amo questa foto,
e che più m’inquieta, è che nessuno sa
se la bava contenuta nell’ampolla
sia di prima o di quarta fase,
se esista davvero l’oggetto del desiderio.
Ecco perché amo questa foto,
la tengo sul mio letto”.
“Mi sento poco bene,
mi si secca la gola”.
Lui ha detto con uno strano pallore.
“Non ti preoccupare”.
L’ho rassicurato.
“Tra poco tornerai a salivare”.
-

Vincenzo Frungillo
IL CANE DI PAVLOV (RESOCONTO DI UNA PERIZIA)

Collana: i miosotìs / n. 68
formato: cm 10,5 x 17 in brossura
copertina e interventi grafici: Studio Guida − Napoli
cod. ISBN: 978-88-6730-010-5
pagine: 48 – € 12,00
distribuzionevendita in proprio e in siti internet

Un poemetto che racconta dell'incontro tra Martina e Bruno, e dell'addestramento di lui per stimolo e risposta alla maniera di Pavlov. Nella Milano da bere, dove le relazioni sono ridot-te a giochi di dominio e di sottomissione, l'unico modo per “fuggire la percezione media della vita” è affidarsi alla carne e al dolore. Ed è in questa Milano che si ambienta la storia di un'estasi scandalosa, di cui Martina, la segretaria “senza voce”, stila la “sua” perizia. È un’uscita dal mondo e da se stessi, per cui Bruno può godere solo legato a un letto, in un'agonia che lo porterà lontano anche dalla sua carnefice, rimasta a guardarlo con invidia. Un bestiario in cui la poesia, grazie anche alla coppia cane di Pavlov / oca di Lorenz, getta uno sguardo sulla scienza contemporanea.

La collana – 70 titoli, un’antologia in progress della nuova letteratura italiana, conosciuta e apprezza-ta da lettori di poesia e da specialisti. Sono piccoli fiori di carta – con l’accento alla francese come in una canzoncina per bambini – che continuano a fiorire sugli scaffali delle librerie e dei lettori. Elegan-ti, a un piccolo prezzo, con un contenuto prezioso: da conservare e/o da regalare... per indurre l’effetto dei nontiscordardimé. Dal 2006, oltre alle operette dei vincitori del Premio di Letteratura Mazzacurati – Russo, i miosotìs, a firma di autori di rilevanza nazionale, si sono doppiati nel formato e arricchiti di un CD o di disegni d’arte.
L'autore – Vincenzo Frungillo (Napoli, 1973), vive e lavora a Milano. Ha partecipato a premi come il Delfini
e il Dedalus-Pordenone Legge. Pubblica poemetti in riviste, antologie e libri, tra cui Ogni cinque bracciate. Poema in cinque canti (prefazione di Elio Pagliarani, 2009); La fine di Lucrezio in La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio (a c. di G. Alfano, Petrone 2011) e Meccanica pesante (XI Quaderno di Poesia con-temporanea a c. di F. Buffoni, 2012). Suoi testi sono tradotti in tedesco e americano.
Tutti i libri della casa editrice sono presentati nel sito della d’if, dove è raccolta anche la rassegna stampa alla voce «scrivono di noi».

lunedì 25 novembre 2013

Finzioni

Facciamo finta che tu sia davvero un ragazzino seduto a tavola con i tuoi genitori che si amano e che si conoscono da una vita, facciamo finta che tu non abbia fatto altro durante la tua infanzia che notare la pasta che tua madre mette nel piatto, che tu abbia imparato a misurare il livello della sua felicità da come ha scolato l'acqua, il sugo denso o annacquato fa una bella differenza, facciamo finta che tu non abbia capito che quello era il suo modo per odiare una certa morale macista, che lei voleva dirti: "Oggi, mio caro, sono poco meno che felice". Facciamo finta che ora questo ti sia chiaro e che tu non sia più quel ragazzino, che sei a tavola con la donna che ami da una vita, e noti che lei sta facendo finta di essere tua madre, che indossa la sua tristezza per dirti che non è poi così felice, tu fa finta di capire che la vendetta è un piatto che va servito freddo e che tuo padre queste cose non poteva saperle, facciamo finta che tutto questo adesso sia chiaro a te, a lei, che ti ama da un vita e che non è felice, a tua madre che non è mai stata così infelice da quando tuo padre non c'è più, ecco, facciamo finta che tutto questo sia vero e che tu adesso sia un uomo solo che misura e prende nota della felicità delle donne che ha amato, osservando il piatto che gli sta davanti mezzo vuoto, facciamo finta che tu abbia capito che le donne che hai amato siano tutt'una nel dire che i tuoi desideri sono solo proiezioni o fantasmi del padre muto che osserva la pasta galleggiare in un dito d'acqua e che, nonostante le lacrime della tua donna e di tua madre, non dice niente, resta ad osservare il pranzo che fa pena. Facciamo finta che una di queste ipotesi raggiunga la sua dimostrazione e che per una volta tu e tuo padre riusciate a parlarvi e che le donne se ne stiano in disparte come accade nelle vecchie case quando si rassetta il pavimento dalle briciole del pranzo e che tuo padre una volta buona ti dica: "Figlio mio, tua madre è infelice, figlio mio, non è detto che gli uomini e le donne possano vivere insieme, figlio mio, se esiste una equazione che possa dimostrarci, che possa renderci veri, tu dimostrala, anche se dovesse essere una preghiera, tu prega". Facciamo finta che io sia un uomo seduto solo a provare un'Ave Maria, facciamo finta che non riesco, perché io non prego, facciamo finta che inizio a scrivere l'equazione che spieghi la relatività d'ogni rapporto e che io risulti come variante indimostrabile dell'amore, facciamo finta che tutto questo sia vero e che il mio segno si approssimi allo zero. Facciamo finta che il risultato che conta sia la finzione. (Vincenzo Frungillo)

domenica 24 novembre 2013

Nota su Millimetri di Milo De Angelis (pensata per la presentazione milanese del 15-11-2013)

Tutti i titoli di Milo De Angelis evocano il margine di approssimazione alle cose (Somiglianze, Distante un padre, Biografia sommaria), citano l'ineliminabile separazione tra la parola e le cose. In Millimetri questo spazio è il tema centrale: la distanza che dice la parola, è alimentata dalla parola stessa che tenta di dirla. Millimetri è la presa d'atto di questo destino umanissimo, il destino del poeta. Parliamo allora di un libro originario, un libro per certi aspetti dalla perentorietà greca, così come è stato ricordato da alcuni autori più giovani. Penso a Fabio Jermini o a Francesco Filia. Filia in una sua mirabile recensione a Millimetri accenna ad esempio all' a-peiron di Anassimandro: l'a-peiron è appunto il "senza limite" ossia lo spazio che invece di chiudersi nella verbalizzazione si alimenta all'infinito in un moto perpetuo e pendolare. I versi che tutti ricordiamo di questa raccolta recitano: "In noi giungerà l'universo/ quel silenzio frontale dove eravamo/ già stati". Qui è pronunciato il moto oscillatorio della parola, che apre lo spazio che vorrebbe circoscrivere, che subisce lo spazio che vorrebbe colmare. Lo sforzo non può che risultare una corsa sul posto, un gesto che piega il corpo su se stesso: "La saliva, per la seconda volta,/ risucchia se stessa;/ beve". Millimetri è l'ostinata misurazione di un destino, è il punto in cui un percorso poetico si riduce all'essenziale e proprio per questo diventa più evidente e luminoso. La compressione aumenta l'energia e la potenza del verso. (Non parliamo di depressione che è per definizione "l'incapacità di distinguersi dalle cose", qui non è necessario l'aspetto autobiografico). I versi "si frazionano", parafrasando una bellissima poesia di Somiglianze (Frazioni), sono unici e assoluti in ogni loro a capo. Gli altri libri di Milo De Angelis rispetto a Millimetri hanno di certo una maggiore propensione corale e narrativa, la distanza è sperimentata sui corpi e nei destini condivisi. La misura minima di cui qui si parla non è necessariamente di natura verticale ed evenemenziale (se vogliamo attribuire a questo termine una valenza religiosa ossia di legame con l'Altro), è invece il destino di un singolo che vive tra i simili ad occhi aperti. Libri come Somiglianze, Distante un padre e Biografia sommaria testimoniano la natura anche orizzontale e frontale della poesia di Milo De Angelis (se mi è permessa questa semplificazione). Per questo motivo mi sembra che si colga un solo aspetto della poesia di De Angelis se la si riporta ai soli modelli di Luzi e Bigongiari, come se la sua poesia fosse una mera derivazione dal simbolismo e dall'ermetismo. Così facendo si tralascia la propensione del poeta ad osservare frontalmente le cose, la sua propensione a stare tra le cose. E' stato Fortini a ricordarci come nella poesia di De Angelis ci sia invece tutta la forza e la violenza degli scontri, prima che politici, fisici e molecolare tra i corpi. Mi piace ricordare un altro verso di nitida incisività di Somiglianze che recita: "Sembra di tutti questa piazza, ma è terribile, è mia". Il percorso della sua poesia, dagli anni settanta ad oggi, è a mio avviso un attraversamento della "piazza", dello spazio, che sembra di tutti ma è principalmente di chi riesce a vederlo e di chi lo subisce. Forse è un gioco troppo facile ricordare che l'ultima raccolta di De Angelis richiama proprio l'attraversamento di uno spazio, non più una piazza, ma un cortile (Quell'andarsene nel buio dei cortili)in una delle poesie della raccolta possiamo leggere: "Giungono, stanno giungendo. Sono brandelli./ brandelli di un'estate. La vecchia/ ha in braccio proprio lui,/con ginocchia macchiate di catrame./ Solo, occultato nel buio dell'indomani,/ corre ancora metri. L'altro, nella luce/ artificiale del campo Pirelli,/ salta uno e novantuno/ e poi scompare. Tu guardi sempre lì/ e a volte, con gli occhi fissi, cominci ad applaudire". I magnifici versi sapienziali di Millimetri qui si riempiono del corpo fisico che ha abitato tutto l'arco di una produzione poetica e lo sguardo del poeta è ancora una volta fisso e frontale. In ogni caso senza l'estremo sguardo di Millimetri anche questi ultimi testi di De Angelis non possono essere compresi nella loro natura essenziale e destinale. (Vincenzo Frungillo)

