lunedì 20 ottobre 2008

Il corpo delle leggi

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La violenza gratuita nelle democrazie moderne non nasce dall’evasione dalla legge ma dalla rimozione della violenza insita nella legge stessa.

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A Mogadiscio soldati dell’esercito italiano torturarono un ribelle applicandogli elettrodi ai testicoli, di recente gli americani hanno fatto lo stesso con gli iraqeni; entrambi, italiani e americani, furono accusati grazie a foto scattate da commilitoni compiacenti. Di fronte alle accuse dei rispettivi tribunali le risposte furono identiche: “non era vero niente, era solo finzione. Si trattava di una messa in scena teatrale”. Quasi fosse stato una pierce di Sarah Kane. Chi osservava quelle foto sulla prima pagina del giornale non poteva non sentirsi coinvolto in un’iperbole semantica in cui il corpo del reato era misteriosamente sparito.


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I patiboli nella storia sono stati funzionali al ricordo collettivo del corpo-delle-leggi. Ma già in quelle occasioni si avviava la corruzione: lo spettacolo della rimozioni, la commedia umana (nel senso aristotelico dell’espressione). La parola che scende a fondo deve ricordare a sé stessi il nulla, il sangue, il patto originario: ognuno per sé deve scandagliare le proprie colpe. “Ciò che può essere pronunciato: fine. Linguaggio che va in frantumi, resti alti e bassi di muro, cumuli di frane, avanzi murari di ciò che è crollato, di formule, parole d’ordine, definizioni […] Qui è il confine. Qui fuori è la notte del mondo, una sola cecità” (Birgitta Trotzig). La parola rispetta la legge. Ogni parola giusta è una parola violenta: agisce e dice perché la violenza sul nulla sia anche ricordo del nulla.

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Quand’è che muore?!
-Salvaci Signore!-
Quand’è che muore?!
La senti anche tu la commozione.

“I giornalisti come i politici pensano sempre di sapere tutto”, è scappato da dire in un flatus demoniaco all’esperto cronista dopo aver intervistato Saviano. Quella confessione d’immodestia ha fatto vibrare la tela perché la si scorgesse, si vedesse il ragno che nel tessere inventa la preda.

mercoledì 15 ottobre 2008

reality (?)

"...bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con 500 euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricare su di me tutti i veleni distruttivi, l'intera comunità può liberarsi della malattia che l'affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro." (Roberto Saviano, La Repubblica 15 Ottobre 2008)

per continuare questo scritto vedi in questo blog il post del 28-4-2008 "Capro espiatorio"

sabato 27 settembre 2008

Morire...è stato leale


Adieu à Gonzague

Da molto tempo
volevo scusarmi con te. La Valigia vuota
non aveva detto abbastanza. La vedevo lì,
gettata per strada, e non l’ho aperta. È stato
il mio peccato d’omissione. Tremendo peccato d’omissione
davanti a una preghiera finalmente
tua. E se qualcuno prega con le uniche parole che ha, che gli restano,
è necessario ascoltare.

“Le telefono per dirLe che Gonzague è morto”. Era una voce anziana.

Ho attraversato periferie, sono corso
nella tua camera. Era la camera che conoscevo.
Tutto al suo posto. Le carte sulla scrivania,
le scatole dei fiammiferi ben ordinate,
la pistola, un cuscino per silenziatore.
Tutto era perfetto, e mortale. Ordinatamente
mortale. La spazzola sul tavolo, lo specchio.
Ti pettinavi con cura e andavi nei bar a portare morte.
Ma stavi zitto. Nessuno si accorgeva di nulla.
Non hai osato supplicare da vivo, non ne hai
avuto il coraggio.

Non puoi rimproverarmi di nulla. Hai pregato
con una pallottola.
Non puoi rimproverarmi di essere rimasto a bocca chiusa.
Se nella tua valigia ci fossero veramente parole,
l’avrei aperta, l’avrei
spalancata con queste mani. E se una pallottola
è stata la tua unica supplica,
la mia risposta può giungerti soltanto adesso. Non
accusarmi di essere in ritardo. E poi
non è vero ciò che ho detto all’inizio…
non devo scusarmi di nulla, non dobbiamo scusarci di nulla.
Ma devo scriverti
Questo sì…scrivere. Bisogna scrivere soltanto
se si ha qualcosa nel cuore: e se non scrivessi qualcosa adesso
chiunque avrebbe il diritto di sputarmi in faccia.

Alla sera ti drogavi. E poi ridevi, continuavi a ridere
con le tue mascelle forti. Poi
crollavi su un tappeto. E ti svegliavi il giorno dopo,
impeccabile,
con il tuo sorriso gentile, nel fuoco fatuo.
Una volta
ti ho visto a letto con una donna. Non lo scorderò mai,
ancora oggi ne porto la ferita, eri gentile. Ma
eiaculavi il nulla. Lei ti guardava sbigottita. Tu sorridevi.

Ma basta con questi piagnistei. Dopo tutto, maledizione,
sei morto perché non avevi talento.
E avevi anche il torto di confessarlo
alle donne. Le donne… non le hai mai amate.
Non accettavi
che respirassero da sole. Eppure respiravano.
E ne eri terrorizzato. Sotto ogni seno
vedevi un respiro. E dal momento
che esso si lasciava mostrare,
volevi afferrarlo; e sbagliavi sempre.

Gonzague, sei stato mio amico, sei stato leale con me.
A volte un’amicizia ha fatto risorgere i morti.
Non potrà succedere tra noi. Dieci
minuti fa ti ho voluto ancora, ho voluto
la trasfusione di tutto il sangue. Ma tu sei ostinato. Sorridi
del mio incantesimo. Come potrò sollevare la bara
di chi sorride così? No, nessuna resurrezione
tra noi. Però non dimentico nulla… di te… che hai sofferto
senza chiasso.
La tua tristezza non ti ha impedito
di scegliere tra il fango e la morte.
Morire… è stato leale… non potevi
offrirmi una prova più grande.

Questo testo di Pierre Drieu La Rochelle - qui nella versione di Milo De Angelis per l’omonimo paragrafo del libro Poesia e destino da cui queste poche note traggono ispirazione - fu ritrovato tra le carte di Drieu dopo il suicidio avvenuto il 15 marzo 1945 e riprende, da un punto di vista diverso, il tema del romanzo Le feu follet (Fuoco fatuo) e il tema centrale dell’intera opera (si veda Récit secret – Racconto segreto) di Drieu, l’auto-distruzione fino al gesto estremo, non solo e non tanto come atto di disperazione, anche se gli Unni sono alle porte, per citare lo stesso Drieu nel suo diario, ma come punto d’arrivo di una logica implacabile (“Da ragazzo ho giurato a me stesso di rimanere fedele alla mia giovinezza: un giorno ho cercato di mantenere la parola.” Racconto segreto), che non si accontenta del rimorso, della tristezza o tanto più del melodramma del se avessi ma arriva sino allo strappo finale, lì dove si spezza il nesso tra parola pensiero ed essere, dove la parola si ritrae o, al massimo, arriva postuma e, dove riesce a dire qualcosa di essenziale, senza la pretesa di salvare ciò che non può essere salvato.

domenica 7 settembre 2008

La Primavera...nulla sa di voi



La primavera

Per quanto opprima la mano del destino,
Per quanto angosci l’inganno umano,
Per quante rughe solchino la fronte,
E pieno di ferite sia il nostro cuore,
E per quanto dure siano le prove,
Tutte le prove che avete subito,
Che importa questo di fronte al respiro,
Al primo incontro con la primavera?

La primavera… Nulla sa di voi,
Di voi, o male, o dolore,
Il suo sguardo risplende immortale,
e non vi è ruga sul suo volto.
Obbediente solo alle sue leggi,
Nel tempo convenuto scende anche a voi,
Luminosa, beata, indifferente.
Come si conviene agli dei.

Copre di fiori tutta la terra,
E’ fresca, come la prima primavera;
Se ce ne fu un’altra prima di lei,
Di questa proprio nulla conosce.
Errano molte nubi nel cielo,
Ma queste sono le sue nubi,
Ed ella più non trova le orme
Delle sfiorite primavere dell’essere.

Non sospirano le rose il passato,
Né l’usignolo lo canta nella notte;
L’Aurora lacrime profumate
Non versa sul tempo che fu;
Né la paura dell’inevitabile fine
Spira dagli alberi e dalle foglie!
La loro vita, come un oceano senza rive,
E’ disciolta tutta nel presente.

Gioco e vittima della vita particolare!
Vieni, e respinto l’inganno dei sensi,
Immergiti, alacre, assoluto signore,
In questo vivificante, creativo oceano!
Vieni, e nella sua eterea corrente
Bagna il tuo petto che soffre,
E della vita divina e universale,
Sii, anche per un attimo, partecipe!

(1838, Fjodor I. Tjutcev)




All’Autunno


Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
e colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nocciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull’aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno di un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.

E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l’hai –
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

(1819, John Keats)



In questi giorni in cui le ore di luce diminuiscono e quel poco di natura che percepisco in città marcisce, ho pensato alla primavera, al furore del suo manifestarsi, all’inizio assoluto che ogni anno ci sorprende e sembra spezzare, per sempre, il ciclo delle stagioni e mi è tornata in mente la poesia Primavera di Tjutcev in cui l’esplodere della natura, appunto, è visto, avvertito, in maniera così potente da sentirsi soggiogati, forse solo come un russo può sentirlo.
Poi, però, ho ricordato l’ode All’Autunno di Keats in cui questa stagione non è vista, percepita, come la stagione del declino ma della pienezza, delle luci calde e profonde, di ciò che è maturo, così pieno di vita da donarla e poi congedarsi.
Alla fine ho pensato che entrambe le poesie nascono da sensazioni che, per noi, uomini contemporanei, sono non esperibili direttamente ma che nascono solo da una mediazione letteraria, e che con il passare dei secoli diventeranno ricordo ancestrale, della specie, come ora lo è per noi il passato dei nomadi raccoglitori e il terror panico con cui convivevano: un residuo irriducibile di un passato dimenticato dell’uomo tecnologico. C’è da chiedersi infine se già nell’ottocento queste esperienze poetiche erano delle “riserve” in un paesaggio storico che andava cambiando sempre più velocemente e forse proprio questa dimensione d’inattualità avvalora ancor di più la verità di questi versi.

Fjodor I. Tjutcev, Poesie, a cura di E. Bazzarelli, BUR
John Keats, Poesie, a cura di S.Sabbadini, Oscar Mondadori

martedì 2 settembre 2008

Alesi Eros e il venticello atletico del febbraio 1970.

FRAMMENTI

Caro Papà.
Tu che ora sei nei pascoli celesti, nei pascoli terreni, nei pascoli marini.
Tu che sei tra i pascoli umani. Tu che vibri nell’aria. Tu che ancora ami tuo figlio Alesi Eros.
Tu che hai pianto per tuo figlio. Tu che segui la sua vita con le tue vibrazioni passate e presenti.
Tu che sei amato da tuo figlio. Tu che solo eri in lui. Tu che sei chiamato morto, cenere, mondezza.
Tu che per me sei la mia ombra protettrice.
Tu che in questo momento amo e sento vicino più di ogni cosa.
Tu che sei e sarai la fotocopia della mia vita.

