L'insurrezione erotica
(Autocritica della corporeità metaforica)
da Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974
Giorgio Cesarano
A chi si lascia spegnere non resta che il suo piagnucolare. Io, io, io. “... Il solo fatto che noi seguitiamo a proclamare... io, tu... con le nostre bocche screanzate... con la nostra avarizia di stitici predestinati alla putrescenza... io, tu... questo solo fatto... io, tu... denuncia la bassezza della comune dialettica... e ne certifica della nostra impotenza a predicar nulla di nulla,... dacché ignoriamo... il soggetto di ogni proposizione possibile...” (C.E. Gadda, op. cit., p. 124) Il cazzo piccolo, la fica frigida, il pene-clitoride, la famiglia assassina, gli amici bastardi: fosse andata altrimenti, si fosse potuto avere! E potessero riuscire a parlarsi: come vedrebbe quanto nessuno ha, come si è tutti identici nella deprivazione e nella “sventura”, come a ciascuno accade lo stesso mortificante gioco di tarocchi truccati, grazie al quale non uno riesce più a scorgere ciò che realmente vive, o potrebbe vivere non appena sorreggessero passione incarnata, desiderio concreto, volontà di realizzarsi. Contempla invece affamato le illustrazioni dello splendido Altro, immensamente profuso di tutto ciò che gli manca. A questo almeno, ed è molto, gli amanti sanno brevemente scampare. Essi si guardano, dunque sanno vedersi. Si desiderano, dunque si riconoscono. Si deludono, dunque sanno che cosa cercano. Si odiano, dunque sanno di non bastarsi.
Il capitale ha creduto di liquidare facilmente la resistenza millenaria dei contenuti radicali manifesti nella sacralità delle situazioni topiche. Non ha potuto che saccheggiarne l’iconografia. Sorprendentemente, neppure questo gli è riuscito senza danno. Schiacciata sotto i rulli delle macchine da stampa, l’immagine dell’uomo futuro, racchiusa nella corporeità di ogni essere, è sempre capace di resuscitarsi. In un brivido, per un istante, come per equivoco, in un colpo d’occhio distratto, a tradimento, tra una trivialità e uno sbadiglio, tra l’una e l’altra parola del vuoto, un occhio improvvisamente ti fissa, un seno respira, una mano pulsa, un ventre trasale. Un secondo sguardo non troverà che la patina della carta, la lattescenza dello schermo; uno slogan si precipiterà a suturare la fêlure minima aperta nella corteccia del cinismo d’obbligo. Non è accaduto niente, e il lutto si rassicura: sei morto come sempre, in uno sterminato campionario di illustrazioni ferali. Ma non è mai vero del tutto, e lo è sempre meno. È tempo di invertire la prospettiva, di saper vedere l’estrema fragilità della catalessi imposta dal capitale. È tempo di capire che l’ineroe nihilista, questo egotista dell’autodistruzione e dell’annientamento, ha i nervi a pezzi, e che persiste con crescente difficoltà. Nessun ottimismo è lecito sulla facilità dell’impresa, ma è tempo di non lasciare accidiosamente ingrassarsi il verme del pessimismo.
Se due “persone” non possono mai veramente congiungersi, ma soltanto vieppiù separarsi, è dunque vero un altro proverbio della “realpolitik”, secondo il quale l’estasi dell’uno comprende necessariamente la disillusione dell’altro? Si tratta ancora una volta della consumazione di un sacrificio? Da quando la schizofrenia è una condizione del sociale, ciascuno si guarda vivere sentendosi morire. Innanzitutto, chi è il soggetto reale: l’io che guarda? L’io che “agisce”? Alla soglia dell’estasi, uno dei due deve morire. È questo, il sacrificio necessario. Ogni sortita dal sé, è un’uccisione di sé.
mercoledì 8 dicembre 2010
martedì 23 novembre 2010
23 Novembre 1980

Abbiamo visto il palmo delle mani sporco di ruggine
dopo aver percorso le scale a due a due
aggrappandoci alla ringhiera quasi divelta saltando
gli scalini spaccati. Dopo nelle piazze e nei parcheggi
abbiamo sentito il gelo riempire il vuoto e il silenzio
il mormorio di coperte avvolte sulle spalle
dei falò sulle scalinate di chiese e fontane.