domenica 17 novembre 2013

da Diario di una vacanza (inedito)



VII - L’azzurro cupo di questa stanza

I compiti per le vacanze non finiranno mai, saranno
il tarlo che incupisce i giorni del nostro altrove.
Riprenderemo la divisione dal principio, ecco
siamo al punto dove non c’è più resto,
ma uno zero che fa saltare i conti, che rende
quest’unità inseparabile. Oppure
già con quel dolore negli occhi, in un gesto
che raccoglie i capelli prima dell’amplesso,
o il braccio che avvolge i seni mentre cerchi qualcosa
con il tuo sorriso fisso, assorto, un piacere
che è oltre questo mio stare sdraiato sotto
di te, questo mio darmi da fare, oltre questo starti
dentro già dimidiato, già troppo lontano.
Achille poi non raggiunse mai la tartaruga…
e ora colgo, in questa
frazione di tempo irrisolto
il profilo del tuo abbandono sul mio petto,
l’infinitesimo spazio che lo separa
dal mio respiro, ne traccio il percorso nell'aria
colgo l’immobilità e il segreto palpito
il lento respiro del cosmo, dell’ordine
nascosto che ci studia, ci abita
che ci percorre che ci fissa al nostro
giacere che ci accende in ultimo
sussulto e spegne le pupille, il vuoto
dei nostri occhi.

giovedì 14 novembre 2013

Venerdì 15 novembre 2013 presentazione di “Millimetri” di Milo De Angelis

Appuntamento - Venerdì 15 novembre 2013 presentazione di “Millimetri” di Milo De Angelis, ore 21.00 - Centro Culturale di Milano (via Zebedia, 2)  con: Milo De Angelis, Angelo Lumelli e Luigi Tassoni. Intervengono, tra gli altri amici, Michelangelo Coviello, Fabrizio Fantoni. Fabio Jermini, Giancarlo Pontiggia, Luigia Sorrentino, Isabella Vincentini. Coordina l’incontro Alessandro Zaccuri. Per informazioni: stampa@ilsaggiatore.com “Millimetri” di Milo De Angelis, fu pubblicato nel 1983 da Einaudi. A 30 anni da quella pubblicazione il Saggiatore nella collana le Silerchie (euro 12,00) lo ripropone. 



Dalla postfazione di Aldo Nove e Giuseppe Genna.  Quando ho aperto per la prima volta Millimetri mi si è spalancato un mondo incomprensibile, ma di quel mondo avevo memoria. Ero un neonato che si guardava attorno. C’era solo il dovere arcaico di entrare in quel mondo, così come per ogni neonato. Avevo sedici anni anni ed è stata l’esperienza più forte che la poesia mi ha regalato. Leggevo quelle parole oscure ma necessarie ad alta voce sul pullman, al mattino presto, andando al liceo. Altri ragazzi ascoltavano. Alcuni ridevano, altri scuotevano la testa, qualcuno restava ammutolito. Poi c’era chi ripeteva i versi che leggevo, diceva che erano pazzeschi, che la poesia è una cosa pazzesca.   Era l’esperienza di un campo di forze mai sperimentato prima da me. Conoscevo la tradizione approssimativamente, però in modo sufficiente da essere consapevole che venivo spinto verso voltaggi nuovi e antichissimi. La giunzione del tempo, in “Millimetri”, avviene per mutismi che non certificano un’impotenza del linguaggio - accade invece l’opposto. Erano anni di psicoanalisi ancora, però a nessun poeta o critico venne in mente di correlare alla poesia di Milo De Angelis l’operazione di una discesa nelle correnti telluriche dell’inconscio, questa sentina di fantasie livide che ha segnato certo Novecento. Non si possono accostare questi versi pensando a una scrittura automatica surrealista, come se fossero fenditure attraversate da fantasmi. C’è al contempo il cosmico e l’interiore, misteriosamente compresenti. Io stavo in quei flutti bui, venivo definendomi alla luce e all’oscurità di quelle immagini contemporanee e prive di tempo. La letteratura vivente si presenta con i crismi dell’indefinibile e del perentorio. Entravo nella mia vita grazie a quella poesia.   Raramente la poesia può permettersi di gareggiare con l’esperienza. “Millimetri” è un’esperienza di lettura che diventa vita subito, bruciando lì perché della vita ha la stessa asprezza che nulla ha a che fare con il realismo, con qualsivoglia realismo. Se il realismo può cercare (senza ovviamente mai riuscirci) di porsi in modo mimetico nei confronti della vita, questi versi ne veicolano l’oscuro pulsare, l’essere nell’altrove di ogni giorno. Il mistero della consistenza dei sassi, il rapporto con i morti, il gusto della pizza. C’è qualcosa di ineffabile e osceno, di mistico e spaventosamente superficiale nell’elenco delle cose che messe assieme compongono la nostra esistenza. Milo De Angelis nel 1983 ha mostrato a molti le giunture di questo elenco, andando a capo “a caso” apparentemente, facendolo invece sempre secondo il Caso che domina la poesia di Lucrezio, che De Angelis ha tradotto stupendamente. L’aleatorio come scienza empirica e già data, il rumore delle parole che è sostanza (”Ciò che sussiste per se medesimo; Materia di cui è formato un corpo, ed in virtù della quale esso ha proprietà particolari; Ciò che vi è di essenziale, di nutriente e di succoso in qualche cosa; Somma, Ristretto di una cosa”, Ottorino Pianigiani, Dizionario etimologico della Lingua Italiana, 1907, Albrighi & Segati Ed.)   La potenza dei versi di “Millimetri” è riconosciuta da Milo De Angelis in più interviste e non ha smesso di permanere, radiazione di fondo e quarta forza che si impone con lo spazio della sua inabitabilità. Sono apici che manifestano un ambiente in cui ogni vita poteva avere inizio e manifestare la sua fine senza preoccupazioni per il teatro del mondo. C’è molta corrispondenza con certo pop degli anni in cui sono cresciuto io - una corrispondenza sorprendente, isotopi della stessa sostanza: nella musica dei Kraftwerk, in certo cinema di Lynch, nella pittura consegnatami da Mark Rothko. Sembrerebbe inadatto accostare versi di poesie con prospettive che criticamente sono considerate esotiche. Tuttavia scatta un cortocircuito che lascia attoniti tra quelle opere e i versi di De Angelis, se solo si pensa che, a parte la critica costretta a un mutismo dal salto quantico praticato con Millimetri, il passaggio che più ha conquistato i moltissimi lettori di quella raccolta è: “In noi giungerà l’universo, | quel silenzio frontale dove eravamo | già stati”. E’ una sostanza cosmica che costituisce il portato della cultura e dell’arte di questi ultimi decenni: ciò che è stato e sarà lo sperimentale.   “Ciò che è stato compreso non esiste più” ha scritto Paul Eluard. “Millimetri” di Milo De Angelis è un libro che non verrà mai capito del tutto e quindi esisterà sempre. Ma la sua compattezza ha delle crepe, e in quelle crepe il senso cade ed emerge di continuo e così il lettore, che procede per illuminazioni e oscurità simultanee, impossibili. Tanta poesia degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta si è compiaciuta della propria oscurità. Qua non c’è nessun compiacimento. Il limite è estremo e reale, mette in gioco tutto. La poesia di Millimetri spinge oltre la poesia, come la Nottola di Minerva prende il volo e non si sa dove arriverà ma prende il volo e ci strappa da noi.   Procede testualmente, De Angelis, in una diminuzione delle referenze, che restano tuttavia incancellabili, portando implicito un assalto ai limiti della lingua, secondo il canone dantesco, “transumanar significar | per verba non si porìa”. E così in “Millimetri” si legge per esempio “Prendete allora | ciò che nel devo si inarca”, laddove si rende manifesta una poetica delle potenze che sfuggono al nome, che sostanziano il nome, correnti di senso che forse soltanto nelle pietre mute hanno un emblema accettabile. E però non c’è emblema, non c’è simbolo, non c’è allegoria, non c’è retorica in questa poesia tutt’altro che oracolare, tutt’altro che spettacolare. Essa pratica una spinta su chi legge, una iniziazione nel silenzio, un turbamento nell’assolutezza della cecità e dell’atto, una macula primaria che fa vibrare e differenzia lo stato iniziale, che è sempre il “non sapere”. Sono evitate le grammatiche del sapere, come accade nella poesia novecentesca, quel Parnaso che include Beckett, Eliot, Celan, Wallace Stevens. “In questa | giuria, voi, travi e | pupille rideste”. Trave, pupilla, giuria, noi siamo diventati in questa poesia e la benediciamo con l’amore che ci ha dato.