Che avevo 6-7 anni quando ti vedevo Bello - forte - orgoglioso - sicuro - spavaldo rispettato e temuto dagli altri. che avevo 10-11 anni quando ti vedevo violento, assente, cattivo, che ti vedevo come l’orco che ti giudicavo un Bastardo perché picchiavi la mia mamma.
che avevo 13-14 anni quando ti vedevo che vedevi di perdere il tuo ruolo.
che vedevo che tu vedevi il sorgere del mio nuovo ruolo, del nuovo ruolo di mia madre.
che avevo 15 anni e mezzo, quando vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare spaventosamente.
che vedevo che tu vedevi che i tuoi sguardi non erano più belli, forti, orgogliosi, fieri, rispettati e temuti dagli altri.
che vedevo che tu vedevi mia madre allontanarsi. Che vedevo che tu vedevi l’inizio di un normale drammatico sfacelo.
che vedevo che tu vedevi i litri di vino e le bottiglie di cognac aumentare fortemente.
che avevo 15 anni e mezzo che vedevo che tu vedevi che io scappavo di casa, che mia madre scappava di casa.
che tu hai voluto fare il Duro.
che non hai trattenuto nessuno.
che sei rimasto solo in una casa di due stanze più servizi.
che i litri di vino e le bottiglie di cognac continuavano ad aumentare.
che un giorno. che il giorno. in cui sei venuto a prendermi dalle camere di sicurezza di Milano ho visto che tu ti vedevi solo. che tu volevi o tua moglie o tuo figlio o tutti e due in quella casa da due stanze più servizi. che ho visto che tu hai visto che eri disposto a tutto pur di riavere questo.
che ho visto che tu hai visto la tua mano stesa in segno di pace, di armistizio.
che ho visto che tu hai visto sulla tua mano uno sputo.
che ho visto che tu hai visto i tuoi occhi lacrimare solitudine incrostata di sangue masochista, punitivo.
che ho visto. che tu hai visto il desiderio di voler punire la tua vita.
che ho visto che tu hai visto il desiderio di non soffrire. che ho visto che tu hai visto i litri di vino e le bottiglie di cognac continuare ad aumentare.
che ho visto che hai visto in quel periodo la tua futura vita.
che ho saputo che hai saputo che tuo figlio era un tossicomane che tua moglie attendeva un figlio da un altro uomo (figlio che a te non ha voluto dare).
che ho visto che hai visto 3 anni passare. che ho visto che hai visto che il giorno 9-XII-69 non sei venuto a trovarmi al manicomio. perché eri morto.
che ora tu vedi che io vedo. che ora il 1° sei tu. che giochi questo tresette col morto facendo il morto.
Ma che giochi ugualmente, che ora vedi che io vedo che ti adoro che ti amo dal profondo dell’essere.
che ora vedi che io vedo che mia madre rimpiange. ALESI FELICE PADRE DI ALESI EROS
che vedi che io vedo che sono fuggito ancora una volta verso la solitudine.
che tu vedi che io vedo solo grande grandissimo nero lo stesso nero che io vedevo che tu vedevi.
che ora continuerai a vedere ciò che io vedo.

*

Che caro padre ti racconto il mio viaggio in India. Che sono sicuro, certo del tuo ascolto.
Che sono parecchi mesi di anfetamine. Che in un periodo le anfetamine erano introvabili nelle farmacie. Che il mercato nero vendeva a prezzi esosi. Che il mio viaggio per Napoli - biglietto andata e ritorno - che Napoli era un posto per le anfetamine quasi vergine. Che il biglietto di ritorno a Roma è finito in un cesso. Che un mese a Napoli, città che vuole vivere al passo dei tempi, pur conservando un innotabile tradizionalismo - che a Napoli Piazza Municipio, c’era Gionata Usi, Lorens e tanti altri. Che tutti i giorni due tre flaconi di Ritalin - Metredrina - Desoxyn - Psichergina - Tempodex. Che poi l’occasione di un furto di diecimila lire e la paranoia ossessiva mi portarono a Foggia - che fuga a Manfredonia - che l’unico capellone di Manfredonia mi dona la sua carta d’identità - che proseguo in autostop per Brindisi - che il tuo spirito, le tue parole, le tue molecole mi hanno aiutato. Che trovo cinquemila lire sufficienti per imbarcarmi alla volta di Gominizza - che poi padre nulla, nulla siringhe nulla endovene. Che ho solo viaggiato per la maggior parte a piedi, sui tornanti dei monti che sono la divisione di Salonicco. Che a Salonicco ho incontrato un francese maturo per una giusta ed ingiusta vendetta. Che caro papà era maturo per la dea e non dea morte. Che lui ritornò in Francia che io diretto a Istanbul.
Che caro padre Istanbul ci rammenta - mi rammenta un anno di galera. Che caro padre io ti amo e ti ho quasi sempre amato. Che non volevo la tua ansia, il tuo dolore. Che arrivo
Che l’essere viaggiava. Che l’essere era ridotto a stracci colorati. Che le campane suonavano. Che suonavano lentamente i 12 rintocchi. Che berrei volentieri un bicchiere di latte freddo.

*

Cara, dolce, buona, umana, sociale mamma morfina. Che tu solo tu dolcissima mamma morfina mi hai voluto bene come volevo. Mi hai amato tutto. Io sono frutto del tuo sangue. Che tu solo tu sei riuscita a farmi sentire sicuro. Che tu sei riuscita a darmi il quantitativo di felicità indispensabile per sopravvivere. Che tu mi hai dato una casa, un hotel, un ponte, un treno, un portone, io li ho accettati, che tu mi hai dato tutto l’universo amico. Che tu mi hai dato un ruolo sociale, che richiede e che dà. Che io a 15 anni ho accettato di vivere come essere umano "uomo" solo perché c’eri tu, che ti sei offerta a ricrearmi una seconda volta. Che tu mi hai insegnato a muovere i primi passi. Che ho imparato a dire le prime parole. Che ho provato le prime sofferenze della nuova vita.
Che ho provato i primi piaceri della nuova vita. Che ho imparato a vivere come ho sempre sognato di vivere. Che ho imparato a vivere sotto le innumerevoli cure, attenzioni di mamma morfina. Che non potrò mai rinnegare il mio passato con mamma morfina. Che mi ha dato tanto. Che mi ha salvato da un suicidio o una pazzia che avevano quasi del tutto distrutto il mio salvagente.
Che oggi 22-XII-1970 posso strillare ancora a me, agli altri, a tutto ciò che è forza nobile, che niente e nessuno mi ha dato quanto la mia benefattrice, adottatrice, mamma morfina. Che tu sei infinito amore infinita bontà. Che io ti lascerò soltanto quando sarò maturo per l’amica morte o quando sarò tanto sicuro delle mie forze per riuscire a stare in piedi senza le potenti vitamine di mamma morfina.

*

Che tu in tutte le strade e i vicoli del mondo, che io o in un manicomio o in una galera di una qualsiasi città del mondo.
Che due volte si è posta questa triste realtà e tutte e due le volte sono corso nella tua magica e misteriosa casa, l’oriente e tutte e due le volte ti ho riabbracciato con tutto l’amore che tu mi hai insegnato ad avere.
Che ora sono uscito da un manicomio per la terza volta, e da un terzo forzato distacco da te MAMMA MORFINA. Che sono sicuro, che sono quasi sicuro, che fra non molto potrò riabbracciarti.
Che ore due e mezzo del 23 dicembre 1970 gente che parla del mio discorso, discorso che solo io ho fatto che solo io e mamma morfina conosciamo, che solo io e lei abbiamo portato avanti nel discorso di verità nuove mie e per me come quella di amare Giorgio. Come quella di due che cercano nella camera di là qualcuno che impersonifichi lui.
Che ho sentito Giorgio.
Che ho sentito Ettore andare a terra e che non mi piace sentirmi solo vincitore che ho terrore di restare solo, in qualunque condizione. Ma che devo stare solo per divenire Budda.
Che alle 4,10 ho sentito chiaramente ed altamente la voce di Ettore che mi faceva complice del suo dolore. Che la voce di Giorgio segnava il vero.
Che alle 4,20 in piazza Bologna io e l’essenza, il ricordo, l’impressione di Giorgio, davamo agli altri uno scatarro solo. Perché non erano come noi. Che tra un periodo la famiglia Bonaventura troverà in un letto della casa di via Andrea Fulvio il caldino che cercava.
Che non voglio feriti.

*

Che la Comune di via Andrea Fulvio ha contribuito a formare il mio esercito difensivo. Esercito che si deve difendere dal proprio stato.
Che la comune, comune il fatto di essere scacciato dall’India e come tanti altri mi hanno strillato che il nemico che io identificavo, e forse ancora identifico, negli altri esseri viventi non era altro che il mio essere. Che forse giunti a questo punto potrei anche dire che il mio fuggire che il mio insistere nel mio ruolo, il mio viaggio diventa nefasto allo stesso livello di quanto può essere propiziato da buoni auspici.
Che mi sono staccato dalla Comune di via A. Fulvio con la bocca amara.
Forse avrei dovuto dare al tempo il tempo di raddolcirmela.
Arrivati a questo punto non capisco più nulla, non so più. So che sono su un treno che va a Brindisi - che il resto appartiene al dopo, ai domani luminosi ed ai domani neri. Che scrivo, che ho scritto.

*

O cara. O padrona morte. O serenissima morte. O invocata morte. O paurosa morte. O indecifrabile morte. O strana morte. O viva la morte. O morte che è morte. Morte che mette un punto a questa saetta vibrante.

*

29 - 1 - 1971 Roma

Che erba verde, ombreggiata e fresca. Che appare il grande mare dalla grande rilassatezza. Che Roma, il venticello atletico del febbraio 1970, che il venticello del 6 febbraio ’70, copre con la sua sabbia opportunisticamente ed indifferentemente le mie verità. Chissà! Dopo quanto sangue coagulato dovrò cadere nella macchina distruggo-creativa dell’universo.


Pubblico di seguito il commento di Antonio Porta ai frammenti di Alesi, Poesia degli anni settanta, Feltrinelli editore 1979.

"Questi farmmenti sono datati 29 gennaio 1971 (Eros Alesi si è suicidato nello stesso anno) e sono usciti nell'Almanacco dello Specchio n. 2. Sembra un espediente retorico dire che c'è uno scarso margine per un commento iniziale, ma è vero. La tematica, sofferta interamente dal corpo dello scrittore, è così offerta e bruciante che rende subito muti. Si trattiene il fiato e si smette di pensare. L'invocazione alla morte un'invocazione alla gioia. Allora si ricomincia subito a pensaree ci si chiede a quale logica altra ci si trovi di fronte. "Morire ci piace/ lasciateci bucare in pace" ha scritto l'anno scorso un ragazzo su un muro (che è morto a 21 anni per un overdose). Non ci trovo nulla di patetico. E' una sorta di alternativa radicale alla vita: la morte non è più la morte che conosciamo ma non sappiamo ancora che cosa sia di diverso. Si rischia di tuffarsi in una mistica kitsch. Desidero solo osservare che nel caso di Alesi, come in molti altri, la poesia ha interagito con la nostra storia, senza diaframmi. Va detto che un tributo necessario al fare poesia lo paga sempre anche il corpo di chi scrive."

martedì 26 agosto 2008

Tuscolana pazza e disperata


Ce n’ho abbastanza

ce n’ho abbastanza per comprarmi una bottiglia di vodka
un chilo di arance un amburg il pane tondo una birra
un pacchetto di marlboro.
E poi mangio l’amburg col pane tondo tostato e
bevo la birra e fumo la marlboro e poi spremo due
arance con la vodka.E poi esco e incontro la più grande figa della mia
vita con gli occhi verdi e le ciglia nere e la bocca
rossa e le mani nervose e decidiamo cazzo di non
fare nessun film di non scrivere nessuna stronzata di non recitare
nessuna cagata e di non andare in campagna
e di non occuparci della casa né della merda né dei
capelli né dei comunisti.Io butto nel fiume il trench di mio fratello
io compro i biglietti per la partita roma-river plate
io raccolgo gli occhi nella spazzatura
io accompagno mio figlio nel paradiso totale
senza nessun pericolo né gas né elettricità né politica
né bicchieri né coltelli né stanze di pavimento.
E lei scompare come le ore e appare come le ore
e me ne frego della pensione e me ne frego di morire
me ne frego dei fascisti e dovunque mi sdraio sogno
e ho sempre voglia di baciarla e gli alberi
respirano e le nuvole di merda si spaccano
e da dentro partono razzi luminosi
e dovunque sono vivo e non ho nessuna paura
né dei rinoceronti né dei serpenti né degli appuntamenti
e butto via l’elmetto e esco dalla trincea delle spalle di piombo
e mando affanculo tutti gli stronzi cagacazzi della terra
e grido come un’arancia stellare
e viaggio nella luce dell’ananas e cago cicche d’oro
sulla faccia dei nazi-igienisti maledetti
puliscicessi. Buttare via il tempo della vita
a lucidare i bidè e conservare i bicchieri
e sorridersi a culo sbarrato e invecchiare
come i più stronzi prima di noi.
Maledetti cagoni falsi e vigliacconi.
Lei apparirà. Bruciando i tampax dell’anima sanguinante.
apparirà con gli occhi verdi e ciglia nere e bocca rossa
anima luminosa come arcobaleno puro
radice che spiega con tutta la chiarezza perché questa merda è merda
e finirò di vivere la vita con la paura di vivere la vita.