Non avevamo capito che il terremoto era appena
iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore
di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato
di lavori in corso e doppi turni. Checco o’ cecov
mi chiamavamo alle elementari, per gli occhiali,
alcuni scherzavano altri picchiavano, io
mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle.
Ci prendevamo a mazzate all’uscita della scuola
rubavamo qualcosa nei negozi evitando i calci
in culo e i chitemmuort, tornavamo urlando
o tacendo mentre nei vicoli teste affioravano
dai muretti di contenimento, come alieni, armati
di lacci emostatici e siringhe. Altri sparavano
qualcuno moriva qualcuno si arricchiva.
Abbiamo imparato di nuovo a contare da zero
ad avere un nuovo prima e dopo come fosse
un’altra nascita di cristo come lo era stato prima
il colera o la guerra, per chi se la ricordava. Ma
da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella
domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente.
dopo aver percorso le scale a due a due
aggrappandoci alla ringhiera quasi divelta saltando
gli scalini spaccati. Dopo nelle piazze e nei parcheggi
abbiamo sentito il gelo riempire il vuoto e il silenzio
il mormorio di coperte avvolte sulle spalle
dei falò sulle scalinate di chiese e fontane.
Non avevamo capito che il terremoto era appena
iniziato, che avremmo dovuto aggirarci in un fragore
di tubi Innocenti e siringhe di cemento armato
di lavori in corso e doppi turni. Checco o’ cecov
mi chiamavamo alle elementari, per gli occhiali,
alcuni scherzavano altri picchiavano, io
mi difendevo a denti e graffi a calci nelle palle.
Ci prendevamo a mazzate all’uscita della scuola
rubavamo qualcosa nei negozi evitando i calci
in culo e i chitemmuort, tornavamo urlando
o tacendo mentre nei vicoli teste affioravano
dai muretti di contenimento, come alieni, armati
di lacci emostatici e siringhe. Altri sparavano
qualcuno moriva qualcuno si arricchiva.
Abbiamo imparato di nuovo a contare da zero
ad avere un nuovo prima e dopo come fosse
un’altra nascita di cristo come lo era stato prima
il colera o la guerra, per chi se la ricordava. Ma
da allora, veramente, dalle sette e trentaquattro di quella
domenica sera, lo giuro, io, non ci ho capito più niente.
lunedì 8 novembre 2010

La divisione della gioia
di Italo Testa
In un’atmosfera conturbante, sospesa tra le note dissonanti dei Joy Division e la metafisica silenziosa dei quadri di Hopper, questa raccolta si sviluppa come un poema d’amore di lacerante intensità, in cui voci maschili e femminili si richiamano, si scontrano, si cancellano, si confondono.
Un dialogo incessante, in cui si alternano tenerezza e abbandono, rapimento e paura della perdita, e che si dirama come il delta del fiume su cui i personaggi si muovono, si lasciano, si ritrovano, tra sfondi naturali e paesaggi post-industriali che ricordano il Deserto rosso di Antonioni.
Dialogo teatrale o romanzo in versi? A qualunque luogo appartenga, questo libro batte e ribatte senza sosta, con un ritmo fermo e implacabile, la materia dei giorni, la storia di uno e l’ansia di tutti, il canto che silenziosamente accompagna la divisione del dolore e della gioia.
estratti dal testo
da: Cantieri (sezione I)
romea, mattina
qui ho appreso la luce sciolta sugli scafi al mattino
il bordo incandescente e l'anima buia dei rami,
qui ho imparato a dissipare gli occhi, la bocca, il fiato,
a calarmi all'alba dentro a un vestito di brina,
qui ho vegliato sui fossi le canne inanimate nel bianco
la frontalità ignara di pioppi eretti come ceri,
qui ho imparato a distinguere nel manto uniforme del giorno
l'intonaco di case insaponate nella nebbia,
qui ho perduto nell'acqua il tuo pegno raschiato dal cuore
e in un pomeriggio ignaro ho confuso i corpi e i volti,
qui ho consumato gli occhi sul volto lucente del mondo,
qui sull'argine alto mi sono inumato nel freddo.
