venerdì 7 ottobre 2011

Fanciulli sulla via maestra






(Ripubblico questa recensione scritta nel 2003 e comparsa per la prima volta sul sito Poiein)




La raccolta di Vincenzo M. Frungillo "Fanciulli sulla via maestra" (Palomar, 2002) fa sorgere una domanda sin dalla copertina, infatti in essa è presente la foto di un ragazzo in primo piano con il viso sporco, come di chi è appena uscito da un'avventura tipica dell'età preadolescenziale, e sullo sfondo una serie di manichini rotti gettati tutt'intorno. Perché questa foto di un solo ragazzo e non di più fanciulli come invece il titolo suggerisce? Forse la risposta a questa domanda potrà essere data solo dopo un’attenta lettura del libro, perché ne rappresenta uno dei nodi centrali.
Il libro è strutturato in due parti, la prima che comprende poesie dal 1994 al 2001, la seconda che è composta testi del 2000 e del 2001 ed è intitolata "Poesie civili per la città spaziale". La prima parte è quella che comprende la maggior parte dei testi ed è articolata a sua volta in 4 sezioni (Fanciulli sulla via maestra, Piccoli riti di Ventotene, Il giorno della nostra defezione ed Epica del bianco).
La caratteristica della maggior parte dei versi di questo libro è che non fuggono dalla pagina, anzi, con la loro cadenza epica, conferita da un dettato del verso prevalentemente lungo e disteso e dall'uso parco dell'enjambement, invitano il lettore a soffermarsi su di essi e a riconoscere lo spazio che intendono aprire. Apertura e riconoscimento sono due termini tra i quali oscillano quasi tutte le poesie di questa raccolta; e l'oscillazione è il modo in cui il movimento si manifesta in questi versi ed implica, a sua volta, una connotazione etica nella misura dell'oscillazione stessa (Riconoscere la misura delle onde…/ quelle del mare…quelle del mare…/ …del vostro oscillare…"Etica del bianco"); il senso della misura, inoltre, può essere dato, in alcune di queste poesie, da un gesto agonico che saggia le possibilità del corpo (Affonda il braccio nella vasca/ per saggiare il tutto pieno/ e il senso della misura. "La bracciata di Daniela").
L'apertura alla quale prima si è accennato può essere intesa come l'apriori dal quale parte la poesia, la sua condizione di possibilità (Ogni granello, ogni grano duro sotto il polpastrello/ è necessario per chiudere il cerchio,/ e noi lo teniamo ancora aperto. "Riverberi") ed è dalla presa di coscienza di ciò che nasce il dramma (noi siamo ciò che non abbiamo scelto! "Tutti i bersagli hanno colpito nel segno") che la poesia tenta di ricomporre (anche attraverso la figura di una donna Tutto questo è ancora da sopportare:/ il suo silenzio come un parto,/ tanta fragilità trattenuta in un solo corpo,/ questo dramma ricomposto. "Acquamorta"), ma dalla presa di coscienza nasce anche la dignità di chi sa che non si può vivere senza accettare la sfida che ogni esistenza è (Noi siamo nell'aria;/ e ogni parola è carezza/ alla serietà di queste mura./ Non importa chi di noi abbia accettato la sfida. "Non importa chi di noi ha accettato la sfida"). Proprio lo sforzo, che chi scrive compie per corrispondere all'apertura in cui ogni esistenza insiste (Che questo collasso non vi rapisca mai del tutto/ questo è ciò che sopporta il mio verso,/ come una cucitura, una molla tesa/ per lo spazio che dilata. "Riverberi"), impone un imperativo etico: il riconoscimento del luogo, anche storico, che ci è consegnato. Tale riconoscimento può avvenire solo attraverso un'opera di orientamento nello spazio, una topografia, che ordini la materia grezza di una vita (…la mia poesia è una passeggiata muta/ sottratta alle offese di questa strada;/ la mia