Imparassimo
almeno dalle foglie/ cadere nella stagione giusta/ mantenendo un tono di
decoro/ la scelta del colore. Leggere la poesia di Gianni Montieri significa entrare in una dimensione di limpidezza
cristallina, in un esercizio di pulizia e purezza. Di Montieri è propria l’attenzione, mai manieristica, per il dettaglio
del dettato; ogni parola in questi versi vive di una propria necessità insostituibile,
che scaturisce dalla percezione precisa, chirurgica, del flusso di vita che scorre
dinanzi allo sguardo del poeta. Un’attenzione che sintetizza la vertiginosità
del dettato poetico con la profonda capacità descrittiva del vero narratore. Non
è un caso che una delle poesie del libro sia dedicata a Raymond Carver, quasi
alter ego del poeta.
Il tratto comune di molti testi
di Futuro
semplice (LietoColle, 2010) sta nella capacità di dire un sentimento,
di mostrarlo nella sua originaria verità, senza nominarlo, ma attraverso la
condensazione nei gesti, negli oggetti; e più che a un uso, che pure è
presente, del correlativo oggettivo, questo procedere mi dà la sensazione di un
approccio fenomenologico: mostrare gli eventi nel loro originario manifestarsi.
Il mondo viene colto nel suo darsi prima di qualsiasi distinzione tra soggetto e oggetto, tra
interiorità ed esteriorità e quindi, stilisticamente, tra lirica e realismo. In
questi versi le cose ci accadono nella loro evidenza primigenia - e quindi
nella loro semplice apertura alla vita, al futuro - nella loro immensa gratuità
e sono colte prima che si possano interpretare, giudicare, prima che il vivere
ci costringa a scegliere a perpetuare quell’errore che l’esistere è. Tutto ci accedeva insieme ripete
Montieri in più testi mostrando un’attenzione che, al tempo stesso, è un
ricordo mitico e un percepire originario (l’occhio
non distingueva/ l’inevitabile dallo straordinario/ conteneva nella stessa
iride/ il contrabbando e San Martino/ il parcheggio abusivo e via Orazio) e
che diventa un vero e proprio atto d’amore per la vita, nelle sue
contraddizioni irrisolte (si veda il bellissimo frammento XXVI dell’inedito (Sud)
in caso di morte).
I testi di
questo libro e gli inediti a cui ho avuto accesso hanno sempre qualche cosa,
uno scarto direi, minimo, inavvertito, che sorprende, uno scatto che lascia a
bocca aperta, ed è quello scarto tra il percepire irriflesso, ordinario e lo
sguardo poetico, che, invece, disvela l’intima essenza di un evento, di un
attimo, del vivere. La capacità di Montieri
è di restituire quello spazio, quella sospensione, in cui le cose hanno lo
smalto originario della creazione, per dirla con Pasternak, e come nota Mary Barbara Tolusso nell’introduzione, e
questo è un tratto comune con altri poeti della sua generazione, penso a Italo
Testa e alla sua La divisione della gioia. In Montieri, però, la sospensione è data, oltre che dall’attenzione
del guardare che è sempre insieme un “sentire”, anche dalla condizione di
non-luogo biografico (nato al sud e residente a Milano) che diventa non luogo
esistenziale e si fa privilegio di poter
vedere le cose da una prospettiva marginale, tangente, coglierle nella loro luce
radente, nella loro verità - se è vero ciò che dimora nell’estremo - nel
dettaglio, nel margine, al confine tra una cosa e il suo manifestarsi
originario.
La poesia di
Montieri si mostra così come una via
rigorosa nella solitudine, nel colloquio, al tempo stesso terribile e
meraviglioso, con il silenzio che avvolge e custodisce ogni cosa. Ma questo
colloquio non ha nulla di solipsistico, anzi è una ricerca di un “tu” a cui
rivolgersi, che spesso assume le sembianze di un’assenza, di una donna che si è
amata o che si ama o altre volte di un interlocutore letterario con cui
confrontarsi sul senso del vivere e del dire, come nella già ricordata poesia
Absolute beginners dedicata a Carver (Certo
questa dei tagli all’epoca/ non devi averla digerita nemmeno un po’/ loro ti
dicono: “è il mio lavoro”/ e invece è il tuo// tornando a noi, che dirti?/
Certi giorni l’editor servirebbe a me/ quando non so risolvermi ad uscire/ e
nemmeno in giardino so quando potare). La solitudine è quindi un’attesa, un ordine necessario (La vita in uno ha meno metri/ spazi angusti e un ordine necessario). La parola poetica è quell’ordine, è un
processo di sottrazione è un’economia che richiede di sprofondare
nell’essenziale, di regolare il battito del cuore al minimo, di respirare in
silenzio, di ascoltare il limite al quale siamo consegnati (…uno spiraglio/nell’attesa indietreggio un
metro/ chiudo gli occhi, respiro piano/ è questo il limite) .
Francesco Filia
Francesco Filia
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