(da: Cantieri)
*****************
Da: La divisione della gioia (sezione II)
Un luogo qualunque
…o nella luce artificiale
di un neon credere che la notte
non sia notte, il verde non scintilli
immune da ogni nostro sguardo,
le merci esposte nel silenzio
di una vetrina siano lo sfondo
del nostro tranquillo sovrastare,
del dominio saldo della specie:
e quando nelle insegne luminose
che ritmano i grani dell’asfalto
hai visto il segno certo, il richiamo
ribattuto da ogni nostro passo,
o in una vetrina, controluce
hai scorto sul ripiano le pose,
le ossa spigolose del suo corpo
segnarti senza più un riparo,
come il giorno che stesa sul letto
ti sei girata, tranquilla, e hai visto
le grate che spartivano il vetro,
e alzandoti di scatto hai detto
che non sarebbe successo niente,
che tutto era ancora intatto
e mentre ti guardavo in silenzio
sei sparita nell’angolo cieco:
allora ho visto che nulla torna,
che la fragilità ci insidia
dall’interno, dentro le giunture,
s’insinua nelle vene, riveste
la piega opaca dei discorsi,
allora, chiamandoti in disparte
a fianco del letto avrei atteso,
la pelle a toccare il marmo freddo,
che tutto fosse tornato a posto,
il braccio nascosto tra le gambe,
la luce sulle mie cosce nude,
la mano a coprirti il pube:»
*****************
da: Delta (sezione III)
lo stacco
saltavo, ancora
inarcavo la schiena
d’un soffio mi levavo
sull’asta tesa
rovesciando la testa
nella luce affondavo
fermo a mezz’aria
con un colpo di ciglia
recidevo i contorni
la pista, i blocchi
dallo sfondo acceso
riversato sugli occhi
nell’aria tersa
eri ferma, tra tanti
sulla terra battuta
le tue cosce lucenti
e tornite dal sole
nel mattino di vita
che il mondo ci offriva
tu mi guardavi scendere
cadere sul tappeto
riaprire gli occhi
volgerli in alto, al cielo
senza vedere niente
per un momento
poi, a poco a poco i tigli
gli spalti in penombra
i tuoi fermagli
brillanti nei capelli
gli altri alle tue spalle
così lontani
dove eravate stati
in quell’istante cieco
dopo lo stacco
e la torsione in volo
dove sarete quando
cadrò senza arrestarmi
sul telo verde
dove mi attenderai
con il tuo sguardo aperto
saprai aspettarmi?
Note sintetiche al volume
* Pagine 88
* Prezzo 9.50
* Isbn 9788875801052
* Collana Collana Nuova poetica
* Collocazione Poesia
http://www.transeuropaedizioni.it/?Page=volume.php&id_collana=22
Italo Testa
Italo Testa è poeta, saggista e traduttore. Ha pubblicato la silloge Luce d’ailanto (in Decimo quaderno di poesia italiana, Marcos y Marcos, 2010), l’e-book Non ero io (gammm.org, 2010), il concept canti ostili (Lietocolle, 2007), la raccolta Biometrie (Manni, 2005) e il poemetto Gli aspri inganni (Lietocolle, 2004).
Sue poesie sono state tradotte in inglese, spagnolo e tedesco. Autore di saggi sul pensiero contemporaneo, è co-direttore della rivista di poesia, arti e scritture «L’Ulisse».
venerdì 5 novembre 2010
Nell’esattezza di una meraviglia

"Se il sentiero tra vegetazione e desideri ti porta/ dove non sai, nominare/ non riesci la pianta della luce di lei// o se il filo dall’abito da sposa/ rinvieni sul lago del sagrato per caso o meraviglia/ senza biancore di freddo/ (piove lo stesso la neve nell’anima...". La poesia di Raffaele Piazza è attraversata da una tensione erotica inesauribile, che assume le forme di un verso lirico, liquido e sensuale, ma di una sensualità controllata nel dettato e che si trasfigura in immagini d’amore e stupore, precise e, al tempo stesso, delicate come un fiore appena sbocciato o come le altre vite vegetali presenti in molti dei versi del poeta, emblemi di quella meraviglia che da sempre accompagna lo stare al mondo dell’uomo.