Presentazione del libro di poesia Cefalonia 1943-2001 di Luigi Ballerini (Marsilio - 2013)

A Milano, mercoledì 27 novembre 2013, alle ore 21.00 presso la Libreria Popolare via Tadino 18 (MM Porta Venezia) 

Presentazione del libro di poesia Cefalonia 1943-2001 di Luigi Ballerini (Marsilio - 2013) 
ripubblicato in occasione del 70° anniversario dell’eccidio di Cefalonia 

Interventi critici di Cesare De Michelis, Vincenzo Frungillo, Paolo Giovannetti, Italo Testa Coordina Alessandro Broggi 

Sarà presente l’Autore 


Luigi Ballerini.
Poeta, saggista e traduttore, Luigi Ballerini è nato a Milano nel 1940. Per molti anni ha insegnato letteratura italiana contemporanea e medievale alla New York University e alla University of California (Los Angeles).Vive a New York e a Milano. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesie: eccetera.E (1972), Che figurato muore (1988), Che oror l'orient (1991, Premio Feronia)) Il terzo gode (1994), Stracci shakespeariani (1996), Uscita senza strada (2000), Uno monta la luna (2001), Cefalonia 43 e altre poesie (2005 e 2013, Premio Lorenzo Montano e Premio Vitaliano Brancati), Se il tempo è matto (2010). Ha tradotto testi di autori americani tra cui Herman Melville, Henry James, William Carlos Williams, James Baldwin, Kurt Vonnegut e Getrude Stein. Numerose sue pubblicazioni sono il risultato di collaborazioni con artisti. Ricordiamo, tra gli altri titoli La parte allegra del pesce, 1984 e Leggenda di Paolo Icaro, 1985 (con Paolo Icaro)), La torre dei filosofi, 1986 (con Eliseo Mattiacci e Remo Bodei), Selvaggina, 1988 (con Angelo Savelli), Una più del diavolo, 1994 e Navi di terra e di mare, 1999 (con Marco Gastini), Peggio per loro, 2012 (con William Xerra) Numerosi sono anche i suoi saggi critici (soprattutto su Guido Cavalcanti, sul Futurismo e sulla poesia italiana di ricerca dal dopoguerra a oggi) le edizioni e le antologie di poesia italiana e americana. È autore di saggi monografici su artisti contemporanei (Vademecum per il Carro solare di Eliseo Mattiacci, 2004, e Le Macchine inadempienti di Lawrence Fane,2009). Ha curato mostre di arte contemporanea italiana, tra cui Scrittura visuale in Italia al Finch Museum di New York e alla Galleria civica d'arte moderna Torino (1973) e Spelt from Sybil's Leaves alla Power Gallery di Sydney (1984). È stato anche il curatore di alcuni importanti convegni di poesia:: The Disappearing Pheasant I (New York, 1991) e The Disappearing Pheasant II (Los Angeles, UCLA, 1994).

mercoledì 13 novembre 2013

Fisica e poesia. Il corpo nero. Una lettura della quarta egloga di Elio Pagliarani da Lezioni di fisica e Fecaloro.