(da Victor Cavallo, Ecchime, Stampa alternativa)



Incontro a Castelporziano

Mia cara fica
lucciola lanterna cicala stella nuvola sogno papavero orzata fica
ti scrivo dalla garbatella dove passeggiavo con una maglietta
gialla e il cielo era pieno di rondini. Ma era verso sera e
all’epoca della prospettiva Nevskji.
Mia adorata sono stanco e ho bisogno dei tuoi capelli
e delle canzoni dell’estate 1979 e di una campagna acquisti
che mi ridia speranze di coppa Uefa.
Com’era atroce l’inverno sull’orlo della serie B!
Mia cara fica
non credo a niente
i prezzi del pane e del latte sono troppo alti
e il campo di bocce del forlanini è pieno di d’immondizia
e i giardini di piazza S.Eurosia pieni di vetri rotti e cacche di volpini
E tutti quegli stronzi in giro
e lisa gastoni che m’ignora
e la rivoluzione che bestemmia sulla pista assolata del rock and roll.
ti amo. e se tu non me la darai mi ucciderò con una overdose.
I can get no satisfaction
e sono io nel merdoso cimitero degli specchi
a vegliare la fica in equilibrio tra le stronzate
io tra gli stanchi bagnanti notturni che recitano michelangelo
e le pompinare americane che mordono i gondolieri
e l’1 a 0 di trevor francis al bar della fenice e gli angeli
e questo angolo di piscio dove m’inculo il mondo.
Mia cara fica
spero d’incontrarti sulla spiaggia di castel porziano.
io ti incontrerò perché tu emani luce ultrarealistica
e tu mi riconoscerai perché indosserò profonde occhiaie
e una collanina azzurra. Fuggiremo lontano dal vietnam
verso la divina pietralata. verso la tuscolana pazza e disperata.

(da Victor Cavallo, Ecchime, Stampa alternativa)

lunedì 14 luglio 2008

Il margine di una città. Una lettura del poema di F. Filia



Guardare significa essere legati immediatamente a stimoli visivi, essere immersi in un orizzonte visivo. E' la parte più rilevante della nostra componente animale, è il legame con l'ambiente. Su questo istinto si fonda la norma madre della società contemporanea. Diversa cosa è il vedere. La radice di questo verbo la ricostruisce il filologo Bruno Snell evidenziando la sua relazione semantica con i termini greci noos e idein: vedere significa conoscere le idee. In questo senso i dialoghi di Platone sono stati la prima fenomenologia dello sguardo. I filosofi e i poeti sono tali perché vedono idee, non per altro. E non sono loro a definire le idee, sono le idee stesse che si danno in immagini. Il filosofo idealista e il poeta visionario non sono tali perché scendono a fondo e sfondano il campo del semplice guardare, non sono tali perché vedono le cose come saranno alla fine del loro scorrere, ma sono tali perché vedono le cose nella loro fissità, così come già sono, anche se in apparenza sembrano scorrere. E questa loro visione non ha niente di mistico o di misterico ma è reale, più reale del reale. Questo ho pensato, meglio sarebbe dire, questo ho ricordato nel leggere il testo poematico Il margine di una città di Francesco (Filia). Filia fa parte di quei poeti campani che sentono ancora l'influenza della vicina Elea. In lui l'idea e la sua immagine la fanno da padrone. Questo poema, sulla scia di altre esperienze poetiche contemporanee (ricordo quella di De Angelis e Ortesta su tutti)nasce da un'esperienza teoretica fondamentale. La successione di questo testo in frammenti gnostici rappresenta proprio il rarefarsi graduale e parziale di quelle immagini che rispecchiano qualcosa d'immutabile. E' una vita colta per immagini o una biografia per frammenti. Ma la biografia che viene posta in evidenza non è solo quella del poeta; non si consuma tutta la vita in queso poema ma solo la sua intensa e più rilevante espressione. Ciò che Filia mette su carta è l'epifania del vedere e la successiva fenomenologia di un mondo, di una città. A partire dall'originaria ferita mortale, la regola che fa vibrare il nostro mondo a venire: "Ritorna/ lo slargo dietro casa, come una fitta di luce/ negli occhi, con questo nome capitatomi in sorte/ ripetuto all'infinito e sfaldato in lettere/ sillabe pura emissione di voce balbettio indistinto/ nulla.(frammento I)". La resistenza delle cose al tempo coincide con la scoperta della nostra mortalità. Le cose ci precedono e ci sopravvivono. Sono come spettri di luce che fuggono la nostra natura funzionale. Noi siamo accolti da quei segni. L'indizio di questo processo ce lo offre il nome, segno inequivocabile della "nostra lingua finita" ("di tutti gli esseri l'umano è il solo che nomina egli stesso i suoi simili, come il solo che Dio non ha nominato" scriveva Benjamin). Il nome è la prima frattura che si crea tra la luminosità estrema del mondo e l'ombra della nostra presenza mortale. Si può dire che il nome rischiara la nostra animalità, è la scoperta originaria della piega che distingue il guardare dal vedere. Il nome è la ferita mortale che filtra luce mentre fa sgorgare sangue. Su questo crinale si poggia il mondo, la città. Tutto il poema non è altro che un'esibizine dello spacco originario che tale assunzione comporta: "Tra una scia di luci e l'azzurro del cielo/ la vita balena di nuovo, su questo muro/ a cavalcioni, a metà del nostro morire (frammento II)". Lo strumento adottato dal poeta è quindi la vista come dimostrano le illustrazioni che accompagnano questo scritto. (Le tavole di Pasquale Coppola raffigurano occhi posti tra terra e cielo). Il margine, nominato nel titolo, è in realtà il centro. Qui c'è un rovesciamento delle categorie civili. La città è vista a partire dal suo margine, da una sbavatura del guardare. L'operazione d'invertimento di centro e periferia, fatta in chiave sociale e politica a proposito della città di N. da molti intellettuali, qui è realizzata poeticamente. Il vero fulcro del consorzio umano è il margine, la periferia, non più il centro. Il poeta rinnega il campo visivo immediato, gli stimoli meramente animal-meccanici della sua città perché chiamato da quella ferita originaria: "Questa gioia sputata via al risveglio, quando ogni strada/ è più estranea e vicina insieme e una voce che chiama/ è quel che resta dei giochi proibiti di un bambino (frammento III)." Riabitare la propria città, quando non si è più cittadini, significa conquistare un nuovo spazio. In questo Filia si dimostra vicino a quegli autori che concepiscono l'arte non come semplice provocazione ma come costruzione. C'è in questi versi la consapevoelzza che questo gesto è possibile solo compiendo una svolta antropologica, traducendo il caso in necessità. A chi più rischia, più è richiesto (per parafrasare un vecchio detto filosofico). Questa sembra la scommessa sottintesa. Questo l'angolo etico proposto. Nessun cambiamento è consentito se non questo. Ogni cambiamento consentito dipende da questo. "Dimoro nella lesione di ogni cosa" scrive Filia e s'addentra nel deserto: "Vuoto logico di questo terrazzo aperto/ su di un balzo di palazzi e voci rabbiose./ Le labbra si schiudono ancora nella gioia/ di nominare le cose i volti lo spazio/ che si stringe intorno alla gola,/ nelle pietre di questa città che continua/ a crollarmi addosso da millenni (frammento XVIII)." Si cercano le direttive dello spazio, e sono le immagini e le idee delle cose che le offrono. Le linee che perimetrano lo spazio cadono sul foglio verticalmente mortificando l'articolazione vitale del verbo: "Città verticale nutrita dalle sue viscere vuote/ cunicoli e rifugi, occhi che difendono il territorio/ porzione sottratta e vita ripresa varco/ dove sopravvivere. (frammento XXVIII)" E ancora :"Città nuova di entroterra e anni luce/ dal mare, sagome scolpite nell'aria./ Architetture sospese, crepe/ nel cemento armato attendono/ questa pausa nel dolore di viali/ e binari non ancora morti tra macerie/ e un rantolo di voce di vita/ di niente. (frammento XXXIII)" Questo frammento ha una potenza unica che sembra raccogliere la città in un solo guasto. Tutti i suoi mali sono presenti meglio che in qualsisai cronaca o romanzo: terremoto, sangue gratuito, corruzione, tutto torna in un solo istante. Qui riesce in pieno il patto: il poeta scompare, scompaiono i mali, resta evaso il deserto, lo spazio appare. La poesia non fa che registrare la visione, esula da schemi metrici e da rime. La poesia non bisogna più nominarla. Lo spazio è il solo risultato, il margine è lo spazio. L'unica soluzione possibile all'esondazione dello sguardo è espandere la ferita, insistere nel vedere: creare un margine. In questo nuovo spazio le cose abbandonano la loro funzione, anche se non scappano dalla storia. Si tratta di riportate tutto allo stupore originario; se qualcuno ti avrà nominato tu non potrai che rispondere: "Non hai voluto fiori da cogliere ma guanti/ per proteggere il tatto nel giardino chiuso/ nella trasparenza di questo chiostro./ Abbiamo sentito lo stesso dolore in fondo alla vita/ Solo ora comprendo, in questo silenzio condiviso/ la necessità del tuo nome. Carmen. (frammento XXXII)" La donna capitata in sorte ha il nome giusto. Accompagna in silenzio perché le parole facilmente si confondono. Bisogna preservarle. Quel nome, altro indizio finito, è lo stare accanto che traduce il vuoto in pieno. E' presenza carnale ma anche canto. Ciò che si trova alla fine è l'in-sistere, nel canto. L'unico dono reale è lo spazio: "Ricostruisco il passato negli occhi di mia figlia./ Con cocciuta ossessione scavo i giorni/ i minuti, di quest'eterno presente. Ecco la fine delle ore./ L'alba, nelle mani strette, mi lascia accanto/ a questa culla a intuire l'inizio di una vita/ mio secondo stupore a guardare/ questa forma creata mio respiro ulteriore. (frammento LV)" Il vedere si traduce nel guardare "una forma creata". La vista del poeta s'affina, s'affida, a un respiro terreno. Il poeta, per ora, trova asilo. (Filia Francesco, IL MARGINE DELLA CITTA', Con dieci tavole di Pasquale Coppola, Il Laboratorio/le edizioni, Napoli, 2008)

sabato 12 luglio 2008

La Madonna della Neve



(La neve. XXV frammento, Napoli 2007)


C’è giunto in sogno con la forza di un respiro brinato
il luogo delle promesse non mantenute dei prodigi
mai compiuti, di una rosa che sboccia di sole spine.
Che ad agosto non nevica si sa, i miracoli non esistono
se non nella gioia dei semplici, di noi che aspettiamo
un passato che riscatti il perimetro delle nostre attese.
Con uno scongiuro non riuscito abbiamo predisposto
il rituale per salvare le nostre facce davanti, quelle
che abbiamo offerto all’offesa di ogni giorno al rito
di sangue e purezza di ogni nascita all’attimo che trasforma
il più nudo dei casi in ciò di cui non si è potuto mai fare a meno.
La cenere dei falò i copertoni delle auto abbandonate
la scaramanzia dei nostri cellulari accesi tutto è pronto
per un oltre di forme geometriche e cristalli da sciogliersi
al sole per essere nel silenzio di esagoni poggiati uno
sull’altro di fiocchi che definiscano il recinto
delle nostre preghiere, per un dono che non chiede
nulla in cambio, se non l’ultimo dei nostri respiri.

giovedì 3 luglio 2008

Frusciare

Questa notte le zanzare m'hanno risparmiato,
nessun frusciare nel mio orecchio,
come di ali che perdono contatto
niente più veniva da dentro
e mi sono dedicato all'aperto
di buon ora, sono andato al parco.