Del Sognato - l’ultimo libro di Piazza, edizioni La vita felice, 2009, con nota critica di Gabriela Fantato - porta al suo nucleo originario la fonte d’ispirazione che da anni contraddistingue i testi dell’autore e, questo nucleo, è rappresentato dal desiderio, che è la sorgente e la materia dei sogni, il sognato per l’appunto. La poesia dà parola a quanto di più profondo e inconscio c’è nel cuore di ogni uomo e sotto questo aspetto la poesia di Piazza appare nella sua unicità e bellezza perché attinge al sacro, presente come apertura originaria in ognuno di noi, basandosi su una vocazione squisitamente lirica, nella sua accezione più pura e alta.
Il libro è diviso in due sezioni, la prima Mediterranea, che, come si evince dal titolo, è pervasa da un lucore meridiano e solare, dove, come sottolinea la Fantato nella sua nota critica, “ è ancora possibile cercare e talvolta, forse, incontrare nei testi di questo poeta l’espressione della gioia “semplice” del corpo esposto al sole, alla bellezza del paesaggio”, ma che in controluce fa emergere una malinconia lunare, quasi che anche la dimora mediterranea fosse vissuta come un esilio, come appare evidente dalla bellissima Messaggio dall’esilio (Tornano, giocano con parole di abete/ e rondini gli amici: distanze abbreviate/ di treno se ti aveva portata e non il tuo/ pensiero nell’intessersi il ritmo/ del Mediterraneo a voci fuori campo:/ vita ritrovata in esili stelle in lune/ aranciate senza profeti sull’ordine/ dei tuoi petali disposti ad angolo dell’anima a fare scudo all’avvicinarsi/ di atomi di giorni su questa carta...).
L’altra sezione è quella che dà il titolo all’opera e qui sembra che il lettore, seguendo la parola del poeta, si possa abbandonare definitivamente al naufragio delle sensazioni, quasi come un Odisseo il cui destino è, però, nell’eterno presente della contemporaneità, quello di perdersi in un oceano di camere e pareti, di Internet, molto presente e grande intuizione di queste poesie, e dell’inconscio che ci parla per apparizioni, miraggi, enigmi, ninfe e fate, queste ultime riassunte dal nome di Alessia (Ora dietro al nido delle/ ore dorme/ nell’esattezza di una meraviglia/ Alessia...), quasi una novella Calipso o sirena che avvince a sé l’io lirico del poeta e, con la malia di parole sussurrate e di gesti accennati, appare e scompare dal mare immateriale della rete. In questo viaggio in un mare invisibile l’unica possibile Itaca per il poeta, come mostrano la prima e l’ultima poesia del libro, è il tavolo da lavoro, da cui si parte scrivendo e a cui si ritorna sempre, dimora che ci attende ma anche luogo dei nostri fantasmi da combattere e nominare, "Aprile in verde esce di scena ci lascia/ il tavolo di lavoro con le copie dell’anima/ una mela addentata a dare una gioia rimasta/ nel trasmigrare dei pensieri".
Del Sognato - l’ultimo libro di Piazza, edizioni La vita felice, 2009, con nota critica di Gabriela Fantato - porta al suo nucleo originario la fonte d’ispirazione che da anni contraddistingue i testi dell’autore e, questo nucleo, è rappresentato dal desiderio, che è la sorgente e la materia dei sogni, il sognato per l’appunto. La poesia dà parola a quanto di più profondo e inconscio c’è nel cuore di ogni uomo e sotto questo aspetto la poesia di Piazza appare nella sua unicità e bellezza perché attinge al sacro, presente come apertura originaria in ognuno di noi, basandosi su una vocazione squisitamente lirica, nella sua accezione più pura e alta.
Il libro è diviso in due sezioni, la prima Mediterranea, che, come si evince dal titolo, è pervasa da un lucore meridiano e solare, dove, come sottolinea la Fantato nella sua nota critica, “ è ancora possibile cercare e talvolta, forse, incontrare nei testi di questo poeta l’espressione della gioia “semplice” del corpo esposto al sole, alla bellezza del paesaggio”, ma che in controluce fa emergere una malinconia lunare, quasi che anche la dimora mediterranea fosse vissuta come un esilio, come appare evidente dalla bellissima Messaggio dall’esilio (Tornano, giocano con parole di abete/ e rondini gli amici: distanze abbreviate/ di treno se ti aveva portata e non il tuo/ pensiero nell’intessersi il ritmo/ del Mediterraneo a voci fuori campo:/ vita ritrovata in esili stelle in lune/ aranciate senza profeti sull’ordine/ dei tuoi petali disposti ad angolo dell’anima a fare scudo all’avvicinarsi/ di atomi di giorni su questa carta...).
