domenica 23 dicembre 2012

Le api migratori - Andrea Raos



«La terra è scossa da vene invisibili/ di materia vuota e di solida/ aria. Massa/ che fibra per fibra. Le sento/ pulsare, che trema, terra mai così solida, mai così ferma/ come quando completamente vibra». Le api migratori (Oèdipus, 2007) siamo noi, non c’è maggior catastrofe e pericolo nella natura dell’uomo (Saremo un solo incubo, uno strazio/ che strega insieme lo stare e l’andare./ Riguarderà l’uomo, /l’amore, l’apertura alare.). Dietro la metafora dello sciame killer, prodotto dall’uomo con un esperimento di laboratorio fuori controllo, c’è il fascino e il terrore che l’umanità prova per se stessa e per la sua hybris e qui sembra risuonare il verso del primo coro dell’Antigone di Sofocle “Di molte specie è l’inquietante, nulla tuttavia/ di più inquietante dell’uomo s’aderge”. E come i bambini che hanno gli incubi e sognano i mostri, che sono nient’altro che la proiezione di angosce interiori, così l’umanità adulta, per rispondere all’angoscia che alberga nel suo intimo, la attribuisce a qualcosa di esterno, di elementare e minaccioso. In questo contesto Le api mi hanno portato ad un altro libro, a quel capolavoro della letteratura horror che è The stand (L’ombra dello scorpione) di Stephen King, in cui da un esperimento in laboratorio è prodotto un virus che stermina la quasi totalità della popolazione mondiale. In questi due libri, e in tanta arte del secondo ‘900 e di inizio secolo, c’è l’intuizione che il progresso tecnologico è ciò che, paradossalmente, permette l’irruzione dell’elementare, dell’inquietante, rimossi dalla civiltà, nella nostra esistenza e nella storia e, grazie a questo ritorno dell’elementare - dove la distinzione tra umano tecnologico e animale diventa confusa - tutto si ridetermina, tutto diventa minaccioso e terribile, anche l’amore. Queste sono le prime considerazioni che mi sono venute da fare dopo la lettura dell’opera - libro totale, opera mondo - di Andrea Raos, in cui la hybris, la sproporzione, è resa anche dal dettato poetico: sovrabbondante,  con un‘apertura che va dall'onomatopea passando per l’anacoluto per volgere, in un movimento del testo esso stesso aereo come le api, ad acutezze e bellezze tipicamente liriche che danno estrema intensità al dettato. Un dettato spasmodico doloroso e franto, oggetto esso stesso di una mutazione.
Il vortice delle api, che rimanda ai vortici di atomi di epicurea e lucreziana memoria, è il vortice impazzito dell’umanità alla fine della storia, in cui, in un assurdo equilibrio, pur divorandosi l’un l’altro, i singoli individui della società, si tengono insieme. Ma per quanto tempo ancora? Per quale scopo o fine se non quello di espandersi e distruggere ancora? Le api impazzite, anche nella confusione dei generi espressa nel titolo stesso, sono il frutto di una manipolazione, di un esperimento genetico e sociale, sono la conseguenza della logica della natura vista come qualcosa di sperimentabile e manipolabile, della trasformazione e del consumo di ogni cosa senza pietà. Sono il risultato di un errore e scoprirsi errore significa scoprirsi un caso, ciò che sarebbe anche potuto non essere, un niente. Ma di questo niente bisogna pur parlare (ma che fatica tenerlo a mente/ tutto questo niente). E se non si è niente bisogna disperatamente essere qualcosa e per esserlo bisogna assimilare e distruggere l’altro o l’intero mondo, perché ciò che l’altro è, nutra, riempia la voragine che ci abita e che ci divora dall’interno (Finirà per fame, per pena, per male, per noia, per niente./ Finirà per niente, per noia, per male, per pena, per fame.). Il tema dell’amore, che è strettamente connesso a quello della fame attraverso il desiderio e il dolore, è presente sin dall’inizio del poema; anche lo scienziato, esso stesso artefice e vittima delle api, ha scritto lettere d’amore, di un amore evidentemente disperato e violento che non riesce ad opporsi alla violenza della società (Non è l’amore individuale/ il contrario della violenza collettiva, non la annulla;/non l’assenza di violenza/ atto d’amore.). E le api sono il frutto di questa disperazione, perché non trovando niente che soddisfi definitivamente quella mancanza che l’amore è, finiscono per rivolgere il pungiglione contro loro stesse, in ultimo gesto di assimilazione violenta o di disperazione nel tentativo di ricostruire un eden (C’era l’amore, ma era con l’amore./ C’era l’amore, ma non era altrove.). Eden cercato dalle due api che si staccano dalle sciame assassino e cercano di regredire, anche attraverso un viaggio ctonio nella bocca di un vulcano e con un colloquio con il poeta Lucano, fino a quel paradiso originario (Stelle cadenti che cadono,/e cadono,/Non conta niente il come,/conta solo lo starti accanto.), che risulta però perduto e che si converte in una spietata naturalità. Di nuovo, non si esce dalla violenza (arnia, arma). E qui emergono i due modelli, non i soli ma predominanti, di scrittura con cui Raos si confronta e che in parte rovescia: la favola e l’epica. In cui si manifesta un gioco di specchi tra l’uomo e le api, in quanto l’uomo nel suo tentativo titanico di antropizzare la natura si trova a sua volta disantropizzato, fenomeno tra i fenomeni, senza più una scala gerarchica naturale che lo garantisca. Le api sono, al tempo stesso, favola crudele o anti favola ed epos del furor sanguinario, che oscilla fino al patetico ( E io rimango, era, nera,/ vana, viva,/ e qui per te, per come non si chiude questa specie/ per un battito, ma resta./ Ti prego, resta./Che io sono. E sono te. ), secondo il modello lucaneo, espressamente richiamato nell’ultima sezione dell’opera. Modello che ha in sé anche una componente fortemente apocalittica (Un unico e soltanto rogo soverchia l’universo: mischierà le ossa,/ e gli astri.”), stemperata appena da un’ironia raffinata (Il tempo scorre per annunci indistinguibili/ che accada infine quella cosa, una qualunque cosa,/ vita dopo vita invano attesa/ da ognuno in propria vita. Mai sciolte, strette bene/ catene, crolli, disfasie: questo pianeta in cenere,/annuncio impercettibile di chissà che). E, per concludere queste note, se il primo modello dell’antifavola è valido, in quest’opera, e nella sua non nascosta attitudine sapienziale, troviamo anche una morale implicita, che si esprime nel tentativo, che anche la poesia e questo libro sono, di porre un argine, almeno mostrandola e dicendola, alla hybris; perché il poeta sa, per il suo stesso mestiere, che chi non conosce il proprio limite, per dirla con Aristotele, deve temere il destino (…la morte è tragica, ma la vita è oscena…).


Francesco Filia

2 commenti:

Davide Castiglione ha detto...

Recensione eccellente a un libro che da tempo voglio leggere - e gli stralci riportati valgono questo desiderio. Grazie.

Filίa ha detto...

Davide grazie a te. Il libro di Andrea Raos è davvero, secondo me, una lettura "necessaria" . E spero venga ripubblicato quanto prima.