Lì tutti frusciano, strusciano,
seguendo un ritmo diverso.
Si raccoglie, da solo, il tempo
ai piedi dei fortunati
che direzionano le ali
......fruscia.....fruscia...

per fortuna, un po' di vento....
c'è un bambino che capeggia
una triade di Faharrad,
alla base della figura
ci sono il babbo e la mamma,
lui è in testa

e con entusiasmo, pari alla gioia,
canta una filastrocca a squarciagola
"io sono una latrina,
io sono una latrina.."
i genitori lo seguono, mortificati,
il padre mi vede, si ricompone,

mi dice che il nostro Paese
è fatto a strati,
ma c'è del liquido che cola,
la classe si scolora.
Gli ripeto la sintesi amorosa
di quella spendida creatura.

giovedì 26 giugno 2008

I senza terra

-Creonte : "-Chi sa se laggiù tutto questo è santo? Giammai il nemico, nemmeno morto, è un amico."
Antigone: "-Non per condividere l'odio, ma l'amore, io sono nata."

Scrive Simon Weil a proposito di questi versi dell'Antigone di Sofocle:

"Questo verso di Antigone è splendido, ma la replica di Creonte è più splendida ancora, perchè mostra che coloro che partecipano soltanto dell'amore e non dell'odio appartengono a un altro mondo e non hanno da aspettarsi da questo che la morte violenta:

Creonte (v. 525): Discendi dunque laggiù, e se hai bisogno d'amare, ama quelli laggiù."

Antigone va incontro alla morte perchè ha tentato di seppellire il corpo del fratello che ha combattuto al fianco dei nemici della patria. Ancora una volta nella tradizione classica torna il problema delle spoglie e del corpo. Se Priamo si era spinto nel campo nemico per richiedere la salma del figlio Ettore e fondare su quello la necessità del rito di sepoltura e la conseguente dignità delle nazioni, Antigone cerca di dare sepoltura al fratello-nemico nella terra amica. Di fatto se in Omero l'equilibrio delle forze opposte, quello di conservazione (il padre Priamo che richiede la salma del figlio), e di dispersione (Achille che vuole vedere il corpo di Ettore mangiato dai cani), è dato dalla restituzione finale del corpo dell'eroe troiano in seno alla propria patria, in Sofocle abbiamo un rovesciamento di questo rapporto. In Sofocle è il fratello nemico che deve essere sotterrato per rimarcare l'amore per lo straniero. La forza straniera, la dispersione del nuovo, viene accolto nel grembo della propria terra. Antigone riserva a questa forza una cura amorevole. La nazione è minacciata dal suo gesto che introduce logiche nuove. Per questo suo estremo atto d'amore è condannata a vivere sotto terra, "tra la vita e la morte" in una situazione di estranietà totale.

Antigone ": Ahimè, son derisa!
In nome degli dei aviti,
ancor morta non sono:
perchè tu già m'insulti?
O città, e voi, di questa città
uomini doviziosi;
ah, fonti dircèe
e tu, sacra terra tebana
fiorente di carri:
voi almeno prendo a testimoni
che illacrimata dai miei
per leggi inaudite
a sepolcrale carcere,
a tomba strana mi avvio.
Me infelice,
non tra i vivi,
non tra i morti,
ascolta sarò"

Antigone è colei che ha sacrificato la logica nazionale. E' lei l'emblema del nuovo corpo, è portatrice di un nuovo liguaggio. Il suo gesto dice la Weil è il gesto della "persona pura" e dell'amore assoluto. Chi pratica l'amore per lo straniero, espone la nazione al rischio. Ma è proprio il rischio la parte mobile della lingua che fonda le terre a venire. Chi nega questo elemento della storia va incontro all'annichilimento.

Antigone si toglie la vita, avendo perso la sua identità sociale e il corpo del fratello viene comunque mangiato dagli uccelli. Con grande forza poetica scrive Sofocle che i pezzi di carne del cadavere cadono dai loro becchi sul fuoco dei sacerdoti, emanando tutto intorno un forte odore, presago di tragedia.

giovedì 5 giugno 2008

Staffette di luce. "Ogni cinque bracciate" di Vincenzo M. Frungillo


Sono alcuni anni che si discute sul ritorno della poesia epica, ossia di un dettato poetico che racconti fatti, eventi, gesta di uomini, di eroi. Ma ciò è stato reso poco credibile dalla mancanza, non tanto di eventi significativi e di figure che potessero essere rappresentate poeticamente, ma soprattutto dalla potenza stessa della parola, in quanto o atrofizzata nel linguaggio ordinario e dei mass-media o ripiegata su stessa alla ricerca dei più nascosti meandri dell’interiorità.
Un esempio recente di una poesia che si apre al mondo e cerca di esplorarlo è il poema in ottave Ogni cinque bracciate di Vincenzo Frungillo, finalista dell’edizione 2007 del premio Antonio Delfini, di cui è stato pubblicato un estratto, curato da Enzo Cucchi, dalla casa editrice Mazzoli di Modena, accompagnato da disegni di Paola Pezzi. Il poemetto ha come tema centrale la parabola umana e sportiva della squadra di nuoto femminile della DDR che, a cavallo degli anni settanta e ottanta, inanellò una serie di vittorie e di record che stupirono il mondo, per poi scoprire che tali vittorie erano dovute prevalentemente all’uso di sostanze dopanti. Ciò nondimeno il fascino di quella avventura umana è rimasto e l’autore ce lo ripropone, con occhio attento e partecipe - “Ecco stanno tornando in quel punto, sole, all’apice della luce.” - come simboli di un mondo, quello comunista, uscito sconfitto dallo scontro con l’occidente, ma anche come simboli di tutti gli uomini e le donne che si trovano travolti dalle vicende storiche e che loro malgrado ne assurgono a emblemi negativi. Nelle storie di Ute, Karla, Lampe e Renate, le quattro staffettiste della nazionale della Germania Est protagoniste del poemetto, possiamo riconoscere le vicende di tutti quelle donne e quegli uomini che la storia ha prima esaltato e portato alla gloria e poi lasciato ai margini, dimenticati perché o imbarazzanti o perché portatori di ricordi dolorosi. Spetta al poeta, come un novello pescatore di perle, cercarle nel mare del passato, rendere loro la voce, salvarle dall’oblio, ridare loro il respiro che avevano perso, farle nuotare di nuovo nella luce della parola poetica “Senza il pregiudizio della parte sbagliata,/ ora nuota nell’acqua della piscina/ trasparente a se stessa, ma affilata nella bracciata/ sulla superficie che brilla come di brina.”

domenica 1 giugno 2008

Gangster story. L'ultimo dei bravi ragazzi


La gangster story non è morta continua a vivere con i suoi pregi e i suoi difetti. Ne è testimone L’ultimo dei bravi ragazzi (Newton Compton, traduzione di Eleonara Bosi e Roberto Galofaro) primo romanzo di John Carbone, autore nato negli Stati Uniti, ma che vive e lavora in Europa. L’ultimo dei bravi ragazzi è un romanzo di mafia, raccontato in prima persona, come nella migliore tradizione del noir americano, basta solo ricordare i libri di Jim Thompson agghiaccianti apologhi di menti criminali che raccontano in soggettiva la loro follia omicida. Il protagonista e io narrante è Marco Bolzani, giovane di Brooklyn, che, dopo l’ennesima lite con il padre, scappa da casa e va per strada, qui sente il richiamo affascinante del crimine, dei soldi facili e del loro potere. Insieme ad altri sei amici dà vita ad una gang dedita allo spaccio di marijuana. Sono gli anni Settanta e anche la criminalità sta cambiando perché il commercio di sostanze stupefacenti si ingrandisce, sul mercato ora c’è la cocaina e il primo che se ne assicurerà lo smercio diventerà ricco e potente al di là di ogni immaginazione. I sette bravi ragazzi, quattro italiani e tre irlandesi, entrano in affari con lo zio Tony, mafioso senza scrupoli che li renderà ricchi ma che li porterà al punto di non ritorno, quando la lotta per il potere, la concorrenza spietata degli altri spacciatori, le forze oscure che si muovono dietro le quinte romperanno definitivamente gli equilibri interni alla banda. In questa storia sono presenti tutti gli ingredienti classici del genere: gioventù segnata dalla vita in strada, il patto d’amicizia e lealtà dei membri della banda, la scalata al successo criminale e la inevitabile rovina, accompagnata da omicidi, tradimenti, il tutto condito da un linguaggio asciutto, scarno, non esente però da una certa stereotipia di lessico e di immagini.
Perché leggiamo ancora queste storie? Perché, pur sapendo che ripetono trame e situazioni già note, continuano ad affascinarci? Forse perché la gangster story è l’unico genere letterario che concentra tutti insieme i temi della violenza, dell’amore, dell’amicizia, dell’ambizione, del tradimento, della nemesi e del riscatto, del destino, che può avere la forma di una pallottola alle spalle o di un incontro sbagliato; in poche parole quei temi che fondano la vita e la morte di ogni uomo, che, codificati dai tragici greci, percorrono come un fiume carsico la storia della letteratura occidentale e che in un’epoca di povertà culturale e letteraria riemergono nel romanzo di genere. In attesa di tempi migliori può bastare? Chi può dirlo!


sabato 24 maggio 2008

Violante sull'ultimo libro di versi di De Vivo



testo di Salvatore Violante

In Prisco De Vivo la poesia è ascolto, come da un orecchio pressato su d’una parete che ne affievolisce il suono. Le voci che provengono dalla realtà del mondo, giungono deformate e frammentate, dilatate nell’interiorità, dalla voglia sfrenata dell’appropriazione complessiva. È un poeta le cui atmosfere, si possono respirare nei cimiteri, nei bistrot, o nelle cattedrali d’oltralpe. In questa poesia il triste, diventa mera rappresentazione raggelata da una contemplazione barocca, oppure deformata da un segno capriccioso. Le sue poesie sono ciascuna, una diapositiva priva di colori dove il nero è lo sfondo e il disegno, solo una remota traccia di vita. L’ultima raccolta, DALLA PENULTIMA SOGLIA (Poesie 2001-2007) stampato per i tipi di Marcus Edizioni (Napoli 2008), corrisponde in pieno a queste caratteristiche.Questo autore, nato a S. Giuseppe Vesuviano nel 1971, è un pittore abbastanza noto che veste la sua pittura di segni disperati ma graffianti a ricercare una finestra, uno spacco di luce rigeneratore. Egli arriva alla penultima soglia dopo essere passato attraverso l’esperienza poetica di un’altra raccolta DELL’AMORE DEL SANGUE E DEL RICORDO in cui il Nostro tenta la via al misticismo attraverso un’ascensione dell’eros: un’esaltazione sensoriale simile a quella delle autoflagellazioni cinquecentesche. È una poesia occasionale in cui il fatto perde la sua quotidianità sebbene segnato da contorni di forte carnalità. Si fa puro decoro, fredda icona ad indicare una tensione più che una storia. Nella poesia di De Vivo, la vita è assente: c’è un’aspirazione, un desiderio, un ricordo. Si ha l’impressione di trovarsi su di una spiaggia dopo una tempesta: tutta piena di detriti, di tracce di vita passata; oppure in una cella di un monastero con un frate che sogna e prega, sogna la carne del mondo lontano, ed ebbro d’eccitazione, la trasporta nella preghiera.

