giovedì 31 ottobre 2013

Da La casa.

Vivo in una casa vuota,
ma di cosa dovrebbe essere piena una casa?



Resta solo l'utilizzo mancato
d'ogni oggetto, lo puoi vedere,
certo, strabuzzando gli occhi
come facevi da ragazzo,
fissandoti allo specchio,
il petto nudo, e tutto il resto,
spezzato nel mezzo,
un capezzolo che guardava il cielo-
l'altro l'inferno-.
In questo eri un mitico busto,
con i vestiti di tua madre
tutto intorno, la macchina da cucire
che fissava i punti alle gonne.
Allora aspettavi il padre,
l'occhi mansueto del tempo,
il destino fermo su un corrimano.
Di questo non puoi avere rimpianto,
nemmeno adesso, che la rosa nel vaso
fa la muffa lungo lo stelo.
Lo dici a te stesso, riflesso nel vetro:
"I vestiti che indosso li darò in pasto
agli zingari del centro".

(V. Frungillo)

Stagioni. Da La casa, poesia sul distacco

Lei tiene un braccio attaccato alla pancia,
l'altro lo stende verso il tavolo,
mi porge la mano.

"Ti ho portato dell'uva
rubata alla mensa.
C'è qualcosa di misterioso
nella frutta che mangiano i bambini.
Provala."

Non servono lezioni sulle stagioni,
loro si spiegano da sole.
E' tornata per l'ultima volta.
Guarda fuori.
Non guarda più me.

"Ricordi la gomena
che hai visto quest'estate sul molo..?
Secondo te, cosa reggeva?
La liquirizia che ci riempiva la bocca,
un giorno svanirà.
Sentiremo un sapore diverso,
saremo altro e altro ancora".

Rovista con le unghie in una storia comune:
"Sapessi ora cosa vedo."
(V. Frungillo)

mercoledì 30 ottobre 2013

34. Manuale di sopravvivenza.

Il capitale vuole diventare nient'altro e niente di più che il gestore cibernetico e quantizzatore dell'Altro, nel brodo di coltura delle comuni autoanalitiche, dove ciascuno autogestisca la propria ristrutturazione decentrata (si trasformi in un "terminale biologico" del computer che lo minimizza, statisticamente, nel quanto di energia erogata che gli è senza nemmeno più saperlo), e dove nessuno possa più, pena l'essere eucaristicamente sbranato sul posto dalle guardie di qualche servizio d'ordine del neo-cristianesimo, osare di percepirsi come individuo che pretende di accedere, in quanto tale, alla totalità, e che praticamente sappia come, per farlo, occorra innanzitutto distruggere con violenza ogni forma fittizia della comunione totalitaria nel Grande Niente. (G. Cesarano)

martedì 29 ottobre 2013

32. Manuale di sopravvivenza

Il mollusco-Io con cui Cooper imbastisce le sue fatture, è la boite-à-merde in cui la negatività pone le uova, tra le valve dell'assenza, di tutti i virus che assassinano la presenza. " Cadiamo così in vari stati di intossicazione che ad un certo livello perlomeno si avvicinano all'amore, e ci ammacchiamo per questo, o forse, con un po' di fortuna, veniamo amati per questo. Ma ad un certo punto deve prevalere una separazione, cossicché la coppia quasi-monogoma apre se stessa al mondo. Qualsiasi monogamia è la pretesa d'essere quello che è. Un atto senza pretesa può condurre ad una cessazione della pretesa e può anche dare origine, in un modo che definirei rivoluzionario, all'inizio dell'Amore e alla nascita della bomba -ma non di Quella Bomba"(Cooper). Meglio intossicarsi fino in fondo nella boite-à-merde di una coniugazione pretendente (che abbia la pretesa di essere una coniugazione reale), che perdere per sempre ogni possibilità di conoscersi stemperando il centro focale della propria presenza nella lacuna ecumenica della comunità auto-terapeutiche, dove l'eucarestia di un'umiliazione anti-biotica (nel senso etimologico del termine) sostituisce riformisticamente il mutuo avvelenarsi d'amore indementito che spinge ogni "coppia quasi monogoma" a diventare bomba, e a generare bombe, e a predisporsi, sempre più concretamente, non ad "aprirsi" al mondo dell'annichilimento, ma a esplodervi, spargendo, tutt'intorno il pretendere di più dell'amore che è la pretesa d'essere. Qualsiasi atto senza pretesa può condurre soltanto alla collusiva associazione fra tutti coloro che non desiderano più. E niente uccide meglio il desiderio, movimento essenzialmente dialettico, di un "appagamento" socializzato, troppo simile al salario per tutti e alla medicina mutualistica per non nascere dalla medesima formalizzazione sociologica: un neo-cristianesimo socialista. (Giorgio Cesarano)