Il libro del 1968 Lezioni di fisica e Fecaloro si apre con un capitolo composto da sei Lettere o egloghe, così come vengono denominate dallo stesso Pagliarani, inviate ad amici e importanti personaggi della cultura del tempo. Con quest'opera si passa dal racconto in versi di La ragazza Carla all’epica didascalica delle Lettere . In sostanza Pagliarani continua sulla strada della rielaborazione dei generi poetici che lui stesso aveva formulato in Funzione e ragione dei generi e che aveva sintetizzato nella formula finale: "Poemetto (genre) più poesia didascalica e narrativa (kind)". Dove i due addendi rappresentavano anche il punto in cui era arrivata la lingua poetica italiana: una sintesi di astrazione ermetica e arricchimento lessicale neorealista. Il passaggio definitivo avviene però solo dopo che il poeta abbia formulato e pronunciato il criterio di giudizio di una vera poesia sperimentale. Pagliarani dice, in occasione del congresso COMES (Comunità europea degli scrittori), svoltosi a Roma nel 1965, che una vera poesia sperimentale deve tenere presente questi tre punti cardine: «1) […] critica consapevole dei mezzi espressivi in situazione; 2) […] critica, a tutti i livelli, della funzione dell’operatore e del rapporto operatore-consumatore; 3) [...] critica della finalità dell’opera e/o funzione dell’arte.» Il risultato di queste tesi sono ora visibili nel contenuto e nella forma delle egloghe. Nella prima lettera, rivolta a Fortini, Proseguendo un finale, Pagliarani riprende espressamente, come dichiarato nelle note al testo, la parole finali del poema scritto tra il 1954 e il 1957, La ragazza Carla, facendo del rapporto che unisce l’amore, la conoscenza e la forza il centro della sua missiva. La seconda lettera, rivolta a Pestalozza, dal titolo La pietà oggettiva, si concentra sul senso di una pietà laica nata dall’aver osservato le estreme possibilità dell’"essere uomo". La terza lettera, rivolta a Alfredo Giuliani, dal titolo Oggetti e argomenti per una disperazione, è un ragionamento in versi sul senso stesso del fare poesia. La quinta, dal titolo Dalle negazioni, si concentra sulla possibilità della raffigurazione in arte e nasce da uno sodalizio con il pittore Giò Pomodoro. La sesta, Come alla luna l’alone, inviata ad Achille Perilli, ruota tutta intorno al significato della parola rivoluzione. La quarta lettera s’intitola come il libro Lezioni di fisica e sembra contenere il nucleo dell’operazione poetica che Pagliarani mette in atto in questi anni. Qui diventa evidente come Pagliarani assuma nel microcosmo delle relazioni quotidiane le leggi del macrocosmo. Le leggi della fisica equivalgono alle leggi supreme che regolano la storia e la dinamica dei corpi. Il poeta verifica la possibilità di organizzare intorno ad un corpo, quello della donna amata, lo spazio della storia: scrive rivolgendosi ad Elena, indirizzando a lei questa lettera. Il testo inizia come se fosse l’incipit di una biografia: Cominciò studiando il corpo nero Max Planck all’inizio del secolo (dispute se era il principio o la fine del secolo), le radiazioni del corpo nero nella memoria del 14 dicembre 1900 bisognava supporre che quanti d’azione fossero alla base dell’energia moltiplicata per il tempo Elena oh le sudate carte la luce è una gragnola di quanti, provo a dirti che esiste opposizione fra macrofisica e microfisica che il mondo atomico delle particelle elementari è studiato dalla meccanica quantistica –scuola di Copenaghen- e da quella ondulatoria del principe di Broglie che ben presto i fisici si accorsero come le due nuove meccaniche benché basate su algoritmi differenti siano in sostanza equivalenti: entrambe negano negano che possano esistere precisi rapporti di causa e effetto affermano che non si può aver studio di un oggetto senza modificarlo la luce piomba sull’elettrone per illuminarlo. Pagliarani alterna una narrazione in versi volta al passato e un narrazione volta al presente, mescolando i toni epici con quelli drammatici come se echeggiasse nella sua poesia l'insegnamento di Lukács: «Il poeta epico e il poeta drammatico sono entrambi sottoposti alle leggi generali della poesia, soprattutto alla legge dell’unità e a quella dello svolgimento; inoltre trattano oggetti simili e possono servirsi di ogni sorta di motivi; la grande, essenziale differenza consiste in questo: il poeta epico racconta il fatto come compiutamente passato e il poeta drammatico lo rappresenta come compiutamente presente.» I primi versi di Lezioni di fisica accennano ad un passato prossimo e citano date e avvenimenti che hanno avuto una rilevanza storica assoluta per il genere umano. La data citata, il 14 dicembre 1900, si riferisce al giorno in cui Max Planck ha presentato la formula E=hv alla Società Fisica Tedesca. Questa equazione fissa la teoria dei quanti d’energia. La fisica meccanica di Newton veniva spazzata via per essere sostituita dall’analisi dei quanti e delle particelle subatomiche. Il tempo e lo spazio, perdono così la loro evidenza geometrico-matematica. Gli stessi nessi di causa ed effetto, che avevano regolato la fisica meccanica, vengono messi in crisi. Si poteva ancora parlare di moto, ma non si poteva più immaginare che un oggetto si muovesse in maniera predeterminata lungo un cammino. Da allora non è più possibile determinare un mondo conoscibile in sé. Ci sono invece vari mondi e varie raffigurazioni, vari "modelli visivi", chiamati da Einstein "gedanken experimente". Nel giro di pochi anni nascono gli studi di Planck, di Bohr e la scuola di Copenaghen, di Heisenberg, del principe de Broglie. "Il futuro non poteva più essere predetto, neppure in teoria. Nessun grado di accuratezza delle misure poteva controllare la mano del caso". In questo scenario di rivoluzioni scientifiche si inserisce il concetto madre del corpo nero. Il corpo nero, in fisica, indica il principio limite dell’indeterminazione. Pagliarani dà inizio al suo scritto rimarcando l’effetto drammatico che esso ha nella memoria collettiva. Le radiazioni che propaga quel corpo informano tutto il secolo. La relazione tra il poeta e il suo personaggio muta radicalmente proprio a causa delle "radiazioni del corpo nero nella memoria". In questo preciso quadro storico, viene inscenato il dramma della voce poetante e di Elena. Nella composizione di questa lettera, e di tutto il libro Lezioni di Fisica e Fecaloro, agiscono due forze: la lingua, che rappresenta il dramma della relazione tra i due personaggi, è tutta permeata da calchi della poesia moderna (le sudate carte leopardiane), e dal linguaggio scientifico. La versificazione invece metabolizza le leggi della fisica quantistica. Tutta la lettera sulla fisica è anch’essa svolta per quadri e piccoli mondi. Riconosciamo in questo quanto detto e teorizzato da Lukács a proposito del Faust di Goethe: «Ogni singola parte è drammatica, poiché in essa il destino di un uomo tipico (di uno stadio dell’evoluzione dell’umanità) si decide sotto i nostri occhi in base alla dialettica immanente delle sue interne contraddizioni: e l’esito è per lo più tragico, o almeno tragicomico. […] Al tempo stesso, ogni singola parte è epica, poiché, per dare in poche scene la necessaria autenticità al personaggio tipico, e con esso allo stadio corrispondente dell’evoluzione dell’umanità, l’ambiente sociale che sta attorno ai conflitti e persino il contesto storico degli oggetti sociali deve risaltare con una completezza che va ben oltre le esigenze del genere drammatico. Per questo le singole parti diventano piccoli mondi a sé.» Ma nell’apparente polinuclearità di Lezioni di fisica, il corpo nero è il vero nucleo da cui nasce il dettato poetico. Questo suggerisce un’altra considerazione: se l’epica omerica organizzava il mondo e la successione delle generazioni intorno al corpo esemplare, si parla in questo caso di estrema visibilità dell’eroe, qui abbiamo il perfetto contrario. L’evoluzione di un genere, quello epico, va dall’esposizione del corpo esemplare all’indeterminatezza del corpo nero. Questo passaggio lo si può seguire nei versi che riempiono il quadro storico proposto dall’autore. L’occhio del lettore viene catturato da un fascio di luce, "la luce che piomba sull’elettrone per illuminarlo"; che è lo stesso che illumina le sudate carte di Elena che compaiono all’inizio della composizione ed è la stessa a cui si allude nei versi che seguono: E io qui sto e io qui sto Elena in gabbia e aspetto il suono di un oggetto la comunicazione dell’effetto su te, delle modifiche […] Il poeta aspetta che ci sia il sobbalzo che ritorni la relazione tra il sé e Elena, l’oggetto d’amore, l’eroina che attende d’essere illuminata. Lo stesso nome dell’amata, Elena, potrebbe non essere casuale e suggerire un’altra operazione metalinguistica di Pagliarani. Ricordiamo che Elena è la protagonista della seconda parte del Faust di Goethe. L’eroina omerica occupa una scena del poema e rappresenta la bellezza assoluta irrecuperabile che è alle nostre spalle. Il suo mondo è finito, come lo sono gli altri mondi che si presentano di volta in volta agli occhi dello scienziato e alchimista Faust. Secondo la famosa lettura di Lukács, Goethe vuole sancire così l’essenza frammentaria del poema epico moderno ponendo la perfezione spirituale in qualcosa che è da venire, che non è dato nella dialettica delle cose umane. Il nome di Elena ripreso da Pagliarani potrebbe suggerire un riporre in questione la ricerca della bellezza nel mondo finito dei viventi. Da parte sua, la voce poetante conosce e ormai non può non vedere la relazione d’indeterminazione di Heisenberg; sa che "l’indeterminazione è dovuta alla perturbazione arrecata ad un oggetto nell’atto di osservarlo". I versi quindi non illuminano il corpo di Elena nella sua interezza. L'incontro tra la voce del poeta e l’eroina della narrazione non si dà una volta per tutte; non funziona la raffigurazione come rappresentazione iconica della donna amata. Nella relazione tra la voce del poeta ed Elena c’è quindi un sobbalzo, una modifica dovuta all’incontro. La luce che investe, modifica e rimanda l’incontro definitivo. Elena non arriva mai a farsi personaggio. Si prospetta così nel testo uno scenario fatto di sole forze. Ogni relazione muta i soggetti in gioco, ogni incontro di corpi vale come messa in atto di una reazione. All’inizio della nuova èra atomica non esiste sostanza che tenga, paradigma che duri, non si dà alcuna idea ultima della cosa o dei soggetti. La voce poetante è la consapevolezza sempre parziale, partigiana, di questa verità. Passando ad un tono ironico, la voce del poeta continua la sovrapposizione di identità tra fisica e poesia. In un gioco di scambio d’identità chapliniano, sembra (ma è solo un’illusione presente nei versi) che con una tintura dei capelli, il poeta possa assomigliare anche nelle fattezze somatiche ad Einstein. Ogni verso è ora una rifrazione e un attrito tra il corpo nero e il corpo illuminato della storia del vissuto personale e collettivo: Io cosa vuoi sapere se tieni duro il muscolo cardiaco è ormai provato che sono una pellaccia, mi tingerò i capelli Einstein piuttosto e la sua chioma te lo immagini quando dovette prendere la penna scrivendo a