L’altra sezione è quella che dà il titolo all’opera e qui sembra che il lettore, seguendo la parola del poeta, si possa abbandonare definitivamente al naufragio delle sensazioni, quasi come un Odisseo il cui destino è, però, nell’eterno presente della contemporaneità, quello di perdersi in un oceano di camere e pareti, di Internet, molto presente e grande intuizione di queste poesie, e dell’inconscio che ci parla per apparizioni, miraggi, enigmi, ninfe e fate, queste ultime riassunte dal nome di Alessia (Ora dietro al nido delle/ ore dorme/ nell’esattezza di una meraviglia/ Alessia...), quasi una novella Calipso o sirena che avvince a sé l’io lirico del poeta e, con la malia di parole sussurrate e di gesti accennati, appare e scompare dal mare immateriale della rete. In questo viaggio in un mare invisibile l’unica possibile Itaca per il poeta, come mostrano la prima e l’ultima poesia del libro, è il tavolo da lavoro, da cui si parte scrivendo e a cui si ritorna sempre, dimora che ci attende ma anche luogo dei nostri fantasmi da combattere e nominare, "Aprile in verde esce di scena ci lascia/ il tavolo di lavoro con le copie dell’anima/ una mela addentata a dare una gioia rimasta/ nel trasmigrare dei pensieri".
Francesco Filia
sabato 23 ottobre 2010
Parole in circuito

Fresca di stampa la nuova Antologia dell’Editrice Fermenti di Roma, dal titolo “Parole in circuito” (sottotitolo “Fatti non parole”).
Si tratta di un volume antologico che raccoglie le voci poetiche di dieci noti poeti, appartenenti a diverse generazioni: Domenico Cipriano, Stelvio Di Spigno, Francesco Filia, Antonio Fiori, Lucetta Frisa, Anton Pasterius, Raffaele Piazza, Raffaele Urraro, Giuseppe Vetromile e Giuseppe Vigilante.
Gli autori che in questa sede sono stati selezionati – precisa Raffaele Piazza, curatore dell’antologia, – presentano poetiche tra loro molto eterogenee. Ci troviamo infatti di fronte ad un campione di significativi versificatori che, sviluppando vari discorsi, avendo stili completamente diversi l’uno dall’altro, raggiungono tutti esiti alti.
Ciascun autore è introdotto con una breve ma approfondita analisi della sua poetica e, oltre a un’ampia selezione di testi, è presente una esauriente nota bio–bibliografica che aiuta a meglio individuare il percorso di ogni autore.
E’ senz’altro un volume che offre ampi spunti di riflessione sui alcuni interessanti percorsi poetici attuali, bene indicati nell’ottima introduzione del curatore, il poeta Raffaele Piazza.
"Parole in circuito" (Fatti non parole), Antologia Nuovi Fermenti nr. 4, Fermenti Editrice, Roma, 2010. Pagg. 150, Euro 18.00
Si tratta di un volume antologico che raccoglie le voci poetiche di dieci noti poeti, appartenenti a diverse generazioni: Domenico Cipriano, Stelvio Di Spigno, Francesco Filia, Antonio Fiori, Lucetta Frisa, Anton Pasterius, Raffaele Piazza, Raffaele Urraro, Giuseppe Vetromile e Giuseppe Vigilante.
Gli autori che in questa sede sono stati selezionati – precisa Raffaele Piazza, curatore dell’antologia, – presentano poetiche tra loro molto eterogenee. Ci troviamo infatti di fronte ad un campione di significativi versificatori che, sviluppando vari discorsi, avendo stili completamente diversi l’uno dall’altro, raggiungono tutti esiti alti.
Ciascun autore è introdotto con una breve ma approfondita analisi della sua poetica e, oltre a un’ampia selezione di testi, è presente una esauriente nota bio–bibliografica che aiuta a meglio individuare il percorso di ogni autore.
E’ senz’altro un volume che offre ampi spunti di riflessione sui alcuni interessanti percorsi poetici attuali, bene indicati nell’ottima introduzione del curatore, il poeta Raffaele Piazza.