poesia è come una danza;/ ad ogni passo indietro uno che avanza,/ e adesso che è intatta…la conservo come una mappa. "Sanguina l'ennesima fratellanza"). Questa topografia, che diventa a sua volta topologia, ha dei luoghi geografici ben precisi: Napoli ed i suoi quartieri, l'Arenaccia, il teatro delle avventure infantili e dei suoi drammi (Era la pietra netta e dura -buona per la guainella-/ ricavata dalla polvere di cenere/ ammassata nelle parti fonde del quartiere. "Non si sevizia un paperino"); il centro storico, delimitato dalle porte che racchiudevano la città antica, come luogo in cui, forse, finalmente avviene il riconoscimento tra la città e chi la abita (La città ora t'assomiglia,/ s'inscrive nel tuo corpo la collina,/ l'aria trattenuta e poi restituita,/ t'assomiglia questa salita/ e il ritmo di queste mura "La città spaziale"); i Campi Flegrei, non più città e non ancora paese, dove il passato remoto ritorna minaccioso (Che destino amaro/ abitare queste spiagge deserte/ allungate sotto il sole,/ minacciose,), ma anche luogo dove viene scandita la sintassi dell'amore (Lei è orfana degli angoli di pietra rosa/ delle anfore mai dichiarate, lei è orfana dell'anfiteatro Flavio/ che ha colto l'eco del primo bacio,/ di un amore che sperava già consumato. "Acquamorta"; L'occhio ha stretto un patto/ con l'altro occhio e qualcuno/ ne è rimasto escluso./ Tutti, proprio tutti, avrebbero giurato/ che saremmo finiti insieme,/ tutti dicevano che avevamo lo stesso sguardo. "Filiazione"). In questa topografia non manca certo lo spazio del viaggio agli estremi opposti, il nord come dimensione dell'esilio (Cerca l'esilio l'uomo a nord del mondo "In memoria di Joseph Brodsky"; Fitta la ronda del distacco in gocce di piovasco/ sui traffici del nord, "Poesie del distacco"), che però è indice di un esilio ben più ampio, quello del mondo, che ha connotazioni anche psicologiche, l'impossibilità di sperimentare il tragico (Esauriti tutti i dolori superflui/ ci resta solo quello necessario./ Sotto forma di perdono, così esiliato il mondo, sa di distico alleggerito./ "Non importa chi di noi ha accettato la sfida". morire tragicamente!, ripete tra sé e sé,/ poi s'interrompe per sentire il suo battito calare/ (l'ha già fatto altre volte)/ lei, senza eccessivo movimento,/ caccia una gomma dalla borsa e inizia a masticare. "Movimento"); il sud come luogo in cui il paesaggio si cristallizza in forme pre-vitali e il movimento ritorna da dove è venuto, all'inerte, che ha in questo caso il colore del bianco (Al centro/ del nostro sforzo inerme/ con tutto l'arco d'un movimento/ siamo uniti in cromatico ventaglio/ da me a loro da loro a questo bianco; "Chott el-Jerid"); infine il viaggio alla volta dell'isola come luogo di un impossibile Eden (ho disposto tutto, ogni singolo gesto,/ ai piedi del tuo letto/ e tu riapparivi ogni sera/ per cancellare anche me/ l'ultimo oggetto. "Piccoli riti di Ventotene").
E' tra queste coordinate geografiche che si innesta la dimensione epica della poesia di Frungillo, il far parte di un per noi, di una koinè, una delle ennesime che si ripetono ogni volta nel tempo, ma questo ripetersi non gli toglie certo drammaticità (Sanguina l'ennesima fratellanza) perché è sì uguale alle precedenti nella struttura, come anche le parole dei poeti che le hanno cantate (I poeti hanno dato voce ad altri poeti,/ si sono passati le parole di bocca in bocca/ ma lei l'hanno lasciata sola/ su chilometri e chilometri di terra morta; "Acquamorta"), ma diversa perché i nomi cambiano e ci sono altre solitudini da dire, che aprono un destino che non può essere intercambiabile, perché ogni nome chiama in causa