Roosevelt "Caro presidente facciamola l’atomica, sennò i nazi" l’azione dell’energia dell’energia moltiplicata per il tempo l’epistassi anzi il sangue dal naso, diceva Pasqualina alla tua età, il sangue dal naso che ti [libera La simbiosi qui è perfetta. L’energia atomica è già la legge universale che condiziona nel quotidiano la vita dei molti, come si capisce da questo nuova scena. Effetti simili li ritroveremo nella narrativa postmoderna di Pynchon. Qui l’indeterminazione prefigura il terrore. La perdita del proprio mondo, in quanto spazio creato da relazioni tra sé e le persone amate, coinvolge l’intero universo: Se si vuole sapere se A è causa dell’effetto B se il microggetto in sé è inconoscibile se l’onda di de Broglie per i fisici di Copenaghen non è altro che l’espressione fisica della probabilità posseduta dalla particella di trovarsi in un luogo piuttosto che un altro onda cioè generata dalla mancanza di un rigoroso nesso causale in microfisica Perciò l’atomica per la legge dei grandi numeri la probabilità tende alla certezza Perciò l’atomica Poi la teoria dell’onda pilota e quella, così cara al nostro tempo Della doppia soluzione, e se esiste il microggetto in sé, se la materia Può risponderci con un comportamento statistico Dio gioca ai dadi con l’universo? E se la terra ne dimostrasse il terrore? Anche in questo passo tornano accenni alla storia della fisica e delle dispute all’interno degli studiosi che si occupavano di fisica atomica. Sono riportate le leggi che regolano la composizione della materia. Lo spazio testuale che ora si apre ci presenta il principe de Broglie che ha dedicato la sua vita allo studio della orbite dell’elettrone intorno al nucleo. Dai suoi studi è nata l’idea dell’elettrone onda. Per de Broglie l’elettrone è un’onda che segue un’orbita fissa intorno al nucleo. L’onda pilota appunto. Questa scoperta aveva significato rimettere ordine nel mondo della microfisica; ossia, significava la possibilità di una soluzione statistica alla composizione della materia. Ma la scoperta di de Broglie fu contestate dalla scuola di Copenaghen e dal suo rappresentante più illustre Bohr. Einstein decise, allora, di scrivere una lettera a quest’ultimo nella quale compare la famosa frase "Dio non gioca a dadi!". Bohr rispose ad Einstein: "Einstein, smetti di dire a Dio quello che può e non può fare!" Il nuovo quadro approfondisce le conseguenze storiche che si intuiscono dalla lettera tra Einstein e Bohr: Non gridare non gridare che ti sentono non è niente mentre graffio una poltrona Herman Kahn ha già fatto la tabella delle possibili condizioni postbelliche, sicché 160 milioni di decessi in casa sua non sarebbero la fine della civiltà, il periodo necessario per la ripresa economica sarebbero 100 anni; va da sé che esiste, egli scrive un ulteriore problema quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni per invidiare i morti Quanta gioia mi dai quando ti stufi di me, quando mi dici se scriverai di me dirai di gioia e che sia gioia attiva trionfante e che sia una barzelletta spinta, magari […] All’episodio della lettera si passa alle conseguenze del dopo guerra e poi di nuovo alla relazioni dell’io-personaggio con Elena. C' è sempre un tenersi e un richiamarsi di quadro generale e particolare, di scena epiche e drammatiche, di tono serio e comico. La voce in primo piano, che intreccia la relazione tra l’io ed Elena, emerge ora come se risorgesse dal limite estremo dell’indeterminazione. Qui il poeta cerca la sua onda pilota. Elena con la sua presenza, con il suo nome, è la sua sola costante. Anche il poeta affronta il problema della "doppia soluzione": in un microcosmo indefinibile in sé, esiste un’onda pilota che guida lo sguardo. E’ una presenza che si sfrangia come un campo magnetico nell’aria. Il disastro nucleare è già compiuto. I suoi versi sono è già compresi in questa metafora. Particolarmente suggestiva è la sua voce che si rivolge ad un’Elena post-nulceare. Si fa la stima dei morti e, come fantasmi in cerca del loro corpo, riemergono le voci dei vivi. In realtà i riferimenti di Pagliarani sono ancora oggettivi e reali. Lo strappo della relazione coniugale, "mentre graffio una poltrona", diventa guerra totale. Herman Kahn era un fisico che contemplava l’"impensabile", ossia, utilizzando le applicazioni delle teorie dei giochi, stimava quanti morti ci sarebbero stati nel mondo se fosse scoppiata una guerra atomica. Si era in piena guerra fredda e la figura di Kahn faceva coincidere la fisica atomica con una inedita sociologia mortuaria. La società si regolava, non per una previsione sulla durata della vita media, ma su quella della stima di morti ammazzati e sulla possibilità di ripresa da questa catastrofe. La figura di Kahn ha in effetti un’intensità simbolica enorme: è il demiurgo della conoscenza negativa. In questo scenario il poeta si rivolge a Elena parlando della gioia. Nella relazione con Elena la necessità che emerge, da parte dell’io personaggio, è quella di "riassuefarsi alla gioia": "quando mi dici se scriverai di me dirai di gioia […]" E sarebbe forse il caso di ripensare cosa ha significato l’uso frequente che questa termine ha avuto tra la metà degli anni sessanta e l’inizio dei settanta nei poeti italiani. I partigiani della gioia sono coloro che guardano il mondo a partire dalla sua fine. Le Pastorali di Giorgio Cesarano, come le egloghe di Pagliarani, mettono in scena una relazione amorosa che in realtà descrive il quadro della storia contemporanea. In Cesarano però il mondo è raggelato dal nulla ma proprio questo essere proiezione del nulla fa dei soggetti, dei corpi, un inizio assoluto, nuovo. La gioia è il sentimento di chi ha l’apocalisse alle proprie spalle e vede il mondo sotto il segno della speranza che nasce da una disperazione estrema. Ogni relazione in questo caso è necessaria come la trama che struttura il mondo. La gioia, più che un sentimento, è un vero e proprio modo di guardare. Lo spazio storico è ridotto a condivisione di una catastrofe. Il futuro non è più immaginabile. Di fronte a questo l’io poetico non è infelice, perché la felicità e l’infelicità riguardano la rappresentazione del mondo ancora non invaso dall’onda lunga del nulla, le stime di Kahn, la guerra fredda. Chi conosce il nulla, come fondo ineliminabile e visibile, come tangibile realtà, non può essere felice; tutt’al più può essere gioioso. Pagliarani riprende la versificazione da questo nuovo spazio storico. Anche lui ha una sociologia mortuaria alle spalle ma l’indeterminazione non permette nessuna definizione ontologica (anche se nichilista o assolutamente negativa) del mondo; nessun lamento esistenziale . Al poeta è permessa la sola partecipazione alla struttura aperta del vivente. Per questo motivo l’io-personaggio della sua egloga non può riassuefarsi alla gioia. Ancora rivolti ad Elena, i versi finali recitano così: Ma cosa credi che non sia stufo anch’io di coabitare con la mia faccia la mia pancia anche in noi c’è dentro la voglia di riassufarci alla gioia, affermare la vita col canto e invece non ci basta nemmeno dire no che salva solo l’anima ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni. Qui neanche la gioia è permessa, quantomeno non è permesso come sentimento comune. Questo perché lo sguardo sulla fine non è lineare, è rimosso di volta in volta dai diversi modelli, dai diversi paradigmi. Pagliarani sa che in uno scenario di innovazione costante della conoscenza e dei suoi paradigmi anche il nulla, che secondo le teorie esistenzialiste fonda la progettualità dell’uomo contemporaneo, è rimosso, non è più raffigurabile come esperienza collettiva. E qui la parole usate da Albert Camus nel Le Mythe de Sisyphe sembrano quanto mai adatte: «Ma voi parlate di un invisibile sistema planetario in cui gli elettroni gravitano intorno ad un nucleo. Cercate di spiegarmelo con un’immagine. Mi accorgo allora che siete ricorsi alla poesia: io non "conoscerò" mai. Ho appena il tempo di sdegnarmene, che voi avete già cambiato teoria. Così questa scienza, che tutto doveva insegnarmi, finisce in una ipotesi, la lucidità naufraga nella menzogna, l’incertezza si risolve in opera d’arte.» Questo è evidente fin da La ragazza Carla, dove l’assenza di tradizione e fondazione non permette alcun sentimento luttuoso. Ora al poeta è solo permesso di resistere e misurare lo spazio che gli si presenta davanti ogni volta che si avverte un sobbalzo, la presenza-assenza di un corpo. I versi finali del nostro testo-lettera sono una sintesi di poetica. Ancora una volta ricompare la sforzo di "convivere con la propria faccia", con l’espressione della propria identità. Nel Diario milanese la faccia era quella immobile e passiva degli oggetti quotidiani; era il dopoguerra, il 1948, e un Pagliarani espressionista scriveva: "drizzati su una mensola, il pupazzo/ meccanico invitava: Tira, tira,/ tre palle un soldo e in premio una bottiglia./ Ma la mia faccia, mamma, gli assomiglia". In La pietà oggettiva, la faccia scompare del tutto, "non si salva". Già siamo nel paradigma delle fisica atomica che cancella ogni verità ontologica, ogni possibilità di raffigurare un corpo e con esso le relazioni che fanno la storia: "[…]Certo/ qui non si salva la tua età né la mia faccia/ vorrei vedere che non fosse così/ che si compisse nei versi la catarsi che bastasse/ questa pietà oggettiva che ci agghiaccia". Di fronte ad Elena, invece, ritorna lo sforzo, la fatica di convivere con la propria faccia: "ma cosa credi che non sia anch’io stufo di coabitare con la mia faccia". Lo sforzo è quello di sostenere le identità in gioco. Questo significa misurare l’opposizione tra le forze: "ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni". Dove la tentazione è la spinta alla dispersione in un tempo privo di una certezza assoluta, mentre l’azione è la forza contraria che vale come resistenza alla dispersione. Questo contrasto di forze bisogna viverlo, misurandolo. La misura è la propria voce, il proprio spazio poetico. La propria identità è il risultato di questo scontro di forze. Lo sforzo epico si conclude nel porre se stessi, il proprio personaggio, la propria identità, come centro dello scontro di forze opposte. Così come avveniva nelle battaglie omeriche, in cui gli eroi erano mossi dalla dynamis e dallo scontro di forze, come ha fatto notare la Weil in suo famoso scritto. Ma nel contesto classico l’esemplarità delle gesta dell’eroe, sotto gli occhi dei padri, vale come trasmissione di valori, come spazio ideale, continuum di una tradizione. In Pagliarani perché lo spazio poetico si tenga, e si tengano con esso l’insieme degli spazi epici e drammatici che lo compongono, c’è bisogno di altri testimoni. La comunità che il poeta scorge alla fine della sua lettera a Elena, non è più quella della tradizione, non è ancora dettata dalla speranza utopica in un mondo nuovo a venire, ma è quella presente ed effettiva dei testimoni. I testimoni sono color che certificano il proprio essere parte costitutiva di una differenza irriducibile. Lo sguardo che trattiene nella presenza la relazione tra il poeta e il suo personaggio è il nostro, è lo sguardo di chi osserva lo spazio letterario che muta.

