Daniele Ventre - poeta, traduttore e critico - nel suo libro d’esordio E
fragile è lo stallo in riva al tempo - Edizioni D’if 2012; vincitore della VI edizione de I Misiotìs - Premio Russo Mazzacurati - esprime
già nel titolo l’aspetto centrale della sua poesia, che è il manifestarsi di
una profonda contraddizione nel cuore dell’esistenza e della parola stessa.
La poesia di Ventre nasce da una radicale istanza etica, legata indissolubilmente ad una profonda esigenza
di ordine metrico, che in questo testo si esprime nell’utilizzo delle
pentapodie giambiche, esse stesse indicanti il battito inarrestabile del tempo
della vita. Nel libro di Ventre è
presente l’idea greca del limite come giustezza e come giustizia. E’ il limite
della vita e del verso, che qui si intrecciano, a dare forma all’esistenza e
alla parola. Ciò che costringe alla sua necessità, il limite che il destino ci
impone, ci dà la possibilità di essere liberi. Solo accettando le regole del
destino e della parola, si può sperare di dire qualcosa di veramente
significativo sull’uomo e sul mondo, quest’ultimo inteso nell’accezione greca
di cosmo di per sé ordinato. Questo gioco necessario e serissimo con la parola
e con il fato, si evince sin dai versi in epigrafe tratti da A game of chess da The waste land di T.S,
Eliot, che introducono il lettore alla
partita a scacchi che si svolge per tutto il corso delle trenta poesia. Partita
a scacchi che è colta in una fase di stallo,
in cui i due avversari, l’io e il destino (la morte), si studiano e si
osservano si riconoscono l’uno nell’altro, a tal fine si noti l’uso frequente
dell’immagine nello specchio (Ma
l’avversario offerto nello specchio/ dei giorni consumati nell’attesa/ sorride
per l’effimero bisbiglio). E questo stallo è tanto più inquietante in
quanto su di esso incombe la dissolvenza del nulla che prosciuga tutto, prima
che la partita sia terminata, annichila il rifiuto stesso che dà origine a ogni
esistenza (La carne offesa ai brividi del
nulla,/ le mie parole tendo come panni/ sdruciti sulle membra delle notti).
Il tempo è un fiume inarrestabile e la
riva del titolo non è una riva di salvezza da cui contemplare lo scampato
pericolo, come ad esempio in Dante, ma è il simbolo della fragilità dell’esistenza
che non accetta il fiume (eracliteo) del tempo, del divenire che porta con sé ogni
cosa. La riva è il simbolo dell’esistenza che si illude di potersi sottrarre al
tempo che travolge ogni cosa, ma in quest’illusione resta giocata, vinta essa
stessa. L’esistenza intuita come durata che scorre inarrestabile, è resa in
termini linguistici con versi che letteralmente scivolano l’uno nell’altro,
attraverso l’uso dell’enjambement, di parole allitteranti e l’uso di un metro
definito che scandisce lo scorrere dei versi che danno, appunto, la sensazione
di un flusso continuo e incalzante (Ma
non dovresti più stupirti adesso,/ se una menzogna di cangianti squame/
rifrange la rugiada nei bagliori/ d’un’alba ingannatrice, se nel fiore/ di
cento gemme si nasconde il buio:), che solo di tanto in tanto trova un
momentaneo rallentamento in alcuni a capo e nel punto che chiude ogni
frammento. Ma a ben guardare, la stasi del verso è essa stessa illusoria,
perché la voce della poesia riprende a fluire senza tregua in uno scorrere che
però non si disperde, non divora sé stesso, a differenza del tempo, ma trattenendo
un senso, anche se transitorio, si mostra nella sua intima e fugace bellezza,
in un balenio inafferrabile (Sul limite
del mare un’onda è forma/ al fluido dipanarsi delle vite./ Si sfrangiano i
cristalli nel brillio/ scomposto ai grani della rena fine). È in questa
contraddizione ineliminabile tra precipitare dell’esistenza nell’insormontabile
morte e lo stallo, paralisi annichilita in attesa della mossa finale, in cui essa cade, che si manifesta la
fragilità, riscattata solo da un barlume di bellezza, della condizione del
poeta e dell’umanità che in queste pagine prende voce (La semplice ragione del rifiuto/ è origine dei giorni. E tu rispondi,/
nell’anima vogliosa d’assoluto/ rispondi, con l’abbraccio della piena/ che
annichila le rive nel suo gorgo./ Ma il calcolo reprime in quiete leggi/ l’effimera
stagione: appena resta/ nel morbido covare delle ceneri/ la nostalgia dei
rapidi calori).
Francesco Filia
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