proprio te e non un altro. E' per tale ragione che queste poesie esigono un'eticità anche dal lettore, infatti il compito di chi legge non è tentare un impossibile coinvolgimento simpatetico, ma è quello di constatare un distanza tra chi legge, appunto, e le pagine di questo libro, che non ammicca al pubblico, ma salva nomi (Daniela, Sergio, Duccio, Francesco, Massimo, Alfonso, F.P. e suo padre) ed eventi limite (Nella solita vergognosa estate,/ così esposti a questo niente,/ è ora evidente che nessuno può essere innocente. "Ogni perla ha un suo peso"; Sono poche le cose che ancora fanno paura,/ si riconoscono nell'imbarazzo delle menti/ mai disposte al dialogo con le ombre. "Si muore." "Sanguina l'ennesima fratellanza") dal tempo che devasta ogni cosa e che, però, ritorna puntualmente nella memoria di chi scrive, non per consolare, ma per ostentare un'assenza irrimediabile (La verità più spietata/ è che mai niente realmente si consuma/ e che tutto il tempo che m'allontana/ riporta i volti a flotte/ che, con la risacca del bel giorno,/ toccano con sempre maggiore precisione/ il cuore. "L'estate di San Martino"). L'assenza è data dalla mancanza di una memoria capace di riannodare il filo che tiene insieme la vita dell'individuo e dell'epoca a cui quest'ultimo appartiene (La ferita che traccia netta la gamba/ non segna l'angoscia/ ma qualcosa che, seppur nuovo,/ è privo di memoria) e al poeta, quindi, non resta che testimoniare questa condizione (-la mia testa come spia/ di un'assenza che non riposa- "La ferita") e tentare di insediarsi, attraverso un procedimento di sottrazione (Chi pensava per inni e colori forti,/ per slanci e grandi salti,/ si rimisura al richiamo che vien di notte. "Ci hanno scoperti Bianca"), in un’eticità più essenziale, simboleggiata dal colore bianco, sintesi di tutti i colori dell'iride (La solitudine ha un suo colore,/ ed è un bene, saperlo alternare/ in faccia a questo mare. "Etica del bianco"), che ha la dimensione di una solitudine essenziale ma, in quanto autenticamente esperita, salvifica (…"non farlo, Enzo, non farlo/ non puoi abbandonare/ la solitudine di una giovinezza in levare/ per seguire una solitudine ancora maggiore". "Poesie del distacco").Il compito che si propone il poeta è, quindi, quello di dire una parola che possa essere il luogo di una salvezza individuale, di chi scrive, e collettiva, la fratellanza a cui si è appartenuti (Vorrei servire questi corpi/ così simili ai loro nomi/ e sapere che se li chiamo/ con una fibra tesa di dolore/ possano un giorno rispondere:/ siamo a portata della tua voce. "Riverberi") ma ormai dispersa tra le necessità del vivere (La spoliazione della giovinezza/ è una condanna alla vita/ (…) Di cosa gioiranno ora/ nei loro uffici di plexiglas,/ e cosa racconteranno/ a chi siede accanto/ in un posto mediamente pagato/ dalla telefonia mobile di Stato. "Poesie del distacco"). Questo è il compito che tocca al superstite dell'epopea giovanile (colui che non fu avvertito in tempo che la giovinezza sarebbe finita: Sotto la cupola della mano/ si piega lo stelo di un dito./ Hai aderito./ Era solo un gioco,/ nascondersi al mondo,/ ma nessuno ti ha avvertito. "Scherzi di bambini"), che con il viso ancora sporco e le ferite sul corpo testimonia l'attimo in cui tutto è avvenuto e con i suoi versi procura spazio alla materia, lenisce le ferite con la garza delle parole che sono, le parole, la speranza di un grembo, dove possa distendersi il piano piatto di questo mondo. O, per richiamare ancora il ragazzo in copertina, la speranza che l'angelo della storia volga il suo sguardo su questa frazione di tempo irrimediabilmente già passata.

