domenica 14 ottobre 2012

La neve di Francesco Filia, Fara Editore, 2012


            Con la raccolta poetica La neve, Francesco Filia, ha vinto la sez. B del concorso Faraexcelsior 2012

«Una silloge compatta, costituita da trenta frammenti che compongono un “poema dell’assurdo”. Mi si perdoni la formula d’impatto; mi spiego meglio: la neve a Napoli. Ecco il presupposto (presunto o reale) di chi “attraversa la città” e in essa la storia (del proprio vissuto e della città stessa) con competenza stilistica e capacità “lirica” (nonostante la struttura del testo tenda di frequente verso una “quasi prosa poetica”), proponendo un versificare disteso ma attento al dettaglio: «Intuire quel che non può essere colmato sedersi / affondare la mani nella terra sperare nelle nuvole / che piova, sentire l’odore di zolle bagnate alzarsi/camminare fino alla cresta, vedere il cielo allontanarsi / voltargli le spalle, lasciarsi cadere, sapere / crollare.» (Giuseppe Carracchia)

«A Napoli nevica quasi mai, così, se accade, sembra compiersi un evento, un segno benigno, quella promessa bianca che ha la forma della manna: “Abbiamo confuso la minaccia di neve con / la sempre promessa e mai caduta manna, lo stesso / candore lo stesso deserto ma altro nutrimento altre / rovine, nessuna terra promessa, se non questo / catalogo / di cose da dire di strade di cristalli che si sciolgono / prima di toccar terra per diventare fango, poltiglia. / Ci sorprendemmo a guardarla come un incanto / appena accennato, un disegno appena abbozzato.” (da XXII frammento, Napoli 2007). Eppure, da quel “abbiamo confuso”, appare chiarissimo che l’evento atmosferico non è mai una semplice registrazione di grazia: attraverso trenta “frammenti” l’autore ricrea una genesi profonda e insieme una genealogia (nel senso dei suoi legami ancestrali non solo con le sue origini pure ma anche col rovescio della [loro] medaglia: cerchi sciolti, fanghi e scale di grigi…) della neve in una terra che non la trattiene e che piuttosto si sveglia nel gelo di fanghi e pozzanghere, una realtà che brucia sin dal primo movimento reale appena dopo lo stupore. È un libro di contraddizione e per questo di un fascino misterioso e doloroso, in una ciclicità stagionale che mantiene (solo e soltanto, guardando bene) l’accecamento di un nero fitto. Ogni gesto è il suo contrario come / un mai e un sempre”(XXIII frammento, Napoli 2007): e tutti i mai e tutti i sempre convivono come fanno il bianco e il nero, il desiderio di volgere gli occhi al cielo e la forza di gravità che li spinge sempre a terra.» (Anna Ruotolo)

La neve e la sua caducità. La vita e la sua possibilità di conservarla. Il verso lungo della prosa tengono il passo del mare, del vento, e nulla concedono alle rarità del tempo: le pause. Passaggi e ripetizioni da cui si cerca di sottrarre la differenza capace di trasformare la vita in ricordo. (Sebastiano Adernò)



La neve


Qualcuno ci ha promesso qualcosa?
E allora perché attendiamo?
(Cesare Pavese, Il mestiere di vivere)


(I frammento, Napoli 2007)
… noi siamo già quel che voi
sarete domani.

La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista
se non nella bocca a nord del vulcano
nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia
che ricorda quel che non abbiamo temuto abbastanza
ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa
e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa
fino al midollo. Ce ne accorgiamo dai sorrisi tirati
dei passanti, dai gesti circospetti di chi vive per strada
dalle urla dei ragazzi impresse nell’aria, dal nostro esitare.
E non ci sono di conforto i nostri sogni agitati in piena estate
lo scambiare la notte per il giorno o il ricordo di una madre
il tepore della sua ombra. E se anche qualcuno di noi
si chiede qual è il respiro di queste strade, del loro teso
vibrare, della luce che apre spazio tra palazzi e i nostri
incerti passi affrettati rimarrà come un brusio di fondo
tra risate e un colpo di clacson. Tra misericordia
e cielo non c’è più tempo per esitare. L’assedio
è dentro le case. E’ tra la mano e il buio di stanze abbandonate
e non serve ritrarsi di scatto, anche le mura sapranno chi siamo
scrutando la paura nei nostri occhi e allora potremo solo obbedire
ascoltando il silenzio che si insinua tra il vocio e il magma di piazze
e strade, che invade portoni e giardini a mezzacosta, che copre
frammenti di dialoghi affamati di bocche e cuori e allora, tra vestiti
gettati e l’odore di arance cadute, saremo veri e senza età
come chi dovrà morire sul serio.

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