31. Manuale di sopravvivenza

Come da sempre hanno saputo sciamani e stregoni, la morte è un prodotto sociale. Non esiste morte "naturale", o "naturalmente accidentale": ciascuno è assassinato, a partire da quando è "vivo", da una volontà violentemente contraria al suo essere vivo. La morte naturale è degli animali, il semplice cessarsi. Degli uomini, la morte è complesso soccombere alle condizioni generalizzate di non-vita. (Giorgio Cesarano)

lunedì 28 ottobre 2013

30. Manuale di sopravvivenza

Frattanto, sulla scena in cui, mitra alla mano, i pig distruggono i feticci del morbo, identificati nei vivai dove tristissimi molluschi sintetizzano nel proprio organismo tutti i veleni sgorgati dalle fogne in cui spurga, nel "golfo più bello del mondo", la composizione organica del capitale, «una cinquantina di donne con bambini in braccio, guidate dalle zi'Maesta, le capopolo del Pallonetto, sono salite sulle barche dei pescatori di Borgo Marinaro e hanno raggiunto i militi, lasciati per l'inchiesta giudiziaria. Gridando: "I nostri bambini hanno sempre mangiato le cozze e sono belli e sani", le donne hanno aperto i frutti di mare e li hanno dati da masticare alle "creature". Un motoscafo della capitaneria ha allontanato le incoscienti dimostranti» ("Corriere della sera", 8-9-73, a firma Leonardo Vergati). Al di là della devozione "sottoproletaria" alla fatalità, queste madri dell'ira estremizzano in un unico gesto la loro coerenza di nutrici mortifere e la consapevolezza di essere loro stesse mediatrici e figlie di quella morte che veniva a specchiarsi nel golfo dal fondo dei secoli. L'eucarestia impartita da queste donne ai loro bambini era davvero un vaccino scaturito da un'antica gnosi. Non si esorcizza la morte prodotta dall'alambicco sociale con risibile demonizzazione di un mollusco: la si sfida attraversandola, ponendo in gioco innanzitutto, e con rabbia della vera cognizione, il sussistere stesso della propria presenza, totalmente assunta perché sia possibile totalmente rischiarne la conquista al di là della prova. (Giorgio Casarano)

lunedì 14 ottobre 2013

Respirare il limite. Note su Futuro semplice di Gianni Montieri


Imparassimo almeno dalle foglie/ cadere nella stagione giusta/ mantenendo un tono di decoro/ la scelta del colore.  Leggere la poesia di Gianni Montieri significa entrare in una dimensione di limpidezza cristallina, in un esercizio di pulizia e purezza. Di Montieri è propria l’attenzione, mai manieristica, per il dettaglio del dettato; ogni parola in questi versi vive di una propria necessità insostituibile, che scaturisce dalla percezione precisa, chirurgica, del flusso di vita che scorre dinanzi allo sguardo del poeta. Un’attenzione che sintetizza la vertiginosità del dettato poetico con la profonda capacità descrittiva del vero narratore. Non è un caso che una delle poesie del libro sia dedicata a Raymond Carver, quasi alter ego del poeta.
Il tratto comune di molti testi di Futuro semplice (LietoColle, 2010) sta nella capacità di dire un sentimento, di mostrarlo nella sua originaria verità, senza nominarlo, ma attraverso la condensazione nei gesti, negli oggetti; e più che a un uso, che pure è presente, del correlativo oggettivo, questo procedere mi dà la sensazione di un approccio fenomenologico: mostrare gli eventi nel loro originario manifestarsi. Il mondo viene colto nel suo darsi prima di qualsiasi  distinzione tra soggetto e oggetto, tra interiorità ed esteriorità e quindi, stilisticamente, tra lirica e realismo. In questi versi le cose ci accadono nella loro evidenza primigenia - e quindi nella loro semplice apertura alla vita, al futuro - nella loro immensa gratuità e sono colte prima che si possano interpretare, giudicare, prima che il vivere ci costringa a scegliere a perpetuare quell’errore che l’esistere è. Tutto ci accedeva insieme ripete Montieri in più testi mostrando un’attenzione che, al tempo stesso, è un ricordo mitico e un percepire originario (l’occhio non distingueva/ l’inevitabile dallo straordinario/ conteneva nella stessa iride/ il contrabbando e San Martino/ il parcheggio abusivo e via Orazio) e che diventa un vero e proprio atto d’amore per la vita, nelle sue contraddizioni irrisolte (si veda il bellissimo frammento XXVI dell’inedito (Sud) in caso di morte).
I testi di questo libro e gli inediti a cui ho avuto accesso hanno sempre qualche cosa, uno scarto direi, minimo, inavvertito, che sorprende, uno scatto che lascia a bocca aperta, ed è quello scarto tra il percepire irriflesso, ordinario e lo sguardo poetico, che, invece, disvela l’intima essenza di un evento, di un attimo, del vivere. La capacità di Montieri è di restituire quello spazio, quella sospensione, in cui le cose hanno lo smalto originario della creazione, per dirla con Pasternak, e come nota Mary Barbara Tolusso nell’introduzione, e questo è un tratto comune con altri poeti della sua generazione, penso a Italo Testa e alla sua La divisione della gioia. In Montieri, però, la sospensione è data, oltre che dall’attenzione del guardare che è sempre insieme un “sentire”, anche dalla condizione di non-luogo biografico (nato al sud e residente a Milano) che diventa non luogo esistenziale e si fa  privilegio di poter vedere le cose da una prospettiva marginale, tangente, coglierle nella loro luce radente, nella loro verità - se è vero ciò che dimora nell’estremo - nel dettaglio, nel margine, al confine tra una cosa e il suo manifestarsi originario.