Francesco Filia

sabato 1 ottobre 2011

Novembre





Leggo con ritardo il poema di Domenico Cipriano, Novembre – Transeuropa (2010), opera ispirata dal terremoto che sconvolse l’Irpinia e altre zone del sud Italia il 23 novembre del 1980. Questi appunti non vogliono essere una recensione, già altri prima di me hanno recensito egregiamente questo libro e poi sarei fuori tempo massimo visto che la pubblicazione è avvenuta un anno fa, ma le mie vogliono essere le annotazioni di suggestioni che le poesie hanno suscitato in me, anch’io bambino, come l’autore, all’epoca del sisma che si avvertì potentemente anche nella città di Napoli dove vivo.
Dirò subito che questo è un libro che molti di noi “attendevano”, un libro che restituisse il senso di quell’evento a noi che lo subimmo da bambini. E proprio la cifra dell’infanzia mi sembra la chiave d’accesso privilegiata a questi testi. Il terremoto del novembre del 1980 - oltre a essere stato l’evento che ha sconvolto intere popolazioni del sud lasciando su di loro ferite ancora aperte e da questo punto di vista l’opera di Cipriano è epica perché “dice” il sentire di un popolo - è stato per un’intera generazione, che all’epoca era bambina o appena adolescente, un evento paradigmatico, uno spartiacque assoluto tra un prima di tranquilla bambagia familiare e un dopo che non sarebbe stato più lo stesso “stasera ceniamo con la morte, così ogni notte/ ci riuniamo e guardiamo le pietre ancora scosse/ la terra senza volto arresa”. Un evento mitico, dunque, nel senso antico del termine, al tempo stesso “cosa” e “parola” di cui continuare a narrare in maniera ossessiva e rituale (i numeri delle date, delle ore, dei minuti, di cui parla l’autore nella nota), liturgia che ci mantiene in rapporto appunto con il mito fondativo di un’intera generazione e con coloro che ne sono stati sommersi dalle macerie “..altrove erano i corpi senza vita”. E qui sta il paradosso, ciò che ha caratterizzato, fondato per sempre una generazione di campani e lucani è una catastrofe, un evento in cui la terra non fonda, non nutre, non è madre, ma distrugge e uccide con forza matrigna, inghiotte ogni cosa in una voragine abissale; come dice in maniera mirabile il nostro autore nel primo frammento di cui nel dettato si sente, anche attraverso le allitterazioni, il ritmo percussivo “…è fuoco/ la terra del dopo risucchia di poco le crepe: la terra che trema/ riempie memoria. Ti stana, si affrange, ti strema, è padrona.” La terra qui si manifesta come un mostro ctonio che in un corpo a corpo con gli uomini stessi e i suoi manufatti li abbatte, li devasta “..si mostra così la forza/ della terra attaccando i progetti realizzati/ rendendo instabili i traguardi idealizzati”. E del bambino che ha vissuto quell’evento ( qualcuno mi diceva di dormire, ora che/ nel lampo dei miei 10 (dieci) anni affrontavo/ le paure.) è la meraviglia nel senso dell’etimologia greca, thaumázein, lo sgomento che nasce dallo thaûma, dal colpo degli elementi che si manifestano nella loro originarietà terrificante. Di quello sgomento originario Cipriano conserva lo sguardo “solo i bambini riconoscono i gesti degli affetti/ il gioco nel vivere insieme in un non-luogo.”, sguardo indagatore e attonito che si fa parola e illumina con luce vera e spietata anche i gesti del dopo, gesti a volte eroici, a volte quotidiani e compassionevoli, altre volte meschini e criminali ma comunque indelebili nella memoria di chi è rimasto e nelle pietre dei paesi devastati, dei paesi ricostruiti e traditi “sciacalli sui resti delle case, tra i morti/ e le pietre, ma nel freddo si nutrono/ aiuti improvvisati, attrezzati con la forza/ della stessa notte”.
Infine la parola non serve solo a ricordare -attraverso una memoria offesa e affaticata dal dolore che spezza il dettato (si vedano i frequenti enjambement) pur controllatissimo, per mostrarne tutta la straziante veridicità – perché la visione originaria che scaturisce dall’evento del terremoto e dà forza alla parola, fa sì che le cose non siano più quelle che sembravano essere prima, ma siano liberate dal peso del passato, da ciò che pur rimanendo incancellabile deve essere visto nella luce di un futuro, di una vita che su fondamenta diverse e più labili deve continuare ad abitare la stessa terra “la morte ha soggiornato per anni/ ora le nostre case hanno bisogno/ di respiri, abbandonate come sono/ al silenzio. Abbiamo traslocato/ i nostri corpi e lasciato solo/ le crepe nude delle rughe/ a vegliare sulla piazza”.