Camminavo stordito
inseguito dai cani.
Il ditale di una signora scalza
davanti alla mia bocca.
Quella vecchia mi perseguitava
dicendomi che i miei occhi
non fanno paura a nessuno. Bisogna
solo cucirli affinché mi possa
guardare l’anima.

L’immagine è lontana. C’è un inseguimento di cani privo della tensione che una scena simile dovrebbe produrre. Poi una signora scalza impone col ditale sulla bocca il silenzio. Anche qui è solo annotazione, manca l’eccitazione drammatica. Così pure la persecuzione della vecchia che dice al poeta che i suoi occhi non fanno paura a nessuno. Qui anzi c’è un rifiuto o un’incapacità di vedere o sentire o far sentire emozioni fuori di se. Gli occhi vanno cuciti affinché il poeta possa guardarsi l’anima, il solo specchio possibile per una lettura colorata della realtà: la sola via di fuga. Tutte le immagini precedenti rappresentano il fondo della tela. Il colore è spento ed uniforme. L’unica nota di movimento e di colore è la cucitura degli occhi che comporta l’aprirsi alla luce interiore. Ecco la penultima soglia, l’affacciarsi alla vita attraverso una porta aperta che dia valore eterno all’occasionale, al mutevole, al terreno, per arrivare all’ultima soglia un poco più sazi, quando i giochi saranno compiuti del tutto.

mercoledì 21 maggio 2008

La magnetoresistenza e la memoria collettiva.

Le ricerche fisiche iniziate negli anni settanta sstanno avendo solo oggi i loro frutti e i loro riconoscimenti. E’ infatti notizia dell’autunno scorso che il premio nobel per la Fisica 2007 è stato assegnato al francese Albert Fert e al tedesco Peter Gruenberg per la scoperta della “magnetoresistenza”. Si tratta di una scoperta parallela dei due fisici avvenuta nel 1988. I due scienziati hanno scoperto nei loro rispettivi laboratori il processo che permette di comprimere i dati in un hard disk. Grazie a loro si può ridurre la memoria umana, o almeno migliaia di dati che la riguardano, in un computer di ridottissime dimensioni. Grazie a Fert e a Gruenberg si è passati dalla misurazione dei dati di memoria in megabyte al gigabyte e ora in terabyte (mille miliardi di byte). I commentatori hanno notato che mai come oggi una scoperta della Fisica ha avuto una ricaduta pratica così evidente ed importante. Sembra chiaro come la Fisica abbia abbandonato, ormai da tempo, le sue pretese teoriche per legarsi strettamente alla tecnologia. I filosofi della scienza fanno risalire questo fenomeno al dopo Einstein ed Heisenberg. La Fisica di oggi ha una ricaduta mondana immediata. Si pensi che i supporti di memoria degli I Pod o dei portatili nascono dalla scoperta di Fert e Gruenberg. La Fisica è ricerca tecnologica che si lega al mercato dei prodotti tecnologici o bellici. Le capacità di manipolazione della materia, le nanotecnologie, influenzano direttamente la nostra memoria, il ricordo che abbiamo del mondo, le nostre relazioni. Le mutazioni antropologiche, cognitive, sono enormi. Il termine “magnetoresistenza” ha una grande forza simbolica. La resistenza alla dispersione, la capacità di trattenere memoria, è legata alla macchina. L’impostazione tecnologico della vita quotidiana è ormai totale. La tradizione è raccolta nell’hard disk che è fondato su un sistema di compressione di lamine sottilissime di metallo su cui si fanno scorrere fasci di elettroni. La tradizione significa trasmissione di dati simbolico-culturali. Questo processo ora avviene per regolazione di un flusso di elettroni. La capacità di memoria è direttamente proporzionata alla forza di compressione. Bisogna eliminare quanto è più possibile gli elementi di attrito. La resistenza torna nella semantica della Fisica ma è una resistenza magnetica. Si torna a parlare di intelligenza collettiva. Rispetto alle scoperte nucleari, però, la fisica tende oggi a comprimere l’energia, a farne un uso misurato. Ma la domanda evidentemente non cambia. Si chiede un personaggio del romanzo Atlante Occidentale di Daniele Del Giudice, nella fattispecie un narratore prossimo al Nobel che dialoga con un giovane fisico impegnato in esperimenti sull’accelerazione della materia: «Le cose stanno cambiando, sono cambiate. Non nel senso generico che si dà a questa frase. Le cose stanno scomparendo. Quelle che arrivano, o arriveranno, ho paura che non potrò più sentirle. Ho paura che potrò solo usarle.» I paradigmi che regolano la realtà sono mutati. C’è una forza, che è anche forza culturale, perché è scelta politica, che mira a questo. Le cose non si possono più vedere, nel senso che non possono essere idealizzate (cioè immaginate) ma si possono solo usare. Il vero scontro di visioni del mondo o di paradigmi interpretativi non è tra cultura e scienza (che possono essere la stessa cosa), ma tra diverse concezioni dello spazio.

martedì 13 maggio 2008

Il bullismo o la bolla linguistica

Di fronte agli atti violenti, per lo più dei più giovani, si continua a parlare di bullismo. Il termine deriva dall'inglese bullying e si riferisce all'atteggiamento che un gruppo di bulli può avere nei confronti dei più deboli. Leggendo questa definizione da enciclopedia o le pagine dei giornali che ad essa si adeguano, sembra di essere tornati agli anni di Marlon Brando. Dal loro canto, gli insegnanti di scuola, commentano, come spesso accade, il fenomeno della violenza giovanile con termini di trita sociologia. Il bullismo è un termine forte usato per parlare di un fenomeno debole. Questo scarto crea la bolla linguistica, l'embolo interpretativo, in cui ci si trova. Il bullismo ricorda la violenza portata consapevolemente e programmaticamente verso qualcosa o qualcuno. Al contrario la violenza di oggi, quella adolescenziale, non solo italiana, è violenza "gratuita". Spesso questa violenza è priva di forza, nel senso che non ha alcun scopo politico o programmatico; spesso questa violenza è portata verso se stessi. Si può arrivare ad un paradosso e dire che in realtà oggi non esiste violenza nella società occidentale.
Ogni legge, ogni forma di istituzione umana è fondata su una atto di forza. La legge democratica è fondata sulla violenza. La punizione di una colpa, la punizione di una trasgressore delle leggi è il modo di far rivivere pubblicamente (con atti pubblici) l'assunzione collettiva del corpo-delle-leggi. Ciò che sembra accadere oggi è invece la rimozione della violenza originaria su cui si fondano le leggi. Non c'è violenza proprio perchè non si avverte il carico di forza e di potenza che già sempre risiede in ogni atto umano. La parola stessa dell'uomo è un'istituzione nei confronti del nulla. La violenza odierna non è atro che il frutto di una rimozione della propria natura. L'animale non esce mai dal suo mondo, almeno non per una decisione di specie. L'uomo invece può uscire dal proprio mondo. Dimenticare il sangue, dimenticare la propria specie. Per questo ogni parola è per l'uomo il frutto di una scommessa radicale. Trasgredire la parola significa dimenticare il patto originario. Questo può avvenire in modo positivo con i poeti (in cerca di nuove parole o di nuove prospettive che le vecchie illuminino) e in modo negativo. Il modo negativo dell'uscita dalle parole è la violenza gratuita e autolesionistica. I giovani non sanno di commettere violenza e per questo non sono "bulli". I giovani violenti non fanno altro che assecondare quanto vedono, cioè il nulla. Il problema, piuttosto, è che non sanno dare forma a quel nulla. La loro energia è energia dispersa e autodistruttiva. Questa condizione la dice mirabilmnete Haneke nei suoi film. Forse l'unico che ha centrato con sensibilità aderente il fenomeno. Lo fa senza scorciatoie pop disegnando con la telecamera dinamiche complesse. Le sequenze di Benny's video , e del successivo Caschè , sono esemplari. Riprendono senza ambiguità il processo della rimozione. Sono film che inscenano il sangue e l'assenza di violenza nella nostra società. Benny, l'adolescente protagonista del lungometraggio di Haneke, è un filmaker che vede ossessivamente in video l'omicidio di un maiale. Alcuni uomini sparano alla bestia nella fronte con una pistola a pressione (la stessa che fanno usare i fratelli Cohen al killer di Non è un paese per vecchi). Il ragazzo non farà altro che ripetere quel gesto su una compagna di scuola. Entrambi i ragazzini sembrano d'accordo. Lo fanno a casa del ragazzo mentre si riprendono con una telecamera. Importante naturalemnte il filtro della realtà data dal video. Tutto è traslato, non percepito: il sangue non si vede, non si sente. La reazione spettacolare alla violenza è la ragione storica del nostro presente. Tutto nasce dopo la seconda guerra. Haneke è austriaco o la sa bene. Il lutto è stato coperto dall'inizio delle trasmissioni pubbliche delle tv di Stato. I genitori del ragazzo, scoperto l'omicidio non sapranno reagire. Non sanno cosa dire al figlio. Aspettano una punizione che non arriva.

venerdì 9 maggio 2008

Una riserva per il futuro. I classici riletti da Giuseppe Pontiggia


I classici, soprattutto quelli greci e latini, sono attuali? Serve ancora leggerli? Perché non eliminarli anche dai programmi scolastici? Sono queste alcune delle domande provocatorie e radicali che Giuseppe Pontiggia (Como, 1934 – Milano, 2003) pone nel suo I classici in prima persona, Oscar Mondadori. In questo libro - che raccoglie un intervento che Pontiggia tenne il 13 novembre 2002, pochi mesi prima di morire, presso il centro studi La permanenza del classico dell’Università di Bologna - l’autore de Il giocatore invisibile, Il giardino delle Esperidi, L'isola volante, I contemporanei del fututro, Nati due volte risponde alle domande del pubblico e ripercorre, in sintesi e in uno stile semplice e di facile lettura che andrebbe proposto ai ragazzi delle nostre scuole, alcune delle sue idee sulla letteratura, sulla lingua e sulla scrittura che ha elaborato nel corso degli anni.
Pontiggia porta ad esempio i suoi autori preferiti Seneca, Sallustio, Orazio ecc. per focalizzare il tema centrale del suo intervento sostenendo che “il problema non è se i classici sono attuali, il problema è se lo siamo noi rispetto a loro.” In quanto essi ci possono parlare se da parte nostra c’è un’autentica volontà di ascolto diventando “loro contemporanei”, cercando di immergersi nel mondo che essi aprono, attraverso il loro stile e le problematiche che ci pongono. In tale contesto Pontiggia elabora un concetto diverso di tradizione, più aperto, in quanto necessita del confronto con le culture extraeuropee che si stanno affacciando sul nostro panorama letterario, che non sono più patrimonio esclusivo di specialisti, ma possono essere fruite da un comune lettore che può confrontarle con quelle della nostra tradizione e farle entrare così nel suo bagaglio culturale. Per questo, secondo l’autore, c’è bisogno di un concetto di tradizione che non escluda il meglio delle altre, ma che anzi lo confronti continuamente con i valori delle nostra letteratura, a costo di sacrificare qualche minore per dar spazio ad altre voci.
In tale prospettiva per Pontiggia i classici non sono un peso ma la più grande “riserva per il futuro”, in quanto “dimenticarli in nome del futuro sarebbe il fraintendimento più grande” e in tal modo sembra riallacciarsi al grande poeta russo Mandel’stam, che imparò l’italiano per leggere La Commedia di Dante, quando sosteneva che “classico è ciò che ancora ha da essere”.