lunedì 11 novembre 2013

Francesco Filia, La neve, Fara editore, 2012

Francois Villon cadenzava un sua celeberrima ballata con il ritornello: "Mais où sont les neiges d'antan?" ("Dove sono le nevi dell'anno?"). Il biancore a cui si riferiva il poeta francese era il candore intravisto tra le pieghe della storia, il tocco della grazia sulle vicende umane. Francesco Filia dilata quest'interrogativo per l'intero arco di un poemetto. La neve, vincitore del concorso bandito da Fara editore nel 2012, ha come immagine predominante il biancore della neve, il suo dolce manto intravisto da lontano sulle pendici del Vesuvio. "La neve, quella vera, non l'abbiamo mai vista/ se non nella bocca a nord del vulcano/ nei pochi giorni dei cristalli dell'inverno come una minaccia [...]", recitano così i primi versi del poemetto per frammenti dedicato alla città di Napoli. Questa prima immagine del libro ha la capacità di introdurre il senso complessivo del libro: il manto della grazia è ridotto ad una visione lontana sulle pendici di un vulcano attivo. Grazie e minaccia s'intrecciano indissolubilmente, tanto che la prima, come appunto nei versi di Villon, diventa un riflesso lontano e intangibile. Altro accostamento si potrebbe fare con un autore straniero, questa volta contemporaneo, D. Grünbein, che nel suo poema Della neve (Vom Schnee) scrive: "Mi spaventa la neve/ questo lenzuolo funebre,/ come bocca che sbava, o come occhi rovesci". In Grünbein la neve è simbolo dell'anestesia del reale causato dal cogito cartesiano, il distacco inguaribile dal mondo. Il poema è appunto una biografia in versi di Cartesio, delle sue ultime ore di vita. Filia invece mette l'accento sulla "neve sporca", sui "rivoli d'acqua" causati dalla neve che si scioglie, su quanto di deteriore resta della grazia intravista alla pendici del Vesuvio. Ma la neve è anche l'espediente metaforico che sospende il lettore dalle sue aspettative e lo costringe ad uno sguardo straniato sul mondo: "perché la neve a Napoli?" La poesia di Filia è infatti lontana dai modelli di quella che potremmo definire una scuola napoletana, lontana quindi sia dal più recente canone neobarocco (che premette un'accettazione incondizionata dei segni del reale) sia, neanche a dirlo, dalla tradizione neorealistica di tradizione più consolidata. La sua poesia mira piuttosto al respiro epico del racconto (i trenta frammenti sono per buona parte composti da versi liberi ipermetrici, con una massiccia presenza di enjambement) senza però tradire l'origine conoscitiva e cosmogonica dell'epos. Il frammento XV (Cose da fare) è da questo punto di vista una dichiarazione di poetica: "Costruire sillaba dopo sillaba/ le strade che hai amato: vico delle fate a forìa/ via belledonne a chiaia vicolo delle fiorentine via/ ascensione vico giganti, o odiato, portarle con te/ in ogni giorno di questa città, camminare/ fin dove una strada non è più città ma gioia/ perduta, destino". La parola rinomina ciò che è stato detto da altri senza la nostra voce. Come nella precedente silloge di Filia, Il margine della città, anche ne La neve l'epoché dal sentire comune e quotidiano, permette quindi uno sguardo nuovo sul mondo. Si apre così all'occhio del poeta l'originario bivio del destino, del "c'è stato" e del "sarà": da una parte la minaccia della Storia, o degli eventi privi di voce, e dall'altra la parola che rinomina, ridice, per incurvare il destino in un bagliore di grazia, così come avviene sulla "bocca[...]del vulcano". Ravvisabile il procedere di Filia proprio dal modo in cui utilizza le forme verbali. Molti dei frammenti iniziano con un passato, con il già avvenuto, il peso del destino nel senso greco del termine: "Il bianco sporco della neve si è fermato" [framm. II], "Abbiamo visto bruciare le colline del nostro assedio" [framm. V], "Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine" [framm. X] etc. Altro verbo utilizzato è il futuro: "Raccoglieremo le ombre esposte a questo niente" [framm. III], "Non saremo noi a sentire il tepore di questo disgelo" [framm. IV], "Osserveremo il colmo di questo cielo" [framm. XXVII]. Le prime due strofe del frammento XI diventano così di sublime chiarezza: "Discendenze trapassano il nostro sguardo per finire/ nel futuro remoto di grida e strati sepolti. Riconoscerai/ il tuo sguardo negli occhi di tua figlia, nel suo piangere/ e gioire ad ogni istante e saprai che non sei l'ultima cosa/ rimasta ma solo quel che non hai voluto, le impronte/ delle dita nella calce e uno sguardo di donna senza pace/ la linea severa della fronte e un sorriso appena accennato./ Conosciamo la prossemica del dolore dalle rughe/ d'espressione delle madri, dal loro incedere senza timore/ senza speranza, dalla loro algebra di vita e di morte". L'essere tra il passato destinale e il futuro delle attese raccoglie il singolo nel bivio tragico del sé; lo predispone però anche alla speranza. Napoli diventa allora come l'Ankara del poeta Ka, il protagonista del romanzo La neve dell'autore turco Orhan Pamuk, raggelata in una anagramma che somiglia al cristallo del fiocco di neve e che trattiene sulle sue appendici principali la logica, l'immaginazione, e la memoria; sulle sue direttrici periferiche l'amore, l'amicizia delle stelle, il morire ammazzato. Al centro c'è l'io. Così Filia disegna la sua bio-grafia, lascia che l'immagine del biancore impressioni se stesso e la nostra storia.

giovedì 7 novembre 2013

da Nel mentre – En plein air -Viola Amarelli



nessun nemico
I
piombo, è il tempo-zavorra, questo
giorno
salgoscendo
piombo che sfora e tace,
orfano al mondo
vadovengo

sequenze le catene inconcludenti
sfilo da occhiello a occhiello
metto punto

sia – sole alla luna piena
luce d’ombra
II
L’umido appiccoso alla parola
muta la bocca in muffa, nostra fortuna
III
in fila le formiche invadono il terreno,
la zappa si conficca, le scompiglia
avanzano i più forti
tutto un presidio – io rimpiangevo i deboli
IV
ho occluso i circuiti, bruciati i ponti
strappati i by-pass, intorno c’è il deserto
nessun nemico – mi chino
—————
gaté
Stranissimo, la strana, la paura non detta
quella che è asserragliata,
sola cerca d’amore
l’esser voluto bene

normale normalissimo
se se se ti
volessi bene
soltanto, senza un fine, senza un cerca la mamma
l’ultimo, il puer eterno, amando il quadro e il tondo

finisce il nascondino
odore forte di menta
niente paura niente,
lascialo via il respiro

niente niente paura
vedi, io e te
si muore,
strano quant’è normale
———————————–
autonegato
Andando a fondo
-dice
aspetta che anneghi