Francesco Filia

giovedì 8 settembre 2011

Presentazione di La fisica delle cose a Milano

Lucrezio riscritto
Martedì 13 settembre 2011, alle ore 21
presso la Libreria Popolare (via Tadino 18, Milano)

Presentazione di:

La fisica delle cose. Dieci riscritture da Lucrezio

a cura di Giancarlo Alfano

con testi di Andrea Inglese, Letizia Leone, Laura Pugno, Giulio Marzaioli, Vincenzo Frungillo, Andrea Raos, Vito M. Bonito, Sara Davidovics

Giulio Perrone Editore (2011)

Partecipano alla serata: Giancarlo Alfano, Andrea Inglese, Vincenzo Frungillo, Italo Testa

venerdì 19 agosto 2011

Per Giuliano Mesa, scomparso il 16 agosto scorso

è come se andarsene non fosse che questo,
questo restare e fare ancora un gesto
(è come se dirlo fosse soltanto vero,
e non più vero, ancora, del non dirlo)

e poi quello che manca mancherà
e ciò che è è ciò che ormai è stato
(e parlane, mio amore, dinne ancora,
fa che sia vero ancora)

(pensa ad un giorno, pensando ancora
a chiudermi gli occhi, finché c’è luce,
a premere ancora, sulla tempia, il nervo che pulsa)

(pensa che vuoi pensare,
fino a quel buio,
fino alla luce, infine, che scompare)


8 -v3

ed è quest'ombra
sul tuo volto,
questa piega-

un segno che ti segna
come se fossi tu

(sei tu,
l'ombra di te
che sai di essere-

il tuo sapere il mai
che mai sarà)


da Quattro quaderni, Giuliano Mesa, edizioni Zona, 2000

giovedì 4 agosto 2011

Gli anni sottratti



“Racconta , con parole tue, gli eventi
Più significativi della tua vita”. Questo
È il tema da svolgere, tra il dolore
Di un’erezione e una macchia d’inchiostro
Sul maglione. “Luoghi comuni e banalità”.
Questo è stato il responso. Solo ora, però,
Sono stato sognato dai miei ricordi.

martedì 5 luglio 2011

Poesie della fame e della sete


Il rullo dello stomaco
gira a vuoto la tua assenza.
C’è un piatto nel lavello da lavare
la poca pasta del giorno prima
il sugo è una crosta buona
sul fondo del tegame.

Se prendi fiato ora
puoi sentirmi entrare
come una folata grossa
un tuorlo d’aria
che dal cielo si stacca
e a raccoglierlo
silenzioso è un fiore.







Il ciuffo che siamo
d’erba agli angoli
inerpicata
il vento indietro inviato
dai passi.

Venisse ora
la torsione di un braccio
un tocco, un riparo,
l’impugnatura
sicura d’una mano.










Alla Compagnia

Io non so
e a malapena vedo
tu mi stai a cerotto sul palmo
della mano screpolata dal vento.

Se vai giù, ancor più a fondo,
vedi che avevo sbucciati
pure i gomiti e le ginocchia.

Si cade, io so,
perché qualcuno ci prenda
ci porti a spalla e ci infili
nel sole la testa
che affetti la luna
ma senza ferirla
dolcemente, ridendo.












a R.




Non mi bastano le spighe
svettanti d’agosto
neppure il miele
colato dagli occhi
di un bimbo, mi salva.

Posso solo affidarmi al niente
al tutto di un volto
che piange il mio nome.





(da Quattro giovin/astri, Kolibris, Bologna 2010)








Francesco Iannone (1985) è nato a Salerno, dove vive. Laureato in Scienze dei beni culturali, è nella redazione di Unisound: la web radio dell’Università di Salerno DABAZ (da Bellavista a Zivago), dedicato alla poesia. Ha vinto la sezione “Giovani” dell’ottava edizione del premio poesia “Sant’Anastasia”.Suoi testi sono inclusi nell’antologia Al di là del labirinto, a cura di Antonio Spagnuolo, L’arca felice e in Quattro giovin/astri, Kolibris, Bologna 2010 a cura di Chiara De Luca. Ha pubblicato la raccolta poetica Poesie della fame e della sete, Ladolfi Editore, 2011.