giovedì 8 maggio 2008

Milo De Angelis, Poesie


In questi giorni è stato pubblicato l'Oscar Mondadori dedicato alla poesia di Milo De Angelis. Finalmente non bisognerà più cercare i suoi libri tra biblioteche, fiere del libro usato o nei depositi delle librerie. Ora è possibile seguire il percorso poetico di De Angelis dal primo libro Somiglianze, passando per Millimetri, Terra del viso, e Distante un padre, fino a Biografia sommaria e Tema dell'addio. Bisogna invece aspettare ancora per i suoi scritti in prosa, le favole metropolitane di La corsa dei mantelli (al quale è stato dedicato uno spettacolo lettura qualche mese fa a Milano) e i saggi di Poesia e destino.
Sul poeta lombardo è stato scritto già molto, come testimonia l'ampia bibliografia critica presente nel volume mondadoriano (il primo scritto critico è di Dario Bellezza, e risale all'anno 1975), ma non sempre si sono dette cose adeguate alla sua poetica. L'introduzione è affidata allo scrittore romano Eraldo Affinati che, per quel che mi risulta, è il solo che in passato abbia pubblicato un'intera monografia su De Angelis (Patto giurato. La poesia di Milo De Angelis, Tracce, Pescara, 1996). Lo scritto introduttivo di Affinati mette in chiaro alcuni punti non sempre compresi riguardo alla poesia di De Angelis; ad esempio scrive a proposito del presunto "post-ermetismo" di De Angelis: "Si tratta di un sostanziale fraintendimento. Tuttavia è potuto accadere che la sua opera venisse collocata in una linea orfica o neo-orfica, se non addirittura mistica, con la quale, in verità, non ha mai avuto nulla a che spartire. Se con tali appellativi desideriamo riferirci allo sprofondamento cieco nel magma indistinto dell'inconscio dove l'artista raccoglierebbe i propri frutti senza neppure vederli, sfuggendo al controllo dei nessi per raggiungere una suprema libera inventiva; se davvero si vuole intendere questo, non ci potrebbe essere lontananza più radicale dalle intenzioni di Milo De Angelis, i cui errori sono opacità semantica, cesure fra immagini, impossibilità del ritorno indietro chirificatore e, all'inverso, i cui risultati si misurano nella prospettiva di una dimostrazione completa, parola per parola, intuizione per intuizione, virgole e puntini compresi. Il sogno rappresenta la caduta di una barriera, la mancanza di un controllo. Qui c'è invece un disegno nascosto, al quale lo scrittore lucidamente si attiene."
Il libro più importante di De Angelis resta Somiglianze, il fantastico debutto del 1976. Io aggiungerei Biografia sommaria dove le immagini diventano luminose come non mai. Da Somiglianze propongo la fondamentale L'idea centrale :

L'idea centrale

E' venuta in mente (ma per caso, per l'odore
di alcool e le bende)
Questo darsi da fare premuroso
nonostante.
E ancora, davanti a tutti, si sceglieva
tra le azioni e il loro senso.
Ma per caso.
Esseri dispotici regalavano il centro
distrattamente, con una radiogarfia,
e in sogno padroni minacciosi
sibilanti:
"se ti togliamo ciò che non è tuo
non ti rimane niente."

Milo De Angelis,
Poesie
Oscar Mondadori, 2008

martedì 6 maggio 2008

Il corno d'oro

Si sente l'espressione il corno d'oro, si pensa a qualcosa di mitico. Poi, se ci si trova a navigare in quel bacino d'acqua, tutto sembra familiare. Istanbul è una capitale laica, Istanbul è una città musulmana, è il confine tra l'oriente e l'occidente, è quasi Europa. Lì l'artista milanese vestita da sposa è morta con le vesti stracciate, come un gatto scorticato dai cani. Ora faranno un museo con i resti di quel vestito. Il simbolo della fratellanza internazionale. Ma il bianco del suo tulle è steso già sul crinale della collina, che affaccia sul mare. Almeno così può sembrare nella memoria se si va indietro fin dove lo sgurado s'arresta.
Una collina tutta bianca, stesa tra rade macchie verdi. Una barca d'emergenza che s'accosta e di lì inizia la salita. Lo stupore continua nel costatare che quel biancore non è altro che il riflesso di migliaia di lapidi.
I cittadini di Istanbul hanno scelto il lato più panoronamico della loro città per sotterrare i morti. L'angolo più in vista del corno d'oro. I morti qui non li nascondono, li espongono come se guardassero dall'alto. Ci si osserva a vicenda. Iniziando la salita verso la vetta, si nota che sulle lapidi non ci sono foto ma solo nomi. Nessun culto esasperato del corpo o dell'immagine, della presenza terrestre..nessuna esposizione di spoglie di santi incerati. Solo lapidi bianche con un nome. In pochi si fermano vicino alle tombe, passeggiano nel bianco indistinto della collina. Arrivano in cima e bevono un cay. Lì osservano la città con gli occhi dei morti. Il bianco, si sa, è il colore del sacro e dell'esposizione . Come ricorda Dante nel Convivio. Esporre i morti è un atto estremo d'umiltà. Il Bosforo ha visto più sangue di qualsiasi mare.
Penso a Foscolo, ai Sepolcri, alla sua battaglia: i cimiteri fuori o dentro le mura? All'alternativa di una visione laica o sacra della vita. Nè l'una nè l'altra. Noi i morti li teniamo in città ma li nascondiamo o li veneriamo in modo morboso. Non sappiamo averne cura. Li usiamo come proiezione di paure e egoismi di specie. Se si accenna ai morti si è accusati di crepuscolarismo. Quanti oggi dicono, parlano con parole e pensieri di altri senza dirlo. I nomi sono luminosi, la sintassi è luminosa, la nostra grammatica è un sentiero tra le lapidi. Napoleone voleva che i morti fossero giustiziati. Noi non siamo meno stupidi o presuntuosi.

lunedì 5 maggio 2008

Genio italico

Chiediamo ad un anziano uomo italiano che visione ha della vita.
Risposta: "sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

Chiediamo ad un uomo italiano di mezza età che visione ha della vita.
Risposta: "sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

Chiediamo ad uno studente italiano che visione ha della vita.
Risposta:"sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

Chiediamo ad un ragazzino italiano che visione ha della vita.
Risposta:"sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

Chiediamo a un bambino italiano che visione ha della vita.
Risposta:"sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

Chiediamo ad un neonato itliano che visione ha della vita.
Risposta:"sa con i problemi che ci sono, le tasse, i mutui, l'inflazione, non si riesce ad arrivare a fine mese...cosa vuole che le dica."

L'Italia è un Paese pieno d'inventiva e di risorse.

venerdì 2 maggio 2008

Fino alla feccia. Napoli assediata e l'Asse Mediano.


Di Napoli hanno parlato in tanti, forse in troppi, sicuramente non sempre a proposito e con cognizione di causa. Si è sempre oscillato tra la negazione della specificità dei suoi problemi, accampando la scusa che tutte le grandi metropoli hanno le stesse questioni irrisolte e l’esaltazione dell’unicità di Napoli anche negli aspetti più negativi. In pochi hanno compreso che Napoli è un laboratorio, dove si sta sperimentando il futuro dell’Italia, in negativo sicuramente, ma anche in positivo, perché questa città, il grado zero a cui è giunta, è la palestra migliore per verificare nuove proposte, civili, artistiche, di vita comune. Da questo presupposto sembrano partire gli autori di Napoli assediata.
Napoli assediata è un progetto estetico che è nato dagli allestimenti dell’ensemble artistica degli Underworld. Il libro che è scaturito da quest’idea, edito da Tullio Pironti, storico editore napoletano, curato da Giuseppe Montesano e Vincenzo Trione, il primo scrittore, il secondo critico d’arte, è una raccolta di racconti, reportage, immagini e foto che hanno come soggetto l’Asse Mediano, lunga arteria stradale che attraversa l’infinita periferia napoletana, e che, proprio per la sua invasività sul territorio, sembra essere la metafora migliore per dire lo stato attuale di Napoli e della sua provincia, ma anche per rilevare la condizione di chi osserva una realtà che è andata così oltre ogni immaginazione, che ha bisogno di nuove categorie estetiche e di pensiero per essere compresa. Infatti tutti i testi presenti in questo libro, a partire da quelli dei due curatori fino ad arrivare a quelli di Roberto Saviano, Tiziano Scarpa, Peppe Lanzetta, Maurizio Bracci, Cherubino Gambardella, Anna Giannetti, Antonio Scurati, Piero Sorrentino, partono dallo sconcerto che suscita un universo così degradato nell’occhio dell’osservatore e che costringe quest’ultimo ad uno sforzo percettivo e di comprensione, per non cadere nella semplice e scontata denuncia, ma per cogliere l’occasione di tanto orrore per ridefinire le proprie categorie di pensiero e tentare una proposta, allo stesso tempo, poetica e politica. Certo non tutti i contributi sono tali da lasciare il segno o da aprire una nuova prospettiva, ma comunque cercano in qualche modo di dare una risposta, non sempre convincente, ma, tranne qualche eccezione, il più delle volte sincera, per quanto può esserlo la letteratura. L’importanza di questo progetto però è soprattutto nel chiarire una volta per tutte che Napoli è al punto in cui è, perché è assediata da dentro, dal marcio che cresce al suo interno, che ha mille volti e mille figure che non possono essere ridotte solo al malaffare politico e criminale, ma che vanno ricondotte alla totale disintegrazione di una qualsivoglia idea di vita in comune, che non sia quella regolata dalla brutale sopraffazione. E forse la migliore proposta che emerge dai vari testi raccolti è quella di percorrere fino in fondo l’Asse Mediano, fino al termine della notte che esso incarna per scoprire, per dirla con Montesano, che “l’uscita dal circolo vizioso dell’Asse Mediano Occidentale è possibile solo se lo percorri fino alla feccia, allo stremo, alla fine, là dove tutto comincia a capovolgersi in un disegno che non avevi nemmeno immaginato”.

mercoledì 30 aprile 2008

Meccanica pesante


Editi ed inediti da Meccanica pesate.
In memoriam morti bianche(28-04-2003)


Come il padre ha finito con lo sputare
ghiandole di mercurio sul lenzuolo
ha confuso la fine con l’inizio,
“tu chi sei?” ha chiesto al figlio

rinnegando al tempo il suo svolgimento,
non ha atteso risposta, è morto
gettando gli occhi indietro
cronos-soma,

latrato del polmone guasto
lastra ch’evidenzia l’escrescenza
nell’emisfero destro e in quello sinistro
un tartufo più piccolo,

il figlio
l’ha notato per primo-
“è maligno”, alligna nella corteccia,
sale lungo la schiena

“dove porta, ora, la parola?”
Aspettava una risposta,
ma il linguaggio
aveva già compiuto la sua svolta.


Costume e società.

La rubrica del Tg2, Costume e Società,
ci avverte che anche quest’estate
la zanzara tigre ci morderà
e alla solita ora mia madre piangerà

sul posto lasciato vuoto da mio padre,
sulle sue punture mancate,
sulla pelle morbida e schifiltosa
alle creme e alle pomate;

ripenserà al suo moncherino,
al suo ghigno duro,
alle forze trattenute
per una lotta comune,

chiederà ragione
all’addetto di produzione,
per lo spreco perpetrato
dall’energia di Stato,

ricorderà la lingua
di fiamma e di metano
come l’ultima Idea
che puntava verso l’alto,

allora vedrà la classe
trasformarsi in massa
e la massa assecondare
il sangue che trasloca

nel corpo parassita
di un insetto suicida,
crederà che quello sia
il suo nuovo centro,

il punto di ristoro
e quello di ritrovo
dell’organismo democratico
del corpo societario,

poi smetterà di credere persino al suo credo
e resterà immobile
ad osservare il desco paterno,
il posto lasciato deserto

dai consigli per i consumi,
dai commiati e dai saluti,
dallo spray d’ultima generazione
che non fa più sentire il prurito, il dolore.