Sopra/sotto
-dipende
dal punto, una sutura

Andando dentro
-insiste
la cecità di polpa, lo scuro del nocciolo

Pazzia assoluta
-tremita
come ci fosse una, qualunque, mattìa relativa

Andando via
-finisce
il risultato noto, parrebbe. Autonegato.
—————————————–
lucreziana
Qualsivoglia vita squagliando
fosse di gelsomino, l’aria ubriacata chiara,
di stecco secco e storto, memoria tra le bacche,
di cincia mattutiona, cipria per piuma rossa,
di uno vecchio idropico, la corsa da ragazzo,
lascia una traccia invisibile inghiottita
sino alla prossima rinascita immersa nelle cellule
le stesse, stringile al fondo, forme diverse.
—————————————————–
impermanere
la te-la si sfal-da,
si slava,
precipite vento
azzera la forma
un solo momento: lo sfilo e l’avvinghio.
—————————————————
vociavano
Forme a parvenza al ralenti
il traguardo – macinato
se ne accorge, scorge in tralice la linea
chi l’ha mai tracciata – prende un pennello
ad allungarla in una curva
gonfia e ridondante
cos’era? ah, sì, esistenza, vociavano
così va meglio. più esatto,
fine di gara.
finge quel gatto.
———————————–
en plein air
I
Sta per i fatti suoi, quasi ringhioso,
il gatto nato bianco, quasi albino,
le zampe dietro sbilenche
si rifugia tra i pini, i peli irrigiditi
di resina la crosta, non sorride
rifugge – mio fratello ha paura
II
Bere di notte acqua alle pozze
incontrare allegri porcospini
spedire i minatori nel ventre delle madri,
le sciocche, povere talpe – un rospo deciduo
verde squillante tra i ciclamini la mattina
l’involucro, di suo, già corpo vivo
III
Carezza su carezza fuso all’uomo
malcerto macilento
beninteso-cibo nel ventre e
affetto, però non ce l’ha fatta, mea culpa
grandissima, vana
IV
La vita è l’arte di essere perdenti, nulla di nuovo – dimentica
- si muore
V
L’istante che le frullano
le ali, d’un colpo la tortora che
plana e la farfalla enorme
candeggia questa luce, squaglia
crema, intanto che si scollano
etichette, si arrestano i pensieri
frullano insieme tutti – senti
i respiri
——————————-
persi

Una sbiadita primavera segna le tracce d’inverno mai finito,
tronchi e rami spezzati.
Incerti e coraggiosi tra soffioni e sambuchi
spuntano papaveri, quelli che ce la fanno
i forti, i fortunati.
Io m’aggrappavo ai persi,
(lavoro in corso)

giovedì 31 ottobre 2013

Da La casa.

Vivo in una casa vuota,
ma di cosa dovrebbe essere piena una casa?



Resta solo l'utilizzo mancato
d'ogni oggetto, lo puoi vedere,
certo, strabuzzando gli occhi
come facevi da ragazzo,
fissandoti allo specchio,
il petto nudo, e tutto il resto,
spezzato nel mezzo,
un capezzolo che guardava il cielo-
l'altro l'inferno-.
In questo eri un mitico busto,
con i vestiti di tua madre
tutto intorno, la macchina da cucire
che fissava i punti alle gonne.
Allora aspettavi il padre,
l'occhi mansueto del tempo,
il destino fermo su un corrimano.
Di questo non puoi avere rimpianto,
nemmeno adesso, che la rosa nel vaso
fa la muffa lungo lo stelo.
Lo dici a te stesso, riflesso nel vetro:
"I vestiti che indosso li darò in pasto
agli zingari del centro".

(V. Frungillo)

Stagioni. Da La casa, poesia sul distacco

Lei tiene un braccio attaccato alla pancia,
l'altro lo stende verso il tavolo,
mi porge la mano.

"Ti ho portato dell'uva
rubata alla mensa.
C'è qualcosa di misterioso
nella frutta che mangiano i bambini.
Provala."

Non servono lezioni sulle stagioni,
loro si spiegano da sole.
E' tornata per l'ultima volta.
Guarda fuori.
Non guarda più me.

"Ricordi la gomena
che hai visto quest'estate sul molo..?
Secondo te, cosa reggeva?
La liquirizia che ci riempiva la bocca,
un giorno svanirà.
Sentiremo un sapore diverso,
saremo altro e altro ancora".

Rovista con le unghie in una storia comune:
"Sapessi ora cosa vedo."
(V. Frungillo)

mercoledì 30 ottobre 2013

34. Manuale di sopravvivenza.

Il capitale vuole diventare nient'altro e niente di più che il gestore cibernetico e quantizzatore dell'Altro, nel brodo di coltura delle comuni autoanalitiche, dove ciascuno autogestisca la propria ristrutturazione decentrata (si trasformi in un "terminale biologico" del computer che lo minimizza, statisticamente, nel quanto di energia erogata che gli è senza nemmeno più saperlo), e dove nessuno possa più, pena l'essere eucaristicamente sbranato sul posto dalle guardie di qualche servizio d'ordine del neo-cristianesimo, osare di percepirsi come individuo che pretende di accedere, in quanto tale, alla totalità, e che praticamente sappia come, per farlo, occorra innanzitutto distruggere con violenza ogni forma fittizia della comunione totalitaria nel Grande Niente. (G. Cesarano)

martedì 29 ottobre 2013

32. Manuale di sopravvivenza

Il mollusco-Io con cui Cooper imbastisce le sue fatture, è la boite-à-merde in cui la negatività pone le uova, tra le valve dell'assenza, di tutti i virus che assassinano la presenza. " Cadiamo così in vari stati di intossicazione che ad un certo livello perlomeno si avvicinano all'amore, e ci ammacchiamo per questo, o forse, con un po' di fortuna, veniamo amati per questo. Ma ad un certo punto deve prevalere una separazione, cossicché la coppia quasi-monogoma apre se stessa al mondo. Qualsiasi monogamia è la pretesa d'essere quello che è. Un atto senza pretesa può condurre ad una cessazione della pretesa e può anche dare origine, in un modo che definirei rivoluzionario, all'inizio dell'Amore e alla nascita della bomba -ma non di Quella Bomba"(Cooper). Meglio intossicarsi fino in fondo nella boite-à-merde di una coniugazione pretendente (che abbia la pretesa di essere una coniugazione reale), che perdere per sempre ogni possibilità di conoscersi stemperando il centro focale della propria presenza nella lacuna ecumenica della comunità auto-terapeutiche, dove l'eucarestia di un'umiliazione anti-biotica (nel senso etimologico del termine) sostituisce riformisticamente il mutuo avvelenarsi d'amore indementito che spinge ogni "coppia quasi monogoma" a diventare bomba, e a generare bombe, e a predisporsi, sempre più concretamente, non ad "aprirsi" al mondo dell'annichilimento, ma a esplodervi, spargendo, tutt'intorno il pretendere di più dell'amore che è la pretesa d'essere. Qualsiasi atto senza pretesa può condurre soltanto alla collusiva associazione fra tutti coloro che non desiderano più. E niente uccide meglio il desiderio, movimento essenzialmente dialettico, di un "appagamento" socializzato, troppo simile al salario per tutti e alla medicina mutualistica per non nascere dalla medesima formalizzazione sociologica: un neo-cristianesimo socialista. (Giorgio Cesarano)

