La luce bacia il tuo seno pieno,/ offerto per quando aspetteremo/ un frutto
a questo lungo amore,/ per quanto in una sala d’attesa/ starai ferma e in una
strana luce/ dirai che è il momento, che viene/ l’ora di alzarsi, andare,
dividere/la gioia e la pena, farsi altri,/ lasciare che una maschera nuova/ ci
guardi, mentre noi commedianti/ ci stringiamo nell’ultima scena. Il tema della gioia è presente
con discrezione - come conviene a un sentimento limite, che mostra le cose
nella loro originaria gratuità - nella poesia italiana degli ultimi decenni,
basti solo ricordare il “partigiano della gioia” Giorgio Cesarano e il "noi che eravamo per la gioia" del De Angelis di Somiglianze. Forse perché essa rimanda
ad un accordo segreto tra il nostro esser finiti, le nostre aspirazioni e l’ordine
del mondo, accordo che, se mai c’è o c’è stato, si presenta nel lampo
indelebile di un attimo. Inoltre, la presenza della gioia nella poesia, è dovuta
allo statuto inquietante di questo stato, infatti ciò che sgomenta di più
l’uomo e quindi anche il poeta, non è semplicemente il dolore o il dolore
cieco, ma il dolore in rapporto alla possibilità della gioia o alla memoria di
una gioia irrimediabilmente perduta; è questa perdita o possibilità estrema
della gioia, in relazione a una realtà che puntualmente la smentisce, che rende
la condizione umana il luogo del negativo, della disperazione, dell’infelicità,
il luogo in cui i commedianti, privi di
quella gioia che sanno esistere, si
stringono nell’ultima scena.
I versi di La divisione della gioia
di Italo
Testa, Transeuropa, 2010, colgono
quest’inquietudine, infatti, sono al
tempo stesso il luogo di un’epifania, l’attimo della gioia che fa sì che tutto
ciò che si mostra non sia più coperto dalla patina del già visto, e di una
perdita, perché quell’attimo è irripetibile e si mostra solo in una mancanza
incolmabile. Quindi la tonalità emotiva che attraversa le poesie del libro non
può che essere un pacato sgomento e, al tempo stesso, un’accettazione sofferta di
scoprirsi un niente, una fibra del mondo (abbandonarsi,
lasciarsi andare/ tra le erbe matte sul terreno/ essere così, per sempre
accolti,/ confusi in quel brillio indistinto:), macchie nere su di un ponte
tra due sponde sfocate, sentirsi, essere, quel bilico sul baratro del nulla (appoggiarsi alla balaustra/ con tutto il
peso affacciarsi sul mondo/ dall’arcata di un ponte sospeso/ tra due rive, e
dire che sì, è vero,/in quel punto non siamo più niente/ solo macchie nere
nell’aria,/ anche se gli alberi si piegano/ al vento, solo questo, e
nient’altro: ) e di condividere
questo stato di creaturalità attonita con un tu, con il tu, con l’altro, la
persona amata, la deuterantagonista del dramma dell’esistenza (non lasciare, così mi hai detto,/ che io sia
solo mia e mai d’un altro,/ che il tuo volere mi allontani/ da quando un giorno
mi hai promesso:), senza la quale le parole dette e il nostro stesso stare
al mondo non avrebbero alcun senso (eppure
quando ti sei seduta/ nella prima fila e hai visto/che tutto questo non è per
noi, che esser due nella platea vuota/ è un caso, un giro di ruota). Per
essere quel che siamo, dobbiamo poter condividere anche la lontananza che ci
separa da chi ci è vicini, l’ombra che divide in due la stanza che ci ha uniti
alla donna amata e che ci divide da lei ( o
l’ombra che di spalle divora/ il fianco, il vano di luce/ che ti assale e a
morsi ritaglia/ nell’agone della stanza, ritta/ e in attesa, le braccia lungo
il corpo,/ i piedi a contatto del suolo,/ la figura messa di traverso/ a
misurare il grigio e il bianco,/ a fissare il lampo negativo/ che separa la
stanza dal tempo:), che divide la stanza dell’amore dal tempo esterno,
uguale e banale, divide la gioia provata con l’altro in cui noi ci rispecchiamo
in un attimo irripetibile. Dove l’autenticità è data dalla condivisione della
solitudine profonda e strutturale dell’esistere, il silenzio che parla nelle
cose nei luoghi che ci circondano (anche
così si annega l’ansia/ nello specchio marmoreo di un tavolo,/anche quando la
vita si piega/ tra le imposte, sull’impiantito/ verde. O dietro la
ghigliottina/ che separa il tempo dalla stanza:). È come se lo stare al
mondo fosse una richiesta inesausta e inesaudita di un’origine in cui dimorare
(ancora una volta non resta/ che questo
aspettare a mani giunte/ farsi inquadrare senza opporre/ resistenza, disarmati/
andare incontro alla luce che viene,/ci disegna e nega, ci assorbe/ in un
giorno qualunque, ci dona/un luogo, tra le cose immote,/ o un istante da
abitare/ fermi sulla sponda di un balcone,/ di sbieco su una sedia, dormendo,/
pensando, facendo ogni cosa:). Non è un caso, dunque, che la prima sezione
del libro sia ambientata all’alba, in un viaggio attraverso paesaggi naturali e
postindustriali, un viaggio nell’alba delle cose, nel momento dell’inizio, in
cui tutto ha ancora il primo smalto della creazione, per dirla con Pasternak,
in cui tutto è ancora possibile e per questo è ancora più angosciante (ogni cosa dalla macchina in transito/ si
mostra incomprensibile e chiara:/ la pietraia e i banchi di ghiaia,/ la tua
testa assonnata, la mia vita/ guidata
oltre il vetro tra le cose/ abbandonate sulle dune erbose:). E come l’alba
è un tempo soglia, il Delta, che dà il titolo all’ultima sezione del libro, è
un luogo soglia, reale e metaforico, il luogo in cui si incontrano due regioni
dell’essere e dove ogni cosa assume una luce particolare, sospesa, sospesa in
un luogo che è anche una cifra, un rimando a un che di altro, assente ed
enigmatico (verso non so che cielo o
sfondo bianco/ di coste smaltate nella sabbia,/ di acque distanti, gelide e
infeconde,/ (…) e non avremo imparato niente/ su queste rive eterne/ la stessa
onda è nuova/ e l’altra luce non ci sfiora.). L’enigmaticità è amplificata dal suono di fondo di questi
versi, che è caratterizzato da una nota costante e ossessiva, come una canzone
dei Joy Division, al cui nome il titolo del libro si ispira liberamente. In
ultima analisi, le poesie di quest’opera colgono il paradosso tragico della
vita e di tutte le cose, che la gioia, se c’è, è intatta e indivisibile, divisa dalla pena, è una solitudine
perfetta, un lampo negli occhi per chi sa comprendere il silenzio, l'unica
condivisione possibile (e poi saranno gli
altri a contarci, a dire/ che bastava guardarsi/ aver taciuto/ nel momento
esatto, fermi a ripetere/ mentalmente il canto, l’elenco dei vivi:).
Francesco Filia
Francesco Filia
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