Conciliazione nazionale.

Advocatus et non latro, res miranda populo.



“Bisogna conciliare,
non esistono prove
per una connessione di causa
tra la loro vita e loro morte.
Dovremmo ricostruire l’ambiente
la meccanica pesante,
legata alla carne
il dito mancante,
l’ingranaggio che cattura la cravatta,
la strozzatura
l’aria che manca,
dovremmo ricreare l’alta temperatura
l’inferno della tettoia,
la polvere che cola
il polmone saturo,
il carcinoma,
le metastasi lungo la schiena.
Manca un testimone
per organizzare l’accusa
nessuno vi darà ragione,
a voi la decisione,
la diretta generazione,
il ramo familiare
la prova del sangue,
voi potreste parlare,
oppure tacere,
rispondere alla miseria
con l’istinto di sopravvivenza,
rimettere in linea lo stimolo e la risposta
accontentarsi del poco che basta.
Perché dissotterrare tombe,
tentare le ombre,
pensate che all’uscita del Tribunale
c’è un rigattiere
che compra bare usate.
Il mercato non ha limiti,
si alimenta in continuazione,
persino i poeti finiranno
per eccesso di produzione
………………………….
………………………….
………………………….

Memorie di un tarallaro.


Il mio quartiere aveva una sola scuola media. Era molto fatiscente. Io ci andavo volentieri. E' stato a scuola che ho capito il mio mestiere. Facevamo ginnastica e il mio prof. ci assegnava dei compiti. Io però, preso da timidezza, restavo in disparte. Non dicevo una parola. Facevamo ginnastica con i grandi. Loro avevano sempre modi prepotenti. Fattomi coraggio gli ho chiesto: "Prof. e io cosa faccio?" e lui, ammiccando ad un ragazzo grosso e occhialuto, mi dice :"tu fai i buchi nei taralli." Il ragazzo, prendendo la palla al balzo, con risata esagerata inizia a chiamarmi "il tarallaro". Io sul momento non avevo colto. Ma poi ho iniziato a pensarci sopra. Da quel giorno nella scuola media, "santo..... e qualche cosa", tutti hanno iniziato a chimarmi "il tarallaro". Questo nomignolo mi è rimasto addosso. Ci pensavo spesso. "Io faccio i buchi nei taralli" mi ripetevo e cercavo di capirne il senso. Preso da questi pensieri sono cresciuto. I miei ricordi erano degni di estati solitarie. Infatti, contrariamente ai miei coetanei, passavo il ferragosto nel mie quartiere, ad inseguire topi stanchi e scorticati, lungo i marciapiedi e i viali. Di tanto in tanto leggevo i manifesti mortuari. Quelli freschi splendevano iridescenti con la colla che rifletteva i raggi solari. Ogni morto aveva un motto che spiegava il loro mestiere. Io mi ripetevo "..ed io cosa farò da grande, cosa sarò da morto". Proprio riflettendo su questo, un giorno d'agosto, incontro il ragazzo robusto dagli occhiali spessi. Gli sorrido timidamnete. Abbassando lo sguardo. Lui mi guarda e mi fa "Ma non sei ancora morto!?" Lo dice un po' ridendo. Quella sua schiettezza mi sembra giusta e opportuna. In fondo sapeva chi ero. "Il tarallaro, quello che fa i buchi nei taralli". Questo, è scritto, sarà il mio lavoro. Infatti ho iniziato a lavorare per Leopoldo come assistente di laboratorio. Da lì ho imparato. Sono diventato masto. Bravo a togliere il superfluo da ogni impasto.

martedì 29 aprile 2008

Il perdente radicale

Chi è il perdente radicale? Quali le sue caratteristiche? Dove si nasconde? Se da un punto di vista metafisico siamo tutti perdenti, Napoleone come l’ultimo derelitto di Calcutta, perché tutti soggetti al tempo e alla morte, da un punto di vista politico la questione è molto più complessa.
È questo il nodo concettuale che affronta il poeta e saggista tedesco Hans Magnus Enzensberger nel suo breve saggio Il perdente radicale, Einaudi 2007, trad. di Emilio Picco. Il perdente radicale non è lo sconfitto o il fallito che magari spera ancora in un riscatto è, invece, colui che ha introiettato il giudizio negativo degli altri e lo ha fatto proprio ritirandosi dal contesto sociale; è un dormiente, di solito è un maschio, che si macera e si autocommisera nel suo vittimismo e aspetta l’occasione per scaricare in maniera totalmente distruttiva il suo odio represso su qualcuno o qualcosa: la famiglia, il luogo di lavoro, i vicini di casa. E le cronache di questi ultimi anni si riempiono di episodi di violenza estrema e apparentemente immotivata, anche perché, secondo l’autore, la nostra società, a differenza di quelle del passato, promette un progresso sociale che, però, non riesce ad eliminare la precarietà della condizione umana, ma solo a modificarla. Quindi, a suo giudizio, sono aumentate a dismisura le aspettative di uguaglianza a fronte di una limitatissima possibilità di una loro effettiva realizzazione.
Ma quando è un popolo, un gruppo sociale o gli appartenenti a una religione ad essere nelle condizioni psicologiche sopra descritte cosa accade? Secondo Enzensberger si va incontro al fanatismo, come dimostra l’ideologia nazista che nasce dall’umiliazione tedesca nella prima guerra mondiale e che individua il capro espiatorio nell’ebreo, facendo di tutto per annientarlo, per poi autodistruggersi. O, per arrivare ai giorni nostri, all’integralismo degli islamisti, che non ha nessuna proposta politica costruttiva se non quella di morire annientando il presunto nemico, l’Occidente, causa dell’umiliazione dell’Islam e della caduta della sua civiltà da un passato glorioso. A tale minaccia i paesi occidentali non rispondono adeguatamente, anche per i loro interessi economici nel Medioriente, e sembrano non rendersi conto che il virus dell’odio è al loro interno. Enzensberger non offre soluzioni, se non quella di combattere queste tendenze distruttive insite nelle nostre società. Come, però, è tutto da scoprire.

lunedì 28 aprile 2008

Capro espiatorio

In uno dei suoi scritti G. Agamben spiega dove nasce il sintagma "capro espiatorio". Il capro è l'animale sacrificale che si usava nei riti antichi. L'uccisione della bestia (la capra)comportava l'espiazione dei mali di una determinata comunità. La bestia rappresentava tutti i mali e la sua uccisione, significava la sollevazione dei membri di una tribù dalle cose cattive che l'affliggevano. Nelle piccole tribù, dove la responsabilità personale basata sull'identità individuale non esisteva, l'animale fungeva da purificazione collettiva. Il capro espiatorio lo si trova sotto varie forme in diverse fasi della storia dell'umanità e della sua letteratura. Una forma moderna la troviamo nel racconto di Camus "Lo straniero" dove, nel finale, il condannato a morte gioisce tra la folla. Di fronte al patibolo colui che ha commesso il male gratuito riconosce il proprio ruolo e quello di chi gli sta intorno. Quell'uomo è il simbolo della purificazione. Quest'episodio è ambientato ad Algeri. Qui esiste la giustizia degli uomini civili ma lo scrittore ricorre a quella primitiva delle prime tribù. Wittgenstein ci ricorda che i vecchi riti resistono immutati tra le pieghe del notro mondo. Quando i riti tornano in superficie viene messa in gioco la tenuta delle conquiste umane. Quantomeno la pretesa dell'illumiinismo di dare ragione del corpo individuale e dei diritti e dei doveri che ad esso si riferiscono. Cosa regola una società moderna: il rito del sacrificio o il diritto ed il dovere individuale di ognuno di fronte alle proprie colpe?
In una recente trasmissione televisiva (quella di Santoro) un cantante napoletano canta un brano propiziatoria di morte di fronte allo scrittore Saviano, posizionato al centro dello studio. Lo scrittore è distante da tutti gli altri ospiti. Santoro alla fine dell'esibizione dichiara di aver avuto i brividi. Qualche spirito aleggia negli studi di Rai Due. Si parla tutto il tempo di sangue e terra, potremmo dire sangue e suolo, si fa riferimento alla morte.
Non sono riuscito a reperire il video ma credo che l'ultima puntata di "Anno zero" sia da analizzare in ogni suo particolare. Meriterebbe un'analisi logica a parte. Lì si può osservare la messa in atto di un ritorno ai riti primordiali, quelli incivili che spiano con occhi rossi quelli civili della responsabilità personale. Il teatro televisivo ha reso manifesto che il Paese è ridotto a tribù primordiale. L'ostaggio del sangue, il testimone dei delitti, l'uomo sotto scorta, è ora esposto sotto gli occhi di tutti, e tutti aspettano che il rito si compia. L'ha voluto lo scrittore, l'ha voluto il popolo, lo vuole chi ha commesso il male. Non c'è più distinzione. Solo la morte e la purificazione potranno restituire ad ognuno il proprio ruolo. L'indignazione del sangue creerà un confine tra i giusti e gl'ingiusti. Proprio come avviene nel finale di un grande film nel quale ancora una volta è ripreso il rito del capro espiatorio: il capitano Kurtz, abbassa la testa rasata sotto il macete del soldato che si è spinto fino alla fine del fiume per rimettere le cose a posto. La sequenza della decapitazione si alterna con quella della macellazione di una bestia sacrificale. Il film s'intitola, tradotto in italiano, l'apocalisse ora.

mercoledì 23 aprile 2008

Teatro e poesia

La rivista telematica Ulisse, curata da Italo Testa, Alessandro Broggi e Salvi, ha pubblicato il numero 10, il vol.2, dedicato al rapporto tra poesia e teatro. Ci sono tra l'altro testi dedicati alla scena scritti da Ballerini Luigi, Fantato Gabriela, Pugno Laura, Frungillo Vincenzo, Luzi Mario etc.
Ci sono studi sul teatro dei poeti con interventi di Buffoni, Nacci, Montalto (su Sanguineti). Ci sono infine testi poetici di Fiori Umberto, Genti Francesca (anche autrice del testo "Dark room" per i Baustelle), Fantuzzi Matteo (di cui propongo un testo).

da
www.lietocolle.com/ulisse



Da Sala d’attesa

1.

Io che tengo il cuore in mano,
per quattro ore ogni due giorni,
che sono Dio nei turni in sala
operatoria, mentre risalgo
valvole ed arterie, che dono nuova
vita a carne che si spegne.

Io che arrivo a casa e sono niente
schiacciato da mia moglie, i figli,
il cane San Bernardo, dai debiti,
dai vizi, dalla gente che mi guarda
come se potessi risuscitare i morti
veramente, come se contassi.

2.

Io che sento il male,
un male disperato, come dei
chiodi in faccia, come il cranio
fosse preso e torto da una bestia
subdola e spietata. Io che provo
col dolore
rabbia e non so rassegnarmi, poi chino
il capo e aspetto, come non fossi,
come non provassi tutto questo, giorno
dopo giorno, notte dopo notte, sola
mano nella mano con il dramma
che mi abbraccia, mi sta accanto.

3.

Io che porto il lutto da quando
avevo 18 anni, che ho perso
mio marito in Russia e non ho
conosciuto uomo da quel giorno
per rispetto, io che ancora spero
che mi illudo che spunti dalla porta
come niente
con il volto lieve dei vent’anni,
sorridente. E intanto passo le giornate
tra ginecologi inventando quadri
clinici, per poter sentire mani d’uomo
scorrere nel ventre e immaginare
quel non è stato, mai una volta.

4.

