«La terra
è scossa da vene invisibili/ di materia vuota e di solida/ aria. Massa/ che
fibra per fibra. Le sento/ pulsare, che trema, terra mai così solida, mai così
ferma/ come quando completamente vibra». Le
api migratori (Oèdipus, 2007) siamo noi, non c’è maggior catastrofe e pericolo nella
natura dell’uomo (Saremo un
solo incubo, uno strazio/ che strega insieme lo stare e l’andare./ Riguarderà
l’uomo, /l’amore, l’apertura alare.). Dietro la metafora dello sciame killer,
prodotto dall’uomo con un esperimento di laboratorio fuori controllo, c’è il fascino
e il terrore che l’umanità prova per se stessa e per la sua hybris e qui sembra
risuonare il verso del primo coro dell’Antigone di Sofocle “Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia/ di
più inquietante dell’uomo s’aderge”. E come i bambini che hanno gli incubi
e sognano i mostri, che sono nient’altro che la proiezione di angosce
interiori, così l’umanità adulta, per rispondere all’angoscia che alberga nel
suo intimo, la attribuisce a qualcosa di esterno, di elementare e minaccioso. In questo contesto Le api mi hanno portato ad un altro libro, a quel capolavoro
della letteratura horror che è The stand (L’ombra dello scorpione) di Stephen
King, in cui da un esperimento in laboratorio è prodotto un virus che stermina
la quasi totalità della popolazione mondiale. In questi due libri, e in tanta
arte del secondo ‘900 e di inizio secolo, c’è l’intuizione che il progresso tecnologico
è ciò che, paradossalmente, permette l’irruzione dell’elementare,
dell’inquietante, rimossi dalla civiltà, nella nostra esistenza e nella storia
e, grazie a questo ritorno dell’elementare - dove la distinzione tra umano
tecnologico e animale diventa confusa - tutto si ridetermina, tutto diventa
minaccioso e terribile, anche l’amore. Queste sono le prime considerazioni che
mi sono venute da fare dopo la lettura dell’opera - libro totale, opera mondo -
di Andrea Raos, in cui la hybris, la
sproporzione, è resa anche dal dettato poetico: sovrabbondante, con un‘apertura che va dall'onomatopea passando
per l’anacoluto per volgere, in un movimento del testo esso stesso aereo come
le api, ad acutezze e bellezze tipicamente liriche che danno estrema intensità
al dettato. Un dettato spasmodico doloroso e franto, oggetto esso stesso di una
mutazione.
Il vortice delle api, che rimanda ai
vortici di atomi di epicurea e lucreziana memoria, è il vortice impazzito dell’umanità
alla fine della storia, in cui, in un assurdo equilibrio, pur divorandosi l’un
l’altro, i singoli individui della società, si tengono insieme. Ma per quanto
tempo ancora? Per quale scopo o fine se non quello di espandersi e distruggere
ancora? Le api impazzite, anche nella confusione dei generi espressa nel titolo
stesso, sono il frutto di una manipolazione, di un esperimento genetico e
sociale, sono la conseguenza della logica della natura vista come qualcosa di
sperimentabile e manipolabile, della trasformazione e del consumo di ogni cosa
senza pietà. Sono il risultato di un errore e scoprirsi errore significa
scoprirsi un caso, ciò che sarebbe anche potuto non essere, un niente. Ma di
questo niente bisogna pur parlare (ma che
fatica tenerlo a mente/ tutto questo niente). E se non si è niente bisogna
disperatamente essere qualcosa e per esserlo bisogna assimilare e distruggere
l’altro o l’intero mondo, perché ciò che l’altro è, nutra, riempia la voragine
che ci abita e che ci divora dall’interno (Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente./ Finirà per
niente, per noia, per male, per pena, per fame.). Il tema dell’amore, che è strettamente connesso a
quello della fame attraverso il desiderio e il dolore, è presente sin
dall’inizio del poema; anche lo scienziato, esso stesso artefice e vittima
delle api, ha scritto lettere d’amore,
di un amore evidentemente disperato e violento che non riesce ad opporsi alla
violenza della società (Non è l’amore
individuale/ il contrario della violenza collettiva, non la annulla;/non l’assenza
di violenza/ atto d’amore.). E le api sono
il frutto di questa disperazione, perché non trovando niente che soddisfi
definitivamente quella mancanza che l’amore è, finiscono per rivolgere il pungiglione contro loro
stesse, in ultimo gesto di assimilazione violenta o di disperazione nel
tentativo di ricostruire un eden (C’era
l’amore, ma era con l’amore./ C’era l’amore, ma non era altrove.). Eden cercato dalle due api che si staccano dalle sciame
assassino e cercano di regredire, anche attraverso un viaggio ctonio nella
bocca di un vulcano e con un colloquio con il poeta Lucano, fino a quel
paradiso originario (Stelle
cadenti che cadono,/e cadono,/Non conta niente il come,/conta solo lo starti
accanto.), che risulta però perduto e che si
converte in una spietata naturalità. Di nuovo, non si esce dalla violenza (arnia, arma). E
qui emergono i due modelli, non i soli ma predominanti, di scrittura con cui Raos si confronta e che in parte
rovescia: la favola e l’epica. In cui si manifesta un gioco di specchi tra
l’uomo e le api, in quanto l’uomo nel suo tentativo titanico di antropizzare la
natura si trova a sua volta disantropizzato, fenomeno tra i fenomeni, senza più
una scala gerarchica naturale che lo garantisca. Le api sono, al tempo
stesso, favola crudele o anti favola ed epos del furor sanguinario, che oscilla fino al patetico ( E io rimango, era, nera,/ vana, viva,/ e qui per
te, per come non si chiude questa specie/ per un battito, ma resta./ Ti prego,
resta./Che io sono. E sono te. ), secondo il modello lucaneo, espressamente richiamato
nell’ultima sezione dell’opera. Modello che ha in sé anche una componente
fortemente apocalittica (“Un unico
e soltanto rogo soverchia l’universo: mischierà le ossa,/ e gli astri.”), stemperata
appena da un’ironia raffinata (Il tempo scorre per annunci indistinguibili/ che
accada infine quella cosa, una qualunque cosa,/ vita dopo vita invano attesa/ da
ognuno in propria vita. Mai sciolte, strette bene/ catene, crolli, disfasie:
questo pianeta in cenere,/annuncio impercettibile di chissà che). E, per concludere queste note, se
il primo modello dell’antifavola è valido, in quest’opera, e nella sua non nascosta
attitudine sapienziale, troviamo anche una morale implicita, che si esprime nel
tentativo, che anche la poesia e questo libro sono, di porre un argine, almeno
mostrandola e dicendola, alla hybris; perché il poeta sa, per il suo stesso
mestiere, che chi non conosce il proprio limite, per dirla con Aristotele, deve
temere il destino (…la morte è tragica, ma la vita è oscena…).
Francesco
Filia
2 commenti:
Recensione eccellente a un libro che da tempo voglio leggere - e gli stralci riportati valgono questo desiderio. Grazie.
Davide grazie a te. Il libro di Andrea Raos è davvero, secondo me, una lettura "necessaria" . E spero venga ripubblicato quanto prima.
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