"Parole in circuito" (Fatti non parole), Antologia Nuovi Fermenti nr. 4, Fermenti Editrice, Roma, 2010. Pagg. 150, Euro 18.00
mercoledì 22 settembre 2010
Il tradimento di chi è felice

“Se davvero esisti, se non sei/ una stupida chimera, o un’allucinazione della notte,/ scendi, mostrati, svelaci il tuo segreto!” Leggendo Stazioni (Nuova Editrice Magenta, 2010), l’ultimo libro del poeta, saggista e traduttore Giancarlo Pontiggia, la condizione che mi è parsa subito predominante è quella dell’attesa - non a caso il libro è stato scritto negli ultimi mesi del 1999, alla vigilia del nuovo millennio - di un’attesa di qualcosa al tempo stesso imminente e impossibile. In questo testo, scritto per il teatro, sono rappresentati personaggi colti in uno stato di sospensione, di indefinitezza, ma comunque di preparazione, di tensione verso qualcosa che non si conosce, o forse che si conosce fin troppo bene, come traspare dalla quasi totalità dei frammenti di quest’opera, ossia il nulla, la morte, personificata in alcuni dei dialoghi e presenza incombente o sotterranea in tutti gli altri.
Pur essendoci sullo sfondo questa dimensione angosciosa, non emerge predominante, nelle figure tratteggiate dall’autore, la disperazione, che sicuramente c’è o c’è stata, ma si è trasformata in rassegnazione, ironia, “bizzarri umori”, antica sapienza e questa sedimentazione dà a tutta l‘opera un tono uniforme, allucinato, ma al tempo stesso domestico, intimo, come di una verità - anche quella della fine di ogni verità, al di là di ogni paradosso scettico - che non va urlata ma sussurrata, magari sotto un cielo grigio e uggioso. Ed è forse quest’ultimo aspetto il fascino maggiore del libro, nonostante passaggi bellissimi, definitivi e sapienziali, che fanno impennare il tono complessivo del discorso ( “si è soli... soli... nell’abisso del Tempo...”).
L’opera - ambientata a Milano, città che ha il ruolo di una vera e propria protagonista, motore immobile di tutti i dialoghi - è stata concepita dall’autore come composta da scene teatrali che si susseguono o su un palco ruotante o intervallate da spazi e suoni di demarcazione. Queste scene sono le stazioni del titolo e, come sottolinea lo stesso Pontiggia nella seconda di copertina, il “riferimento è alle stazioni della via Crucis, ma anche al significato etimologico del vocabolo: luoghi dove si sta spesso per caso, dove si è condannati a stare, e dunque anche gironi purgatoriali”. Ed è proprio la dimensione purgatoriale, più vicina alla condizione dell’uomo su questa terra, che rende veritieri anche i dialoghi apparentemente più violenti e “assurdi”. In fondo, nella vita non c’è né la disperazione definitiva dell’inferno, né la beatitudine dell’essere presso dio, ma uno stato intermedio - intermedio come il genere scelto, tra il dialogico e la rappresentazione scenica - tra la speranza, fosse anche solo quella legata al passaggio dell’autobus Novantaquattro, di una felicità irraggiungibile e la rassegnazione a una vita grigia, “avvilente” e anonima. E, in questo stato, quei pochi che osano dichiararsi felici, come Ottavio, il barbone della prima stazione, sono dei traditori perché rinnegano la condizione comune a tutti gli uomini: l’infelicità. Anzi se sono felici ne devono sentire tutta l’illusorietà, la colpa e lo scandalo. La felicità non è per gli uomini, semmai è un dono divino, che però l’uomo contemporaneo e metropolitano, non può che sentire come un’attesa sempre più remota e impossibile. In questo libro, se c’è consolazione, è nella parola stessa (poetica o quotidiana e triviale), anche la più crudele, ma in quanto crudele è sentita da chi scrive e da chi legge come veritiera e portatrice di un’etica autentica e dolorosa, che non rinuncia a un umorismo feroce, di chi sa che gli autori che hanno messo su quella recita senza repliche che è la vita, se ci sono, “sono alla frutta. Non hanno più idee, più niente da dire, e ci piantano qui, nella merda”.
Francesco Filia
sabato 18 settembre 2010
Chi è il carnefice
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