31. Manuale di sopravvivenza

Come da sempre hanno saputo sciamani e stregoni, la morte è un prodotto sociale. Non esiste morte "naturale", o "naturalmente accidentale": ciascuno è assassinato, a partire da quando è "vivo", da una volontà violentemente contraria al suo essere vivo. La morte naturale è degli animali, il semplice cessarsi. Degli uomini, la morte è complesso soccombere alle condizioni generalizzate di non-vita. (Giorgio Cesarano)

lunedì 28 ottobre 2013

30. Manuale di sopravvivenza

Frattanto, sulla scena in cui, mitra alla mano, i pig distruggono i feticci del morbo, identificati nei vivai dove tristissimi molluschi sintetizzano nel proprio organismo tutti i veleni sgorgati dalle fogne in cui spurga, nel "golfo più bello del mondo", la composizione organica del capitale, «una cinquantina di donne con bambini in braccio, guidate dalle zi'Maesta, le capopolo del Pallonetto, sono salite sulle barche dei pescatori di Borgo Marinaro e hanno raggiunto i militi, lasciati per l'inchiesta giudiziaria. Gridando: "I nostri bambini hanno sempre mangiato le cozze e sono belli e sani", le donne hanno aperto i frutti di mare e li hanno dati da masticare alle "creature". Un motoscafo della capitaneria ha allontanato le incoscienti dimostranti» ("Corriere della sera", 8-9-73, a firma Leonardo Vergati). Al di là della devozione "sottoproletaria" alla fatalità, queste madri dell'ira estremizzano in un unico gesto la loro coerenza di nutrici mortifere e la consapevolezza di essere loro stesse mediatrici e figlie di quella morte che veniva a specchiarsi nel golfo dal fondo dei secoli. L'eucarestia impartita da queste donne ai loro bambini era davvero un vaccino scaturito da un'antica gnosi. Non si esorcizza la morte prodotta dall'alambicco sociale con risibile demonizzazione di un mollusco: la si sfida attraversandola, ponendo in gioco innanzitutto, e con rabbia della vera cognizione, il sussistere stesso della propria presenza, totalmente assunta perché sia possibile totalmente rischiarne la conquista al di là della prova. (Giorgio Casarano)

lunedì 14 ottobre 2013

Respirare il limite. Note su Futuro semplice di Gianni Montieri


Imparassimo almeno dalle foglie/ cadere nella stagione giusta/ mantenendo un tono di decoro/ la scelta del colore.  Leggere la poesia di Gianni Montieri significa entrare in una dimensione di limpidezza cristallina, in un esercizio di pulizia e purezza. Di Montieri è propria l’attenzione, mai manieristica, per il dettaglio del dettato; ogni parola in questi versi vive di una propria necessità insostituibile, che scaturisce dalla percezione precisa, chirurgica, del flusso di vita che scorre dinanzi allo sguardo del poeta. Un’attenzione che sintetizza la vertiginosità del dettato poetico con la profonda capacità descrittiva del vero narratore. Non è un caso che una delle poesie del libro sia dedicata a Raymond Carver, quasi alter ego del poeta.
Il tratto comune di molti testi di Futuro semplice (LietoColle, 2010) sta nella capacità di dire un sentimento, di mostrarlo nella sua originaria verità, senza nominarlo, ma attraverso la condensazione nei gesti, negli oggetti; e più che a un uso, che pure è presente, del correlativo oggettivo, questo procedere mi dà la sensazione di un approccio fenomenologico: mostrare gli eventi nel loro originario manifestarsi. Il mondo viene colto nel suo darsi prima di qualsiasi  distinzione tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità e quindi, stilisticamente, tra lirica e realismo. In questi versi le cose ci accadono nella loro evidenza primigenia - e quindi nella loro semplice apertura alla vita, al futuro - nella loro immensa gratuità e sono colte prima che si possano interpretare, giudicare, prima che il vivere ci costringa a scegliere a perpetuare quell’errore che l’esistere è. Tutto ci accedeva insieme ripete Montieri in più testi mostrando un’attenzione che, al tempo stesso, è un ricordo mitico e un percepire originario (l’occhio non distingueva/ l’inevitabile dallo straordinario/ conteneva nella stessa iride/ il contrabbando e San Martino/ il parcheggio abusivo e via Orazio) e che diventa un vero e proprio atto d’amore per la vita, nelle sue contraddizioni irrisolte (si veda il bellissimo frammento XXVI dell’inedito (Sud) in caso di morte).
I testi di questo libro e gli inediti a cui ho avuto accesso hanno sempre qualche cosa, uno scarto direi, minimo, inavvertito, che sorprende, uno scatto che lascia a bocca aperta, ed è quello scarto tra il percepire irriflesso, ordinario e lo sguardo poetico, che, invece, disvela l’intima essenza di un evento, di un attimo, del vivere. La capacità di Montieri è di restituire quello spazio, quella sospensione, in cui le cose hanno lo smalto originario della creazione, per dirla con Pasternak, e come nota Mary Barbara Tolusso nell’introduzione, e questo è un tratto comune con altri poeti della sua generazione, penso a Italo Testa e alla sua La divisione della gioia. In Montieri, però, la sospensione è data, oltre che dall’attenzione del guardare che è sempre insieme un “sentire”, anche dalla condizione di non-luogo biografico (nato al sud e residente a Milano) che diventa non luogo esistenziale e si fa  privilegio di poter vedere le cose da una prospettiva marginale, tangente, coglierle nella loro luce radente, nella loro verità - se è vero ciò che dimora nell’estremo - nel dettaglio, nel margine, al confine tra una cosa e il suo manifestarsi originario.

La poesia di Montieri si mostra così come una via rigorosa nella solitudine, nel colloquio, al tempo stesso terribile e meraviglioso, con il silenzio che avvolge e custodisce ogni cosa. Ma questo colloquio non ha nulla di solipsistico, anzi è una ricerca di un “tu” a cui rivolgersi, che spesso assume le sembianze di un’assenza, di una donna che si è amata o che si ama o altre volte di un interlocutore letterario con cui confrontarsi sul senso del vivere e del dire, come nella già ricordata poesia Absolute beginners dedicata a Carver (Certo questa dei tagli all’epoca/ non devi averla digerita nemmeno un po’/ loro ti dicono: “è il mio lavoro”/ e invece è il tuo// tornando a noi, che dirti?/ Certi giorni l’editor servirebbe a me/ quando non so risolvermi ad uscire/ e nemmeno in giardino so quando potare).  La solitudine è quindi un’attesa, un ordine necessario (La vita in uno ha meno metri/ spazi angusti e un ordine necessario).  La parola poetica è quell’ordine, è un processo di sottrazione è un’economia che richiede di sprofondare nell’essenziale, di regolare il battito del cuore al minimo, di respirare in silenzio, di ascoltare il limite al quale siamo consegnati (…uno spiraglio/nell’attesa indietreggio un metro/ chiudo gli occhi, respiro piano/ è questo il limite) .

Francesco Filia

mercoledì 9 ottobre 2013

Presentazione La neve. Milano, 4 dicembre 2013



Libreria popolare di Via Tadino - Milano

Conversazioni in libreria
Mercoledì 4 dicembre, ore 21
Presentazione delle poesie
La neve
Fara - 2013 – pp. 56 - € 11
di Francesco Filia
Ne parliamo con l'autore Francesco Filia
intervengono Giancarlo Pontiggia
Vincenzo Frungillo e Gianni Montieri

«Una silloge compatta, costituita da trenta
frammenti che compongono un “poema
dell’assurdo”. Mi si perdoni la formula
d’impatto; mi spiego meglio: la neve a Napoli.
Ecco il presupposto (presunto o reale) di chi
“attraversa la città” e in essa la storia (del
proprio vissuto e della città stessa) con
competenza stilistica e capacità “lirica”
(nonostante la struttura del testo tenda di
frequente verso una “quasi prosa poetica”),
proponendo un versificare disteso ma attento al
dettaglio: «Intuire quel che non può essere
colmato sedersi / affondare la mani nella terra
sperare nelle nuvole / che piova, sentire l’odore
di zolle bagnate alzarsi/camminare fino alla
cresta, vedere il cielo allontanarsi / voltargli le
spalle, lasciarsi cadere, sapere / crollare.»
Giuseppe Caricchia

Francesco Filia vive, insegna e scrive a Napoli, dov’è nato nel 1973. I suoi interessi si
sviluppano tra poesia, filosofia e critica letteraria. Sue poesie e note critiche sono
presenti in numerose riviste e antologie, tra cui Il miele del silenzio (a cura di
Giancarlo Pontiggia; Interlinea, 2010). Ha pubblicato i poemi in frammenti Il margine
di una città (Il Laboratorio, 2008) e La neve (Fara, 2012), vincitore del concorso
nazionale per inediti “Faraexcelsior” 2012, del concorso nazionale editi Civetta di
Minerva 2013 e finalista del premio nazionale di poesia Ponte di Legno 2013. Collabora
al litblog Nellocchiodelpavone.


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