La poesia di Montieri si mostra così come una via rigorosa nella solitudine, nel colloquio, al tempo stesso terribile e meraviglioso, con il silenzio che avvolge e custodisce ogni cosa. Ma questo colloquio non ha nulla di solipsistico, anzi è una ricerca di un “tu” a cui rivolgersi, che spesso assume le sembianze di un’assenza, di una donna che si è amata o che si ama o altre volte di un interlocutore letterario con cui confrontarsi sul senso del vivere e del dire, come nella già ricordata poesia Absolute beginners dedicata a Carver (Certo questa dei tagli all’epoca/ non devi averla digerita nemmeno un po’/ loro ti dicono: “è il mio lavoro”/ e invece è il tuo// tornando a noi, che dirti?/ Certi giorni l’editor servirebbe a me/ quando non so risolvermi ad uscire/ e nemmeno in giardino so quando potare).  La solitudine è quindi un’attesa, un ordine necessario (La vita in uno ha meno metri/ spazi angusti e un ordine necessario).  La parola poetica è quell’ordine, è un processo di sottrazione è un’economia che richiede di sprofondare nell’essenziale, di regolare il battito del cuore al minimo, di respirare in silenzio, di ascoltare il limite al quale siamo consegnati (…uno spiraglio/nell’attesa indietreggio un metro/ chiudo gli occhi, respiro piano/ è questo il limite) .

Francesco Filia

mercoledì 9 ottobre 2013

Presentazione La neve. Milano, 4 dicembre 2013



Libreria popolare di Via Tadino - Milano

Conversazioni in libreria
Mercoledì 4 dicembre, ore 21
Presentazione delle poesie
La neve
Fara - 2013 – pp. 56 - € 11
di Francesco Filia
Ne parliamo con l'autore Francesco Filia
intervengono Giancarlo Pontiggia
Vincenzo Frungillo e Gianni Montieri

«Una silloge compatta, costituita da trenta
frammenti che compongono un “poema
dell’assurdo”. Mi si perdoni la formula
d’impatto; mi spiego meglio: la neve a Napoli.
Ecco il presupposto (presunto o reale) di chi
“attraversa la città” e in essa la storia (del
proprio vissuto e della città stessa) con
competenza stilistica e capacità “lirica”
(nonostante la struttura del testo tenda di
frequente verso una “quasi prosa poetica”),
proponendo un versificare disteso ma attento al
dettaglio: «Intuire quel che non può essere
colmato sedersi / affondare la mani nella terra
sperare nelle nuvole / che piova, sentire l’odore
di zolle bagnate alzarsi/camminare fino alla
cresta, vedere il cielo allontanarsi / voltargli le
spalle, lasciarsi cadere, sapere / crollare.»
Giuseppe Caricchia

Francesco Filia vive, insegna e scrive a Napoli, dov’è nato nel 1973. I suoi interessi si
sviluppano tra poesia, filosofia e critica letteraria. Sue poesie e note critiche sono
presenti in numerose riviste e antologie, tra cui Il miele del silenzio (a cura di
Giancarlo Pontiggia; Interlinea, 2010). Ha pubblicato i poemi in frammenti Il margine
di una città (Il Laboratorio, 2008) e La neve (Fara, 2012), vincitore del concorso
nazionale per inediti “Faraexcelsior” 2012, del concorso nazionale editi Civetta di
Minerva 2013 e finalista del premio nazionale di poesia Ponte di Legno 2013. Collabora
al litblog Nellocchiodelpavone.


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