Io che vado giorno dopo giorno
negli ipermercati e passo lì la vita
come se comprare fosse in qualche modo
rendere le cose, come una rata
a un tasso da strozzini.
Io che guardo le vetrine e scruto le commesse,
se sono tristi: perché la gente passa
e non le guarda mai negli occhi
se non per chiedere “Ma mi sta bene questa
giacca ?” Certo, è quella giusta.
Come sempre.
Come tutti quanti.

5.

Io che vorrei morire,
morire e basta
spegnermi
come la fiamma si esaurisce
quando ha finito il nutrimento,
non ha più aria.
E invece vedo questa gente
che sta bene e d’improvviso
chiude gli occhi e lascia
tutto
e penso a quanto è ingiusto.
Io che vorrei morire
e non ci riesco.

martedì 22 aprile 2008

La famiglia nucleare è una struttura morta?


Il sé dell’individuo occidentale, la soggettività dell’uomo, si è da sempre formata nel chiuso delle relazioni di senso del nido domestico. Le ricerche sull’istituzione del sé all’interno della struttura familiare nucleare risalgono ad Hegel. Successivamente la critica alla famiglia nucleare è stata sviluppata all’interno della scuola di Francoforte: le ricerche di Marcuse, Horkheimer, Adorno e Fromm su questo aspetto sono state illuminanti e di grande importanze. Alle loro critiche bisogna aggiungere una prospettiva contemporanea: quando il domestico viene scoperto e viene infranto da quelli che sono i mezzi tecnologici della “società trasparente”, per dirla con G. Vattimo, o della “società fluida”, per dirla con Z. Bauman, cosa succede nell’intimo del Sé dell’uomo? Cosa succede quando la struttura di senso archetipica viene svuotata? Oppure, ci si potrebbe chiedere, è vero che questa struttura di senso viene svuotata o cambia semplicemente forma? Seguendo l’indicazione di Benjamin, quando parla di “struttura morta”, si può dire che la struttura familiare non è più produttrice di valore e quindi di potere sociale. Resta, la famiglia, nella forma larvale ed automatica del contenitore vuoto. Che cosa comporta questa ipotesi? La formazione del singolo non è più adattata secondo quelle che sono le aspettative culturali, pedagogiche, dei padri e delle madri; la struttura familiare non trova più in se stessa il proprio senso. Non regge più la gerarchia sociale e valoriale classica che parte dalla famiglia e dal suo ruolo confessionale, nel senso di luogo proprio di codificazione e di canonizzazione dei desideri e dei sentimenti del sé, per strutturare tutto l’assetto della società. O si potrebbe dire che proprio il ruolo confessionale dell’oikos ha permesso l’installarsi immediato delle tecnologie telematiche nella stessa formazione del sé, e con ciò ha portato alla canonizzazione dei rapporti relazionali? La società di massa diventa una società telematica sulla base della fusione "immediata" tra struttura familiare e mezzi informatici. L’essenza comunicativa e comunitaria dei rapporti familiari sono il terreno sul quale fa presa la spinta informatica della tecnologia contemporanea. In questo caso allora non esiste vera opposizione tra le due forme, quella oicologica e quella tecnologica, o questo rapporto è diventato altamente problematico? Il microcosmo della famiglia è assorbito da un macrocosmo che ne sfrutta la forma. La simbiosi è tra i mezzi tecnologici avanzati, che non hanno un ethos (dimora) proprio e la famiglia: nel nuovo assetto societario (nato nei primi anni cinquanta) la tecnologia offre i mezzi e la famiglia la struttura che li accoglie. La struttura morta serve allora come punto di snodo dei mezzi, è il nucleo che tiene i mezzi fermi nei loro ingranaggi. Bisognerebbe parlare di una funzionalità tecnologico-familiare del sistema. Prima della famiglia che forma il singolo in comunità, come essere responsabile di valori conviviali, c’è ora la tecnologia come produttrice di mezzi. La famiglia decade dal suo ruolo archetipico, cioè dall’essere una forma trascendentale che produce valori universali validi per tutti i componenti della società, per diventare una struttura funzionale al lavoro dei mezzi di produzione tecnologica. Ma la simbiosi della struttura e dei mezzi riesce da sola a reggere il sistema? Secondo questo modello sistemico quale è la forma del soggetto, come si forma il sé così preso in questa strettoia? E’ possibile che il sé dell’uomo si riconosca in se stesso così incluso nel modello sopraesposto; o è proprio una possibile crisi di tale modello, l’uomo aldilà della struttura familiare e quindi aldilà della stessa macchina tecnologica, che permette una riflessione nuova sul se stesso e sulla comunità? Le prime ipotesi che si possono accennare riguardo alle domande qui esposte è che il sé dell’uomo calato nella società tecnologica si trova sì oltre i valori comuni che regolano una comunità fondata sulla politica e sulla pedagogia familiare, ma non si trova con ciò nella piena crisi dell’abbandono di quei valori. Ossia il sistema informatico, che è una mutazione semantica profonda del sistema capitalistico occidentale, mantiene il soggetto in una costante situazione di "frustrazione personale". Si tratterebbe qui di ampliare il discorso sull’isteria familiare di Foucault a tutto il tessuto sociale. Per ora di questo processo vediamo la bruta violenza: omicidi domestici sempre più frequenti, da un lato, e violenza gratuita del branco (il gruppo dei pari, gli adolescenti lasciati a se stessi) dall'altro.
La mancanza dei valori condivisi non corrisponde ad un’effettiva maturazione del lutto perché la struttura familiare è in realtà mantenuta nella sua forma come un simulacro, ci si trova così nella vera e più profonda situazione media. La medietà, che è la cifra più propria della società informatica, si regge proprio sulla mancata formazione del Sé, si regge cioè sul misconoscimento del proprio dolore e quindi sulla mancata realizzazione di se stessi. Gli individui sono così presi nella società sistemica ed informatica nella loro incompletezza, nella mancata somatizzazione del dolore. La figura della dialettica hegeliana, che è alla base del soggetto moderno e della società moderna, non si realizza. Questo è stato in realtà già notato, ma in senso positivo, da Bataille quando parla di “dialettica in fase di arresto”. Di fronte a questa figura incompleta e media della contemporaneità allora la soluzione che si può pronosticare è una ricomposizione del Sé aldilà della morta struttura familiare e quindi della macchina informatica. Una situazione di questo genere, un'entrata effettiva in uno stato di eccezione, per dirla con Benjamin, sembra pronosticarlo proprio la scienza con le sue spinte assolutistiche. Nel senso che è proprio il delirio di onnipotenza delle nuove tecnologie sia in campo scientifico, che nel campo della telematica, a poter riaprire la possibilità di una seria riflessione sul sé del singolo. Quest’occasione è data proprio oggi che la scienza tecnologica pensa di poter far almeno della struttura familiare, e scardina la macchina sistemica e simbiotica che reggeva la comunità mediatica. Lo stato d’eccezione effettivo, aperto della spinta assolutistica della scienza, crea le condizioni di un scardinamento del simulacro familiare e di una conseguente liberazione di quel dolore intimo che è il presupposto di ogni serio interrogativo del sé su se stesso.

sabato 19 aprile 2008

La Volante Rossa





Ci sono storie che per quanto lontane nel tempo e a volte volutamente dimenticate suscitano, se riportate all’attenzione dei lettori, curiosità e inquietudine. È il caso della Volante Rossa guidata da Giulio Paggio, il “tenente Alvaro” della 118° Brigata Garibaldi, formazione di ex partigiani e operai formatasi nell’immediato dopoguerra a Milano, per la precisione a Lambrate, periferia est, nella ex Casa del Fascio, diventata Casa del Popolo a via Conte Rosso.
La storia della Volante Rossa, di Alvaro, di Balilla, di Otello, di Lino e degli altri che parteciparono a questa tragica avventura è ricostruita con attenzione e rigore storiografico dall’omonima opera scritta da Fausto Rondinelli e Carlo Guerriero (Datanews, 1996) corredata anche da un’interessante appendice fotografica. Il libro, che con impianto da romanzo giallo fa iniziare la narrazione dalla fine, ossia da i due “omicidi del taxi” avvenuti entrambi il 27 gennaio 1949, ricostruisce, con dovizia di informazioni, ricavate dalla stampa e dalla pubblicistica dell’epoca, non solo la storia della Volante ma anche la macrostoria in cui essa si inserisce. In particolare, il contesto dell’Italia, soprattutto del nord, all’indomani del 25 aprile, le aspettative dei partigiani, le lotte operaie, il complesso rapporto con il Pci e le istituzioni del ricostruendo stato italiano, nonché gli scontri con le rinascenti formazioni fasciste. Nel libro grande spazio è dato al processo che seguì gli ultimi omicidi attribuiti alla Volante, attraverso gli atti processuali vengono, non solo ricostruiti i fatti, ma anche messe in evidenza le forzature compiute dai giudici nei confronti degli imputati pur di giungere a una condanna, di chi aveva commesso gli omicidi, ma anche dell’intera formazione politica.
“Solo gli strateghi da caffè possono pensare che sia stato facile dire ai partigiani, dopo quella guerra atroce, quel cumulo di rovine, quelle torture: adesso tornate a casa e buttate via le armi che avete conquistato rischiando la vita”. In queste parole di Pietro Ingrao è riassunto il senso della vicenda della Volante rossa e con essa di altre formazioni che agirono in quegli anni. Per loro la guerra non era finita o meglio non aveva raggiunto il suo vero scopo: la rivoluzione e la presa del potere da parte degli operai e dei proletari guidati dal Pci; per questo motivo molti di essi non deposero le armi, ma continuarono a compiere azioni di rappresaglia e di vendetta contro ex fascisti o persone che si erano compromesse con la Repubblica Sociale, cercando di organizzare il malcontento nelle fabbriche per il ritorno dei vecchi padroni o per il peggioramento delle condizioni di vita dell’immediato dopoguerra.
Il pregio maggiore del libro è che attraverso un punto di vista ben preciso, partecipe ma critico, analizza l’intera vicenda senza reticenze, cercando, sin dove i documenti storici e l’irreperibilità di molti dei protagonisti (alcuni di essi riparati nei paesi dell’Est) hanno permesso, di ricostruire un pezzo della storia dell’Italia del dopoguerra, volutamente dimenticato per la sua spinosità e irriducibilità alla storia ufficiale del paese. E anche di aver fatto giustizia di giudizi affrettati o dovuti all’opportunità politica del momento che individuavano la formazione di Lambrate come mero esempio negativo, rifiutandone così la complessità, e addirittura come precursore delle Brigate Rosse.
In ultimo, proprio per i loro risvolti controversi, le azioni della Volante rossa non sono solo una vicenda storica, ma hanno in sé anche un sottofondo epico e leggendario, come colgono bene gli autori: “il ricordo della formazione di ex partigiani milanesi era destinato a riaffiorare ogni volta che mobilitazioni antifasciste ed operaie tornavano a far salire la tensione nelle aree industriali del nord: segno evidente che il valore, anche leggendario, che quella lontana esperienza di lotta aveva assunto non era stato affatto intaccato né dalle strumentalizzazioni né dalla rimozione operata nei suoi confronti da parte del Pci”. E’ questo fascino ambiguo che rende tali eventi un piccolo neo nel conformismo storico, un punto d’attrito dove la presunta linearità della storia s’incaglia ed è costretta a tornare sui propri passi per confrontarsi con ciò che, nonostante tutto, non può e non vuole essere dimenticato.

Altra Bibliografia:

Cesare Bermani: rivista Primo Maggio (aprile 1977) saggio La Volante Rossa (estate 1945-febbraio 1949) .

Cesare Bermani, Storia e mito della Volante rossa. Prefazione di Giorgio Galli, Nuove Edizioni Internazionali, pp. 160 - 1997.

G. Fasanella e G.Pellegrino, La guerra civile, Rizzoli, 2005.